Instagram: opportunità o minaccia?

“Voi premete il pulsante, noi facciamo il resto” fu lo slogan scelto da George Eastman, fondatore della Kodak, per pubblicizzare nel 1888 la prima fotocamera destinata a rendere la fotografia un passatempo anche per i meno esperti. Una frase che, ai giorni nostri, potrebbe calzare a pennello anche per Instagram, l'applicazione gratuita con cui gli utilizzatori di smartphone possono scattare foto, applicarvi suggestivi filtri e condividere le immagini attraverso numerosi social network. Il tutto in modo estremamente semplice, veloce e accattivante. Acquisita nei mesi scorsi da Facebook, Instagram è stata ufficialmente messa a disposizione del pubblico a partire dal 6 ottobre 2010 e in due anni ha superato la soglia dei cento milioni di iscritti (tra loro, anche l'ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema dell'Iran).

Instagramers” - la community degli appassionati di Instagram -  conta una trentina di gruppi locali in Italia e oltre 280 in tutto il mondo, gruppi che organizzano varie attività fotografiche e incontri dal vivo. L'”Instagram mania” è un fenomeno talmente tangibile, che all'applicazione è stata anche dedicata la canzone “Put a filter on me”, una parodia in cui si ironizza, tra i vari aspetti, sull'impulso irrefrenabile di molti a immortalare qualsiasi cosa e sull'utilizzo dei filtri. Particolarmente ironico anche il video “@thexavius: Portrait of an Instagram Artist”, che mostra all'opera quello che viene scherzosamente presentato come uno dei più grandi artisti Instagram al mondo.

  • didascalia: un'immagine tratta dal video della canzone "Put on filter on me"
  • fonte: http://www.youtube.com/watch?v=mjHb5KfhQJ0&feature=player_embedded

Il fondatore di “Instagramers”, Philippe Gonzalez, aiuta a comprendere il perché di un simile successo dell'applicazione. Come spiega, infatti, nel sito della community, Instagram porta alla luce il lato creativo di ognuno («consente di fare foto artistiche, anche se ti sei sempre considerato la persona meno creativa sulla terra») e, al contempo, rende gli utenti parte di una comunità internazionale e multiculturale. «È stata capace di aggiungere valore alle foto» afferma Gonzalez in un'intervista a La Repubblica.«Grazie ai filtri spinge sull'ego delle persone cui fa credere di avere una creatività superiore». E ancora: «Instagram è molto più della fotografia. È comunicazione. Con Instagram siamo tutti fotoreporter».

Ecco riassunti in poche parole, dunque, due nodi cruciali del “caso Instagram”: l'ego delle persone e la diffusa illusione che uno smartphone in mano basti a rendere “tutti fotoreporter”. Un'illusione alimentata su più fronti, e da tempo, ormai. Basti pensare all'ultima edizione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, svoltasi lo scorso aprile, in cui il fotogiornalismo, come abbiamo già scritto, oltre ad apparire come una sorta di "delizioso orpello", è stato proposto come un'attività praticamente alla portata di tutti, al pari del resto dell'informazione. Oppure, per citare un esempio più recente, al comunicato stampa di presentazione di Pubblico, nuovo quotidiano diretto da Luca Telese, dove si spiega che «la redazione interamente dotata di smartphone, rende ogni redattore una sorta di fotoreporter, capace di illustrare e comporre il pezzo direttamente sul campo, per un giornalismo all’avanguardia, veloce e attento alla realtà». Questa, d'altra parte, è una logica conseguenza della mancanza di un'adeguata cultura fotogiornalistica nel nostro Paese, un gap che, nel nostro piccolo, noi di “Fotografia & Informazione” ci siamo impegnati a denunciare e che stiamo tentando di compensare con i nostri articoli, le nostre iniziative culturali e un costante dibattito.

