Quel che resta dell'immagine

Il fotogiornalismo è di sinistra? Qualche risposta dal G8 di Genova. Dove l'inondazione di foto di professionisti e dilettanti ha spesso nascosto ciò che doveva mostrare. Tra censure preventive istituzionali, autocensure, censure implicite imposte dai committenti è prevalso il "fatto omnibus", la notizia insignificante, quella che non turba nessuno, né fa discutere o riflettere. Si occultano, mostrando qualche centinaia di black bloc, le migliaia di manifestanti pacifici e l'inaudita violenza della repressione poliziesca
LEONARDO BROGIONI *

La contestazione dell'incontro tra i leader delle otto superpotenze mondiali è stato l'evento più ripreso nella storia dell'umanità: 30.000 macchine fotografiche e 10.000 telecamere erano in funzione a Genova durante il G8. La presenza di operatori professionali dell'immagine è stata la più massiccia di sempre.
Ciò nonostante alcuni organi di stampa sono stati costretti a lanciare appelli che invitavano partecipanti e testimoni dell'evento ad inviare immagini in redazione. Il settimanale Diario, i quotidiani Liberazione e il manifesto, il periodico Carta, i siti di Indymedia, Isola nella Rete, Radio Sherwood e lo stesso Genoa Social Forum hanno fatto espressa richiesta di documenti visivi, anche e soprattutto amatoriali. Immagini di dilettanti che persino le televisioni hanno disperatamente cercato e poi freneticamente trasmesso: a distanza di giorni dall'evento non passava telegiornale senza che nuove testimonianze visive venissero pubblicate o messe in onda. Un fatto ben strano nell'epoca dell'informazione in tempo reale: le fotografie dei goal segnati sui campi di calcio arrivano dopo due minuti dalla loro realizzazione nell'ufficio grafico dei quotidiani ed invece foto e filmati di un evento di risonanza mondiale come il G8 appaiono a distanza di giorni sui nostri teleschermi.
Situazione apparentemente contraddittoria, ma ben comprensibile. Con i mass media a disposizione di chi oggi vuole creare consenso intorno al sistema economico e politico vigente, è facile impedire alla maggioranza dei cittadini l'accesso a strumenti che potrebbero sviluppare un senso critico nell'opinione pubblica. Ecco dunque che la completezza dell'informazione viene soppiantata dallo spettacolo di un'informazione superficiale, facilmente digeribile, rassicurante, e qualora ciò fosse impossibile, noiosa o distraente. In ogni caso facile preda del mercato.
Questo meccanismo spinge l'attenzione dei mass media verso quelli che il sociologo francese Pierre Bourdieu, nel suo saggio "Sulla Televisione", ha definito "i fatti omnibus". "I fatti omnibus - dice Bourdieu - sono fatti che non devono turbare nessuno, non sono oggetto di controversia, non dividono, suscitano il consenso, interessano tutti, ma in modo tale da non toccare nulla di importante. Il fatto di cronaca è una specie di materia prima elementare, rudimentale, dell'informazione, una cosa molto importante perché interessa tutti senza preoccupare nessuno, una cosa che porta via tempo, un tempo che potrebbe essere impiegato per dire altro. Ora, il tempo è una materia prima estremamente rara alla televisione. E se si impiegano minuti tanto preziosi per dire cose tanto futili, ciò dipende dal fatto che queste cose tanto futili in realtà sono molto importanti, nella misura in cui nascondono cose preziose. (...) Ora, ponendo l'accento sui fatti di cronaca, riempiendo di vuoto, di nulla o di quasi nulla questo tempo raro, si occultano le informazioni pertinenti che il cittadino dovrebbe possedere per esercitare i propri diritti democratici. (...) Si occulta mostrando: mostrando altro da ciò che si dovrebbe mostrare se si facesse ciò che si è chiamati a fare, cioè informare; oppure anche mostrando ciò che si deve mostrare, ma in modo da non mostrarlo affatto, o da renderlo insignificante, o costruendolo in modo tale da attribuirgli un senso che non corrisponde in alcun modo alla realtà".
