In memoria di Anja Niedringhaus, fotogiornalista

  • didascalia: Pulitzer Prize-winning photographer Anja Niedringhaus
  • firma: Tilman Dette / The Dartmouth Staff
  • fonte: http://thedartmouth.com/2007/05/18/news/pulitzer-prize-winning-ap-iraq-photojournalist-recounts-war

“Anja Niedringhaus è stata una delle fotogiornaliste di maggiore talento, coraggio ed esperienza della sua generazione. Sapeva raccontare il mondo attraverso le immagini in maniera straordinariamente efficace, grazie al suo sguardo acuto e alla sincera empatia che provava per i soggetti che fotografava. Il suo entusiasmo e il suo buonumore erano contagiosi, anche nelle situazioni più difficili. Si offriva sempre volontaria per gli incarichi più impegnativi e li portava tenacemente a termine, senza eccezione. Credeva fino in fondo nell’importanza di essere testimone diretta degli eventi.”

 

Questo il ricordo appassionato diramato ai media da Santiago Lyon, vicepresidente e direttore della fotografia dell’agenzia di stampa Associated Press, che conosceva bene Niedringhaus per averci lavorato assieme negli ultimi 22 anni, per commentare la drammatica scomparsa della fotoreporter lo scorso 4 aprile. La fotogiornalista dell’Associated Press è stata assassinata da una raffica di mitra sparata da un agente della polizia locale a Khost, in Afghanistan, mentre stava seguendo e raccontando con le immagini, in una regione orientale del paese, i preparativi delle elezioni politiche assieme alla collega giornalista Kathy Gannon, rimasta gravemente ferita nella sparatoria.

Anja Niedringhaus è stata l’autrice di migliaia di fotografie apparse sui media di tutto il mondo: lavorava infatti dal 2002 per l’Associated Press e aveva precedentemente lavorato per l’EPA (European Pressphoto Agency), fin dal 1990. La fotografa di origini tedesche i teatri di guerra li conosceva bene, dai Balcani all’Iraq, dalla Libia all’Afghanistan, ma si era spesso anche occupata anche di eventi sportivi, coprendo, tra gli altri, le olimpiadi di Atene nel 2004, di Pechino nel 2008 e di Londra nel 2012. Nel 2005 era stata insignita, assieme ai suoi colleghi dell’AP, del premio Pulitzer per la miglior serie di foto di attualità sull’Iraq. Nel 2006-2007 aveva potuto usufruire di una borsa della Nieman Foundation dell'Università di Harvard per approfondire, nel corso di un anno sabbatico, le tematiche del giornalismo contemporaneo.

  • didascalia: Il soldato Mattia Piras di guardia davanti a quanto rimane della base militare italiana di Nassiriya dopo l'attentato del 12 novembre 2003
  • firma: Anja Niedringhaus/AP

Tra le foto rimaste indelebilmente impresse nell’immaginario collettivo, quella del soldato italiano ripreso davanti alla base militare di Nassiriya poche ore dopo lo scoppio dell’autobomba che provocò la morte di 19 italiani e 9 iracheni. Alla diffusione planetaria dell’immagine Fotografia & Informazione ha dedicato un articolo.

Quell’articolo ha poi stimolato anche una riflessione sul valore simbolico, allegorico e mitico delle fotografie, e successivamente anche una nostra intervista esclusiva ad Anja Niedringhaus, tesa a chiarire come si fossero svolti i fatti, come fosse stata realizzata la foto, quali fossero le condizioni per la trasmissione satellitare e quali pensieri avessero attraversato la mente della fotografa mentre scattava quella immagine e subito dopo.

Fin qui il giusto e doveroso ricordo di una eccellente fotoreporter deceduta durante lo svolgimento del proprio lavoro.

  • didascalia: Last day of voter registration ahead of the presidential elections in Afghanistan
  • firma: Anja Niedringhaus/AP
  • fonte: http://www.anjaniedringhaus.com/

C’è una cosa che voglio però anche aggiungere a proposito di questa abitudine tutta italiana di glorificare la memoria dei fotogiornalisti solo dopo che sono morti. Lo dico con un misto di rabbia e di desiderio di cambiare questa situazione, pur con l’amara consapevolezza di non esserci ancora riuscito in tanti anni di proteste e di prese di posizione pubbliche, di articoli su questo sito e di interventi in convegni e incontri vari. Fino a venerdì 4 aprile 2014 di Anja Niedringhaus, intesa come professionista, come essere umano, come inviato nelle zone più pericolose del pianeta, ai giornali italiani non è importato un bel nulla, anche se sicuramente nel corso degli ultimi venticinque anni hanno pubblicato - inconsapevolmente - decine, centinaia o forse migliaia di sue foto. In particolare:

1 - non è importato a nessuno, il 13 novembre 2003, scrivere il suo nome sotto alla celebre foto di Nassiriya (con l’unica eccezione del Corriere della sera),
2 - non è importato scrivere il suo nome (e il nome degli altri dieci fotogiornalisti insigniti collettivamente del premio) nell’articolo che Il Venerdì nel 2005 dedicò ai fotografi dell’Associated Press vincitori, per quell'anno, del premio Pulitzer,
3 - non è importato approfondire chi fosse questa fotografa tedesca quando nelle cronache relative al premio Ischia per il giornalismo, nel luglio del 2003, il premio per la fotografia fu dato proprio a lei, per la qualità dei suoi reportage dai Balcani,
4 - non è importato nulla di Anja in tutti questi anni se si considera che:


- nell’archivio storico del Corriere della Sera dal 1 gennaio 1992 al 3 aprile 2014 il suo nome è apparso una manciata di volte in tutto (di cui tre relative alla medesima notizia, trainata però solo dal fatto che nella stessa edizione del premio Ischia era stato premiato anche Ferruccio De Bortoli),

- nell’archivio di Repubblica il suo cognome è apparso una sola volta dal 1 gennaio 1984 al 3 aprile 2014,

- nell’archivio storico della Stampa dal 1989 è apparso due volte in tutto.

