Nell’immagine riportata lo stesso giorno in apertura da Repubblica, sempre a colori, il reporter ancora una volta non guarda lo spettatore, e ciò contribuisce ancora una volta a conferirgli quell’aria di distacco dal mondo e soprattutto dalla realtà italiana, che lo contraddistingue: sorride caldo e affettuoso, lo sguardo diretto orizzontalmente verso la sua sinistra, che si perde al di fuori del quadro. Ancora una volta, l’immancabile barba e capelli e la tunica bianca. Lo sfondo è bianco, così come la tunica, elemento plastico che non può che significare “purezza”. Alcuni quadri naif nello sfondo, a tinte vivaci, riportano un elemento figurativo terreno nel quadro. L’effetto di testo, nel complesso, è quello di un soggetto totalmente concentrato su se stesso e sui suoi obiettivi da rendere qualsiasi spettatore superfluo, anche se mai esplicitamente fastidioso. In più, è interessante sottolineare come Torsello assomigli in tutto e per tutto ai soggetti dei suoi stessi scatti (la popolazione afgana), con un ulteriore e potente effetto metatestuale di tipo autoreferenziale. L’aggettivo che può ben tradurre in parole questo insieme di sguardi obliqui è “sfuggente”. Un significato che può attirare così come infastidire lo spettatore medio, cui sfugge innanzitutto cosa mai ci possa essere dietro la conversione di un italiano all’Islam, e dietro ad una scelta di vita così difficile, spesso solitaria, alla ricerca dei mali del mondo, in una delle terre più impervie del pianeta. L’aria sfuggente infine, insieme all’effetto di “sollevamento” e distacco dal mondo terreno comunicate dagli scatti del soggetto, ben ascrivono la figura di Torsello al terreno semantico delle figure mitiche. Un mito di ventitrè giorni, tanto è durato il suo sequestro. Un mito temporaneo, potremmo definirlo, che nasce a muore con lo spegnersi dei riflettori della cronaca.
Francesca Micheletti
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Riportiamo di seguito alcune osservazioni a margine che abbiamo sollecitato allo studioso e critico della fotografia Roberto Signorini. Si tratta di un utile approfondimento del concetto di "punctum" in Barthes, sul quale non tutti sembrano avere un'interpretazione concorde.
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Roland Barthes ne La camera chiara (1980) contrappone lo studium e il punctum come due aspetti del “particolare interesse” che egli prova per certe fotografie (tr. it., p. 27; o dei “giudiziosi interessi che dest[ano] in lui certe fotografie”, p. 41), come due atteggiamenti con cui egli in quanto Spectator risponde all’immagine propostagli dall’Operator. Egli, in altre parole, sta considerando la fotografia come un “segno di ricezione”, per usare i termini che userà qualche anno dopo Jean-Marie Schaeffer (L’immagine precaria, 1987). Ora, mentre lo studium è “una sorta d’interesse generale, talora commosso, ma la cui emozione passa attraverso il relais raziocinante di una cultura morale e politica” (p. 27), il punctum è un “particolare” (p. 43) che “viene a infrangere (o a scandire) lo studium” perché ”questa volta non sono io che vado in cerca di lui (dato che investo della mia superiore coscienza il campo dello studium), ma è lui che, partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge” (p. 28). La contrapposizione a me non sembra fra un elemento oggettivo e uno soggettivo, ma fra due livelli dell’immagine fotografica, entrambi riguardanti la soggettività dello Spectator ricevente. Lo studium coinvolge la sua “superiore coscienza”, il punctum lo “trafigge”: “partendo dalla scena”, è vero, ma non in quanto il punctum sia oggettivo in contrapposizione alla soggettività dello studium, bensì in quanto esso, a partire “dalla scena”, va ad attivare nello Spectator qualcosa di cui egli non è del tutto cosciente. Un qualcosa di cui è stato ancora meno cosciente l’Operator: infatti “dal mio punto di vista di Spectator, il particolare viene fornito per caso e senza scopo; il quadro non è affatto ‘composto’ secondo una logica creativa” (p. 43); se certi particolari “non mi pungono, è senza dubbio perché il fotografo li ha messi lì intenzionalmente. […] Il particolare che mi interessa non è, o per lo meno non è rigorosamente, intenzionale, e probabilmente bisogna che non lo sia; esso si trova nel campo della cosa fotografata come un supplemento che è al tempo stesso inevitabile, non voluto; esso non attesta obbligatoriamente l’arte del fotografo; dice solamente che il fotografo era là” (p. 49).