Giornali e telegiornali di questa estate hanno felicemente sguazzato tra l'eruzione dell'Etna, la telenovela Milingo, l'estate più calda dell'anno, l'apoteosi Ferrari, i 40 milioni di italiani che sono andati in vacanza e gli altri 40 milioni che invece sono rimasti in città. Pochi hanno sentito il diritto-dovere di farci vedere le migliaia di persone che a Genova hanno manifestato pacificamente, ancora meno hanno sentito il diritto-dovere di farci capire perché 350.000 persone hanno sfilato in un corteo, cos'è la globalizzazione, cos'è l'anti-globalizzazione, cosa ha spinto decine di persone a rendersi protagoniste di atti di teppismo, come e perché le forze dell'ordine hanno agito con tale premeditata violenza nei confronti di manifestanti inermi. Altre sono state le immagini, altri i commenti. Si occulta mostrando. Si distrae l'opinione pubblica con un'inondazione di immagini e notizie che restituiscono soltanto l'idea di un evento, ma non la sua complessa realtà. L'avvenimento diventa spettacolare e quindi astratto, astratto e dunque lontano, lontano e perciò innocuo. L'ennesimo show da gustare standosene a casa, bravi, belli e tranquilli davanti alla televisione o ad un prestigioso giornale. Ma chi da questi ultimi volesse avere strumenti utili per capire resterebbe deluso. In questo quadro devono inserirsi i fotogiornalisti professionisti, costretti ad adeguarsi ad un meccanismo perverso dai cui ingranaggi escono inevitabilmente stritolati.
Da sempre infatti le grandi istituzioni economiche e politiche usano tre strumenti, tradizionalmente a loro disposizione, per evitare le influenze della stampa non compiacente e le interferenze dell'opinione pubblica:
* la censura (che - per quanto riguarda i fotogiornalisti - viene attuata non solo tramite i divieti di accesso alle zone calde ma anche grazie ad un sistema di filtri consequenziali utilizzati all'interno di redazioni conniventi: permessi concessi solo a certe testate o agenzie ed immagini destinate a dover superare selezioni in fasi successive - quella del photo editor o dell'art director, del capo redattore o del vice direttore ed infine, se proprio riescono ad arrivarci, quella del direttore).
* la produzione di un grande quantitativo di notizie alternative a ciò che succede nei luoghi dell'evento vero e proprio (in tale ottica vanno viste le infiltrazioni di finti "black bloc" che a Genova hanno fomentato telegeniche violenze distogliendo l'attenzione dalle migliaia di persone che sfilavano in un corteo pacifico).
* lo spostamento dell'attenzione dello spettatore verso queste notizie alternative e costruite - che poi sono "fatti omnibus" interni all'evento di cui si deve parlare (nel caso di Genova, le annunciate violenze: si accentuano le paure degli scontri, si mostrano le misure di sicurezza, si fa vedere l'equipaggiamento di manifestanti e poliziotti, si disserta sul disagio degli abitanti e sui negozi forzatamente chiusi, si parla della città martoriata, si conclude con un bell'editoriale del bravo e famoso giornalista).
I fotoreporter, obbligati a fotografare i "fatti omnibus" anche all'interno di un singolo evento, pur di riuscire a pubblicare e quindi guadagnare qualcosa, finiscono tra due censure prima e tra due fuochi poi (quello della polizia e quello dei sedicenti "black block", entrambi impegnati a distruggere ogni tipo di materiale visivo che possa smascherarli o addirittura incriminarli).
Così quei diligenti fotografi professionisti che a Genova sono andati a fotografare i fatti di sangue sono finiti inevitabilmente insanguinati. Privati dei loro strumenti, dei loro rullini e quindi delle loro fonti di sostentamento, molti di loro sono rimasti senza un'immagine e dunque senza una lira.
Eh già, perché quasi tutte le testate e le agenzie fotografiche italiane (che ormai possiamo considerare economicamente e politicamente un tutt'uno) pagano i fotografi loro collaboratori, "a venduto" - come si dice in gergo - cioè solo se qualche redazione decide di acquistare le loro immagini. Niente pubblicazione, niente guadagno. E' così che a Genova sono venute a mancare immagini professionali.
