Fotogiornalismo: un problema epistemologico

  • didascalia: Dorothea Lange (Hoboken, 26 maggio 1895 – San Francisco, 11 ottobre 1965), una tra le più note fotogiornaliste e foto documentariste americane, attiva dagli anni '30 del '900, fotografata dal marito Paul Taylor nel 1934
  • firma: Paul Taylor
  • fonte: http://www.scottnicholsgallery.com/exhibitions-2012-2/dorothea-lange-a-photographers-journey/

Stando al termine è tutto molto semplice: il fotogiornalismo non è altro che una forma di giornalismo ottenuta mediante l’utilizzo di fotografie. Nel linguaggio comune (a dire il vero piuttosto grossolano), il giornalista e il fotogiornalista, qualora producano lavori particolarmente approfonditi, vengono designati entrambi come reporter: l’uno scrive con la penna, l’altro, come dice la photoeditor Chiara Corio, con la luce.

Tuttavia le cose non stanno proprio così, per lo meno se si vuol far bene il proprio mestiere. Scrive Kapuściński (1):

Un giornalista è sempre uno storico. Il suo lavoro consiste nel ricercare, esplorare, descrivere la storia nel suo farsi. Le conoscenze e l’intuito dello storico sono la qualità fondamentale di ogni giornalista. È facile riconoscere il buon giornalismo da quello cattivo: nel buon giornalismo, oltre alla descrizione di un evento viene data anche la spiegazione del motivo per cui è accaduto; quello cattivo si limita semplicemente alla descrizione dei fatti, senza collegarli al contesto storico. C’è il resoconto del fatto in sé, senza che ne possiamo capire le cause e i precedenti.

  • didascalia: Ryszard Kapuściński (1932-2007), giornalista e scrittore Polacco
  • firma: Mariusz Kubik, http://www.mariuszkubik.pl
  • fonte: http://commons.wikimedia.org/wiki/User:Kmarius

Una simile affermazione pone un problema epistemologico per quanto riguarda il fotogiornalismo, rendendo per lo meno inadeguata la sua comparazione al giornalismo scritto, poiché nella migliore delle ipotesi l’immagine non può comunque avere precedenti, o porre in alcun modo la questione delle cause o degli effetti. Oltremodo, non è neppure il caso d’invocare il carattere probatorio della fotografia per opporlo, in un’assurda corsa al riconoscimento, all’umiltà testimoniale della parola, se non altro perché l’obiettività è un carico troppo grande per l’uomo, scrittore o fotografo che sia. Ogni testimonianza, lontano dal voler riportare semplicemente la realtà ce ne restituisce un distillato, ma è proprio attraverso l’epurazione del dato immanente che il testimone diventa credibile.

La realtà, nel suo insieme, semplicemente è! Non va cercata né compresa perché l’essere è per sua natura vuoto, privo di senso, già oltre ogni logica. Nel mettere in fila i frammenti di un presente altrimenti illeggibile, il testimone opera col rigore dell’archivista tanto che Pasolini poté scrivere, sul Corriere della sera del 14 novembre 1974 (2):

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere.

  • didascalia: Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Lido di Ostia, 2 novembre 1975) è stato un poeta, giornalista, regista, sceneggiatore, attore, paroliere e scrittore italiano
  • firma: autore non noto, foto nel pubblico dominio poiché il copyright (20 anni) è scaduto
  • fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Pier_Paolo_Pasolini2.jpg

Il buon giornalismo inizia con la messa in prospettiva – secondo la propria interpretazione – dei fatti e finisce con la valutazione soggettiva dei loro effetti. Nessuno ne parla, ma mi pare evidente che questa metodologia non possa essere applicata al reportage fotografico, poiché il carattere più evidente della fotografia, il suo noema direbbe R. Barthes, consiste nella serrata intesa con l’attualità, con l’hic et nunc. Secondo la giornalista inglese M. Roby «la foto di un mutilato mostra soltanto che si è fotografato un mutilato, non fornisce alcuna indicazione né sul luogo né sulle circostanze del delitto e non prova nulla più del suo contenuto» (3); proprio per questo se mostra più di quanto possano fare mille parole, infine non spiega un bel niente. Sintesi perfetta di un realismo mai visto prima, l’evidenza inconfutabile della fotografia è un costante invito «alla deduzione, alla speculazione e alla fantasia» (4), ed è davvero ironico che un eccesso di realtà possa indurre all’immaginazione. Dunque in che modo, non potendo cogliere cause ed effetti, può esistere un buon fotogiornalismo?


Credo che nel rispondere sia necessario affrancare il reportage fotografico da quello scritto, senza tuttavia dover interpretare questa distanza come un fallimento. È necessario capire cosa possa aggiungere l’immagine al testo e se possa penetrare nei territori rimossi della parola. Dopotutto ciò che la grammatica del testo scritto ignora sono proprio i momenti in cui il discorso resta sospeso, l’istante muto (ma non insignificante) che è all’opposto il tema taciuto d’ogni fotografia. Un attento esame critico necessità del contributo offerto dalle immagini proprio perché queste ne mettono tra parentesi la logica d’insieme, mostrando così allo spettatore una realtà che non sempre trova nella parola una degna traduzione.


Oltre il significato di un evento c’è la sua diretta presentazione, la forma, la superficie, e se ancora non siamo in grado di leggerla con la dovuta attenzione è soltanto perché non disponiamo ancora di utili strumenti analitici, così che ci ostiniamo a credere che l’apparenza si opponga o persino occulti il significato. La leggibilità di un discorso è vincolata alla coerenza, ed è vincolata ad una grammatica che costringe la realtà nelle celle preordinate delle riflessioni sequenziali. Se agiscono nel sospendere il giudizio le fotografie lo fanno non perché insignificanti, ma perché eternamente risignificabili e libere di contraddirsi uno scatto dopo l’altro. La grammatica di un racconto fotografico è gioco forza discontinua, libera dalla tirannia della logica e del senso e ciononostante ricca di riferimenti ad un “fuori” che debba essere indagato. L’immagine non parla al posto della parola o come la parola, ma pronuncia ciò che la voce o la scrittura non possono che tacere. Fotografare non significa scrivere, un reportage fotografico non ha nulla a che vedere con un articolo di giornale. Piuttosto, simili agli aforismi, le fotografie ci parlano dell’amore incondizionato per i frammenti… ecco il loro contributo alla comprensione della realtà.



Mirko Orlando

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(1) R. Kapuściński, Nel turbine della storia, Feltrinelli; Milano 2011, p.12
(2) Ora in P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti; Milano 2008, p.88
(3) Cit. in P. Sorlin, Figli di Nadar, Einaudi; Torino 2001, p.XV
(4) S. Sontag, Sulla fotografia, Einaudi; Torino 1978, p.22