In fondo, secondo me, Barthes non fa che elaborare ciò che Walter Benjamin (Piccola storia della fotografia [1931], in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it., p. 61-62) aveva già scritto mezzo secolo prima a proposito dell’elusività della fotografia nei confronti dell’arte e dell’autorialità a causa del suo rivelare l’“inconscio ottico” e accendere con la “scintilla” del caso l’attività della memoria: “Nella pescivendola di New Haven che guarda a terra con un pudore così indolente, così seducente, resta qualche cosa che non si risolve nella testimonianza dell’arte del fotografo Hill, qualcosa che non può venir messo a tacere e che inequivocabilmente esige il nome di colei che lì ha vissuto, che anche nell’effigie è ancora reale e che non potrà mai risolversi totalmente in arte. […] Nonostante l’abilità del fotografo, nonostante il calcolo nell’atteggiamento del suo modello, l’osservatore sente il bisogno irresistibile di cercare nell’immagine quella scintilla magari minima di caso, di hic et nunc, con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine […]. La natura che parla alla macchina fotografica è infatti una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente” (sottolineature mie).
Ma già nell’Ottocento alcuni precursori della riflessione teorica sulla fotografia avevano fatto osservazioni che andavano in questo senso.
L’inglese Elizabeth Eastlake (“Photography”, in London Quarterly Review, 1857) aveva scritto: “Anche se [in una fotografia] i visi dei nostri bambini non possono essere modellati e torniti con quella verità e bellezza cui giunge l’arte, tuttavia cose minime ¯ le precise scarpe dell’uno, il giocattolo inseparabile dell’altro ¯ sono rese con una forza di identità in cui l’arte non si prova neppure. Anche se la veduta di una città manca di quelle finezze di luci riflesse e di gradazioni armoniose che sono ciò che conta per l’arte, tuttavia c’è la presenza dei fatti che definiscono l’epoca e l’ora, poiché possiamo contare in tutta la loro nitidezza quei certi fili telegrafici in prospettiva, e leggere i caratteri di quella locandina o di quel manifesto che domani saranno strappati via” (sottolineature mie).
E lo statunitense Oliver W. Holmes (“Lo stereoscopio e la stereografia”, in Atlantic Monthly, 1859): “In una raffigurazione pittorica non puoi trovare nulla che l’artista non abbia visto prima di te; ma in una fotografia perfetta ci saranno tante bellezze nascoste, inosservate, quanti sono i fiori che avvampano non visti nelle selve e nei prati. […] Spesso abbiamo constatato che queste impressioni incidentali […] avevano in noi il sopravvento rispetto al soggetto principale che la raffigurazione intendeva rappresentare. Quanto più è evidentemente accidentale la loro introduzione, quanto più sono banali in se stesse, tanto più esse fanno presa sull’immaginazione. […] Proprio quelle cose che un artista tralascerebbe, o renderebbe in modo imperfetto, la fotografia le coglie con infinita cura, rendendo così perfette le proprie illusioni. Che cos’è la raffigurazione di un tamburo senza i segni sulla superficie, là dove il percuotere delle bacchette ha scurito la pelle? […] Il particolare che l’artista trascura nel cercare di produrre un effetto generale, potrebbe essere proprio quello che serve per catturare la nostra memoria. […] Quel particolare non rappresenta nulla per lui, ma per noi è ciò che resta della pianta di caprifoglio, che ricorderemo a lungo, con i suoi fiori rosa e bianchi intensamente profumati” (sottolineature mie).