Vuoi guadagnare qualcosa? Fotografa il sangue, se ci riesci. Hai fotografato il sangue? Ti sei guadagnato le botte.
Ed è così che l'informazione viene pesantemente condizionata anche da superiori interessi economici. E' il principio che - consentendo a chi scatta una foto di Milingo e consorte di guadagnare dieci volte tanto rispetto a chi rischia la vita a Genova - vuole spingere un gran numero di fotografi verso la documentazione di innocue facezie. Dove c'è spettacolo c'è business ed il "fatto omnibus" oltre ad essere politicamente utile si vende bene (vedi i vari esempi di Real Tv e Verissimo individuabili su varie emittenti ed altrettanti rotocalchi).
Il rapporto venutosi a creare tra fotografo e committente consente a quest'ultimo di assumere una posizione di predominanza tale da rendere il fotogiornalista economicamente molto debole e quindi facilmente ricattabile. Sembra quasi che siano state agenzie e case editrici a scoprire i vantaggi del lavoro interinale, anticipando di anni la tendenza del mercato a svincolarsi dall'offerta di un impiego fisso. Qualsiasi ricatto è eticamente ed economicamente perdente, ma questa situazione rende totalmente dipendente dalla struttura committente colui che in modo paradossale viene ancora definito un libero professionista. E, visto che si sta parlando di giornalismo, la differenza non è da poco perché riguarda la libertà di informazione e di espressione in un intero paese.
Questa dipendenza del fotoreporter nei confronti del committente nella pratica diventa infatti un controllo e cade a fagiolo per tutte quelle istituzioni e strutture che considerano "pericoloso" il fotogiornalismo. Come ha scritto Edgar Roskis, docente di comunicazione dell'Università di Parigi, su Le Monde Diplomatique: "Esistono filmati e riprese video del vietnamita "sospetto", ucciso a bruciapelo il 1 febbraio 1968 dal capo della polizia di Saigon, della bambina nuda, bruciata con il napalm, che corre sulla strada fuggendo dal villaggio sud-vietnamita di Trang Bang, del cinese che blocca a mani nude una colonna di carri armati nelle vicinanze di piazza Tiananmen. Ma, indiscutibilmente, ciò che rimane in quello che, a torto o a ragione, si usa chiamare "l'inconscio collettivo", sono le immagini fisse, firmate rispettivamente da Eddie Adams, (Ap), Nick Ut (Ap) e, per la Cina, da almeno tre fotografi d'agenzia (Ap, Sipa-Press e Magnum)". Chi oggi produce o fruisce fotogiornalismo deve approfondire sia contenuti che immagini, deve guardare e non sfogliare, deve fermare l'occhio e non passare lo sguardo, deve riflettere fino ad arrivare molto probabilmente a capire ed a formare una memoria incancellabile. Esattamente il contrario di ciò che serve a chi vuole creare consenso basando l'informazione sulla velocità e sulla superficialità sia di produzione che di fruizione delle immagini e che per questo vuole controllare chi potrebbe produrre fotografie "scomode" prima che le realizzi.
"Non esistono fatti in sé. Bisogna sempre cominciare con l'introdurre un senso perché possa esserci un fatto" diceva F. Nietzsche. Il mondo dell'odierna superficialità disinformata funziona esattamente al contrario: prima si creano i fatti e poi si fa a gara per dargli un senso. Si parte cioè strumentalmente dal fondo allo scopo di attirare dalla propria parte più etti di popolo bue possibile. Per fortuna, come dimostrato anche a Genova, ci sarà sempre qualcuno in grado di realizzare un'immagine che resterà fissa nella nostra memoria, contribuendo a farci ricordare e magari un giorno a farci capire. Qualcuno che riesce a stare in equilibrio tra i tentativi e le tentazioni dell'informazione spettacolo facendo diventare la fotografia di reportage uno dei pochi strumenti a nostra disposizione per sfuggire a manipolazioni e bugie di qualsiasi genere. Un fotoreporter libero, professionista o dilettante - a questo punto - poco importa.

* fotografo, docente di fotogiornalismo e ricerca editoriale presso l'Istituto Europeo di Design e la John Kaverdash School di Milano. info@leobrogioni.it