Quando il fotogiornalismo diventa glamour

  • didascalia: Two-year-old Suhaib Hijazi and his older brother Muhammad were killed when their house was destroyed by an Israeli missile strike. Their father Fouad was also killed and their mother was put in intensive care. Fouad’s brothers carry his children to the mosque for the burial ceremony as his body is carried behind on a stretcher, Gaza City, Palestinian Territories, November 20, 2012.
  • firma: Paul Hansen
  • fonte: http://www.worldpressphoto.org/content/swedish-photographer-paul-hansen-wins-premier-photo-contest-award

Provo a ragionare intorno al tema della recente discussione planetaria che ha coinvolto, tra gli altri, fotografi, photoeditor, giornalisti e analisti dell’immagine a proposito della foto di Paul Hansen che si è aggiudicata nei giorni scorsi il premio World Press Photo 2012. Una foto a questo punto pluricitata e vista ovunque, perfino in versioni diverse da quella ufficialmente presentata al WPP.
Se ne è discusso su vari siti italiani. Per citarne solo alcuni:
- sulla pagina facebook del GRIN (Gruppo Redattori Iconografici Nazionale),
- sul blog di Michele Smargiassi collegato al sito di Repubblica,
- sul sito della testata online Punto di Svista, a partire dall'intervento di Maurizio G. De Bonis,
- sull’Huffington Post, edizione italiana, a partire da un testo di Samuele Pellecchia,
- sul sito Il corsaro, con un articolo di Dino Maglie,
- sul sito di LSDI (Libertà di Stampa, Diritto all'Informazione).

Anche su numerosi siti internazionali si sono letti interessanti interventi. Citiamo, per qualità e varietà dei post/commenti:
- il blog di PhotoShelter,
- il sito Culture Visuelle, a partire da una analisi di André Gunthert.

Si è dibattuto:
- sull’elaborazione digitale a cui è stata sottoposta l’immagine per arrivare alla sua forma attuale,
- sulle reazioni del pubblico di fronte a un simile trattamento fotografico,
- sugli effetti a lungo termine di tale intervento nella percezione delle immagini giornalistiche,
- sul rapporto, in generale, tra forma e contenuto,
- sul rapporto tra deontologia della professione giornalistica ed estetica,
- sul significato di dedicarsi a discussioni sulla “forma” considerata la gravità dei “contenuti”,
- sulla opportunità o meno di considerare la “forma” come parte integrante dei “contenuti”,
- sulle tendenze dell’estetica delle immagini partecipanti ai premi internazionali di fotogiornalismo,
- sulla tendenza alla “glamourizzazione” o deriva “cinematografica” o meglio ancora “hollywoodiana” delle fotografie di reportage,
- sulla mancanza di committenza per i fotografi da parte dell’editoria e sulle sue conseguenze,
- sulla opportunità o meno di abolire premi come il WPP, che sarebbero la causa di molte tendenze negative del fotogiornalismo.
Forse ho dimenticato qualche altra questione affrontata.

Non sono mancate ovviamente, in tutto questo serrato, instancabile e oggettivamente pletorico dibattito, i richiami alle regole etiche e deontologiche, le rievocazioni dei “bei tempi andati” della camera oscura tradizionale basata sulle immagini fotografiche ai sali d’argento, la denuncia dell’abuso del ricorso sempre più massiccio a Photoshop, il biasimo della tendenza alla “spettacolarizzazione” dell’immagine, l’orrore per l’estetizzazione del dolore degli altri.

Quello che mi sento di sottolineare è il fatto che, forse a causa della (eccessiva?) rapidità con cui il dibattito si svolge sul web, si avverte la mancanza di precisi riferimenti bibliografici, di commenti che suggeriscano che questo o quel concetto non nascono oggi, per la prima volta, ma c’è chi ci ha già ragionato prima di noi, su questi temi, con strumenti magari più appropriati e a volte anche più sofisticati. Provo allora, non certo per fare il saccente ma per dare l’opportunità a tutti di conoscere o approfondire anche altri approcci, a riportare qui qualche brano da un volume in cui sono stati già affrontati questi problemi, anche se da un punto di vista esterno al mondo della fotografia, ma non per questo non adattabile al settore fotogiornalistico. Un punto di vista, a mio avviso, forse più interessante e utile proprio perché nato al di fuori dal dibattito sulla fotografia e dunque meno autoreferenziale.
Dal volume “Cattive notizie”, Feltrinelli 2005 (del linguista Michele Loporcaro) riporto, dal primo capitolo intitolato “Due idee di notizia, due idee di società”, il seguente passaggio (a pagina 15), che mi sembra avere dei possibili, forti agganci con quanto qui ci interessa.