 

Se compariamo questi numeri miserabili e vergognosi con la presenza del nome di Anja Niedringhaus nell’archivio del New York Times (l’astronomico numero di 2.480 volte - sì, avete letto bene: duemila quattrocento ottanta volte - dal 29 novembre 2001) comprendiamo quale abissale differenza ci sia tra i nostri giornali e quelli stranieri nell’attenzione alla fotografia giornalistica, e conseguentemente ai nomi dei testimoni oculari che rischiano quotidianamente la vita. Attenzione che non viene dimostrata soltanto quando i fotoreporter muoiono sul campo.

  • didascalia: Fallujah November 14, 2003 - A 1st Division Marine carries a good luck mascot in his backpack as his unit pushed into western neighborhoods of Fallujah. Coalition forces launched a major November offensive for control of the city.
  • firma: Anja Niedringhaus/AP
  • fonte: http://o.canada.com/news/kathy-gannon-wounded-by-police-afghanistan-anja-niedringhaus-killed/

Infine, e questo è sempre frutto della stessa scarsa attenzione, ma in questo caso anche di scarsa professionalità, come è possibile che su due quotidiani nazionali italiani ci siano, il giorno 5 aprile 2014, due diverse ricostruzioni di quel giorno a Nassiriya e che queste, a loro volta, differiscano da quella della fotografa, che venne da me interpellata via email pochi giorni dopo l’attentato e che gentilmente mi rispose con qualche giorno di ritardo, scusandosi per non essere riuscita a farsi viva prima (in quel periodo Niedringhaus era di stanza a Baghdad, ricordiamolo)? La fotogiornalista, come si può leggere nella intervista che pubblicammo dieci anni fa partì in realtà da Baghdad alle 12.30, quasi due ore dopo l’esplosione, avvenuta alle 10.39 del mattino, e arrivò a Nassiriya verso le 16. Poi le lentezze legate a motivi di sicurezza ritardarono ulteriormente la visita fino alle 17.30. E infatti nel frattempo, come si può chiaramente vedere nella foto, il teatro dell’esplosione era stato ripulito.

Scrive invece Nicola Pinna, giornalista che per La Stampa (edizione cartacea del 5 aprile 2014, prima pagina) ha raccolto a Cagliari la testimonianza del soldato con la mano sull’elmetto:


«In un attimo ha colto tutta la nostra disperazione». Ricorda così Anja Niedringhaus Mattia Piras, il soldato italiano immortalato dalla fotografa uccisa il 12 novembre 2003, subito dopo la terribile strage a Nassiriya, Iraq. A Nassiriya quel giorno Anja non ci doveva essere: aveva sostituito un collega all’ultimo momento. Mezz’ora dopo l’esplosione, però, era già lì, di fronte alla Base Maestrale.

Ma come "mezz’ora dopo"? Ma se nella foto si vede un cielo notturno, come è possibile fare questa affermazione?


Secondo invece Francesco Battistini, che su Corriere.it del 4 aprile 2014 riferisce le parole del caporal maggiore Mattia Piras:


«Anja scattò quella foto ed erano già passate più di sei ore, ma per me il tempo s’era fermato. Intorno, fumava ancora tutto. Lavoravo al settore della pubblica informazione, avevo accompagnato i primi giornalisti a vedere gli effetti dell’esplosione: c’era anche lei, “la tedesca bionda”, come la chiamavamo, perché stava al campo da un po’ di giorni. Mi misi di guardia: davanti a me non vedevo nulla, ero stravolto, mi asciugavo il sudore, le lacrime. Davanti agli occhi mi passavano solo i volti dei miei colleghi morti, gli amici uccisi dall’esplosione delle 10,39: Massimo, Silvio, gli altri ragazzi. Non mi accorgevo di nulla. In quell’attimo, lei fece clic…».

Nella foto si vede chiaramente che non c’è più alcuna traccia di fumo. E se, come riferisce Piras, “la tedesca bionda (…) stava al campo da un po’ di giorni”, come mai ha scattato solo “sei ore” dopo? Non viene il dubbio, al giornalista, che ci sia qualche contraddizione nelle parole di Piras? E se il dubbio è sorto, come mai l’autore dell’articolo non l’ha fatto notare al militare chiedendo di cercare di fare mente locale e ricordare meglio i particolari?

La lettura di un altro quotidiano, La Repubblica, che a onor del vero ha riportato correttamente i fatti, riserva un agghiacciante errore che mai s’era visto prima. Nel descrivere l’omicidio (pagina 16, box in alto a sinistra “La Giornata”, l’ignoto estensore dell’articolo inizia così il suo pezzo:

“Kabul. Allahu Akbar ha gridato il poliziotto che l’ammazzata (sic)."

Verrebbe da concludere “ammazzata  la fotoreporter e ammazzata pure la lingua italiana”.
Se parliamo poi dell’importanza della fotografia giornalistica, quella, nei giornali italiani, è stata ammazzata già molto tempo fa.

Marco Capovilla