Alla luce di queste considerazioni, mi sembra allora che l’affermazione di Francesca Micheletti secondo cui l’espressione autocentrata e spirituale di Gabriele Torsello “costituisce quello che Roland Barthes chiamava il punctum della fotografia”, se davvero si trattasse di punctum, dovrebbe essere accompagnata dalla precisazione “per me come Spectator”, poiché sarebbe un particolare, un elemento di hic et nunc “fornito per caso e senza scopo” dall’Operator, e da cui solo lei come Spectator sarebbe “trafitta” al di là della sua “superiore coscienza”. Tuttavia, nell’articolo l’autrice inserisce questo come altri aspetti dell’immagine di Gabriele Torsello in un “processo di costruzione dell’identità visiva dell’ex ostaggio” attuato dagli organi di “informazione” (qui le virgolette sono mie), e quindi lo fa ricadere in ciò che per lei come Spectator è invece lo studium delle immagini in questione.
Qui mi sembra che la sua analisi vada incontro a una contraddizione: se tutto è costruito come messaggio manipolato, allora lo studium si dilata fino a non lasciare alcuno spazio al punctum; se invece c’è un punctum, vuol dire che questo è sfuggito all’azione organizzatrice (manipolatrice) e creatrice di studium dell’Operator e soprattutto di chi poi ne ha usato l’immagine con successivi interventi contestuali di rafforzamento e dilatazione dello studium (infatti quello che nell'immagine fotografica originaria può essere punctum lo si può, con le operazioni contestuali di taglio, impaginazione, didascalizzazione ecc. tipiche di un quotidiano illustrato, trasformare, o almeno tentare di trasformare, in studium; l'analisi di Barthes ne La camera chiara non prende mai in esame il contesto di diffusione delle fotografie che egli commenta).
Ma la contraddizione riguarda, più che il discorso dell’autrice, due questioni più generali: da un lato il metodo dell’analisi semiotica, dall’altro la realtà della “comunicazione” manipolante. Per quanto riguarda il metodo semiotico, esso ha il difetto di presupporre una intenzionalità e una codificazione “totalitarie”, capaci di occupare e controllare ogni spazio, e implicitamente nega che vi siano “resti” incontrollati: non a caso il Barthes de La camera chiara deve allontanarsi molto dalla tendenza totalizzante (anche se meritoriamente demistificatrice) della semiologia, per affermare un approccio alle fotografie di tipo fenomenologico ed emotivo, apparentemente meno critico ma alla lunga, forse, non meno “sovversivo”. Dall’altro lato, la “comunicazione” manipolante non riesce a manipolare proprio tutto, anche se lo vorrebbe, e possono sfuggirle quegli elementi di hic et nunc cui non ha saputo trovare posto nella propria organizzazione totalitaria del discorso per immagini e parole.
Per entrambi questi motivi, penso che se l’espressione autocentrata di Gabriele Torsello può essere per l’autrice un punctum, questo accade solo perché essa ha colto come Spectator ciò che come semiologa vorrebbe negare: la libertà indisciplinata e ribelle di un tipo di immagine quale la fotografia, che “sembra un quadro ma funziona come un ready-made”, nella quale iconicità e indicalità (studium e punctum, arte ed “estetica”) stanno in continua tensione dinamica, senza che mai l’una riesca del tutto ad azzerare l’altra, anche in quel frullatore totalitario e unidimensionale che è la “comunicazione” di massa. Si tratta di uno spazio di libertà che è un peccato non cogliere, perché anche attraverso il suo varco può passare la critica e l’opposizione alla “chiusura dell’universo di discorso” (Marcuse, L’uomo a una dimensione, 1964) che caratterizza il tardo capitalismo. Forse nelle fotografie in questione è rimasta una traccia indicale, una porzione di hic et nunc mediaticamente non utilizzabile, del “vero” Gabriele Torsello in quanto individuo complesso (cioè in quanto mistero), che per fortuna è così sfuggita alla manipolazione e al “processo di costruzione dell'identità visiva”, e che in un osservatore critico (mai da escludere in linea di principio) sollecita domande sulla persona che sta dietro e sopra il personaggio.
Roberto Signorini