“Per il nostro discorso dedicato specificamente al linguaggio e alla retorica dell’informazione sui mass media italiani contemporanei, è necessario da un lato tener conto di questo dibattito [sociologico, politologico, filosofico, n.d.r.], perché può fornirci delle coordinate complessive, ma è anche necessario d’altro canto semplificare. Lo faremo in modo radicale, isolando (…) due idee fondamentali e contrapposte di notizia che, vedremo, stanno in diretta relazione con due idee contrapposte di società (e, di riflesso, con due opposti programmi politici): da un lato, l’idea della notizia come informazione; dall’altro, l’idea della notizia come racconto mitico.”

Più avanti, nel paragrafo intitolato “Infotainment”, a pagina 21, si legge:

“Il problema, nella contrapposizione che abbiamo tracciato, è se alla pressione della creazione di miti, del racconto onnipresente possa o meno resistere uno spazio non soggetto a questo tipo di funzioni di aggregazione centrate sull’elemento non razionale, uno spazio tale da non dover obbedire alle regole dell’intrattenimento. Lo spazio, appunto, della notizia come informazione. Se la notizia come informazione resiste, è possibile salvaguardare lo spazio della sfera pubblica, lo spazio dell’informazione come stimolo per la coscienza civile, necessaria al dibattito democratico. Se questo spazio viene meno, se la notizia come racconto mitico – che obbedisce alle leggi dell’intrattenimento – invade tutto lo spazio disponibile, lo scenario cambia. Certo, la notizia è narrata. Ma se essa, programmaticamente, è ridotta ad una narrazione e se i confini tra le notizie e il resto, in tv e nei mass media in generale, divengono labili, lo spazio della sfera pubblica è perciò stesso in pericolo.”

Poco più avanti, (a pagina 22) Loporcaro aggiunge:

“Determinato da una dinamica economica irresistibile, l’infotainment è parte della cultura postmoderna, caratterizzata dal pastiche, da retorizzazione ed estetizzazione, relativismo, ecc.”

E, per concludere questa lunga citazione, nel paragrafo significativamente intitolato “Totalitarismo e società dello spettacolo”, (a pagina 24) l’autore di “Cattive notizie” ci mette così in guardia:

“ La notizia come informazione prevede un lettore-cittadino, che si interroga criticamente sugli eventi per trarne valutazioni. La notizia come mito prevede invece un lettore-massa, che per mezzo di un racconto vuole essere intrattenuto, divertito. Di-vertito, cioè, etimologicamente, distolto da altro: ad esempio da una considerazione critica della società. L’assenza di una prospettiva critica equivale direttamente ad un atteggiamento politico conservatore e/o reazionario.”

Io credo che in queste poche frasi che ho riportato del volume ci sia un chiaro riferimento alla cornice concettuale che contiene almeno parte del dibattito che si è scatenato a seguito della premiazione da parte del WPP della foto di Paul Hansen.
Ovviamente il volume di Loporcaro, nelle sue oltre duecento pagine e in capitoli come quello intitolato “La messa in scena delle notizie”, offre numerosi altri strumenti di analisi e spunti di riflessione.

Marco Capovilla


P.S. Rimane, a mio parere, una seria difficoltà in questo discutere sincopato e allargato nella nuova agorà del web: l’impossibilità di riconoscere una gerarchia di valore degli interventi - alcuni interessantissimi, altri francamente inutili - che si susseguono a velocità sostenuta su più piattaforme e su più livelli contemporanei, spesso all’insaputa l’uno dell’altro, in un continuum che non permette né di avere una visione d’insieme, né di riconoscere alcuna struttura del discorso che si sviluppa privo di schemi e spesso perfino privo di una direzione precisa. Non che si voglia qui rimpiangere i bei tempi in cui l’informazione arrivava da un broadcaster centralizzato e controllato dall’alto, senza possibilità di confronto e di feedback. Solo mi preme sottolineare che la nuova piazza elettronica che ospita il "discorso pubblico" costringe a un investimento di tempo spesso non facilmente disponibile. Siamo sottoposti al rischio della cosiddetta “Information Fatigue Sindrome”.