  • didascalia: home del sito di Instagram
  • fonte: http://instagram.com/

Riguardo alle potenzialità offerte da Instagram nel settore giornalistico, nella Rete sono fiorite negli ultimi tempi molte riflessioni e su vari aspetti: interazione con i lettori, rispetto di deontologia ed etica, ecc. «L’opzione “mi piace” che accompagna ogni immagine incoraggia attivamente il coinvolgimento degli utenti» spiega, per esempio, Amy Adfield in un post su Editorsweblog.org ("Instagram: could the social networking site be an effective tool for journalists?"), ripreso in italiano da Lsdi. «La combinazione di una grande community online e la disponibilità di forti funzioni interattive è un mix inebriante per le testate giornalistiche desiderose di aumentare la visibilità del loro marchio fra il pubblico digitale». Nel post l'autrice cita anche il fotogiornalista Nick Stern, che in un articolo per CNN.com (“Opinion: why Instagram photos cheat the viewer”) condanna l'utilizzo, da parte delle redazioni, delle foto scattate e ritoccate con Instagram, giudicandolo non etico: l’uso dei vari filtri, infatti, a suo parere produce un'immagine ingannevole, falsa. Quello che contraddistingue i grandi fotoreporter, afferma Stern, è la capacità di trasmettere consapevolmente le emozioni legate a un fatto (anche le proprie), per esempio con la scelta della luce, dell'angolazione o del tipo di obiettivo. L'immagine prodotta con Instagram, sostiene, è invece sostanzialmente il frutto del lavoro degli sviluppatori dell'applicazione, che hanno stabilito “a monte” le caratteristiche dei filtri volti a rendere una fotografia più accattivante. «Negli ultimi anni diversi fotoreporter sono stati giustamente licenziati per aver alterato le immagini con Photoshop. Uno ha aggiunto del fumo per aumentare l'aspetto drammatico di un bombardamento, un altro ha tagliato da una fotografia e incollato su un'altra un soldato armato di fucile e un altro ancora ha rimosso da un'immagine la sua stessa ombra» osserva Stern. «Hipstamatic, Instagram e altre applicazioni producono immagini che in egual modo, o forse anche di più, violano principi etici e norme deontologiche».

  • didascalia: una delle fotografie del progetto "Grandmother tips" del creativo spagnolo Chacho Puebla (immagini scattate dalla sorella Lula)
  • fonte: www.behance.net/gallery/Grandmother-Tips/2392946
  • nota: licenza CC BY-ND 3.0

La photo editor Heather Murphy in un articolo sul quotidiano americano on-line Slate (“In defense of Instagram: why news photography goes well with vintage-filtered cat pics”), afferma di essere a sua volta contraria, nel campo dell'informazione, sia alla visibilità data a immagini scattate con il cellulare di per sé mediocri ma con un appeal derivante dall'uso di filtri, sia all'alterazione sensibile di una fotografia (a prescindere dal software utilizzato). Ma non ritiene Instagram una minaccia per il  fotogiornalismo, bensì un'opportunità. «La vera minaccia – commenta infatti – è che i fotoreporter professionisti si rifiutano di entrare in contatto con la piattaforma. Se vi spendessero un po' più di tempo, si renderebbero conto che  Instagram è molto di più di questi filtri finto-vintage». Per Murphy, il tratto distintivo dell'applicazione non sono i filtri  bensì il network, il pubblico che interagisce. Milioni di fotoamatori che più volte al giorno caricano le proprie immagini e commentano quelle degli altri.

«Stern non deve preoccuparsi del fatto che un'applicazione gratuita permetta ai neofiti di replicare le abilità dei fotografi professionisti» afferma inoltre la photo editor di Slate. «In termini di fotogiornalismo, c'è poco, tra quelle foto, che potrebbe essere scambiato per professionale. […] un'app, da sola, non fa una buona immagine». Secondo Murphy, Instagram può agevolare nel lavoro i reporter che hanno scarse competenze fotografiche, contribuendo parallelamente a un loro avvicinamento alla fotografia. D'altra parte, fa presente, un utente può anche decidere di non usare filtri o di caricare su Instagram immagini scattate con fotocamere migliori di quelle presenti sui cellulari. Chiunque può usare l'applicazione rispettando i propri eventuali “paletti” giornalistici, insomma: «Bisogna solo essere disposti a mettersi in gioco».

  • didascalia: foto su "Insta-great!", un sito che raccoglie le instantanee di Instagram più popolari
  • fonte: www.instagre.at

In un articolo del British Journal of Photography (“The new economics of photojournalism: the rise of Instagram”, di Olivier Laurent), alcuni fotogiornalisti spiegano i motivi che li hanno spinti ad avvalersi di Instagram. C'è chi usa l'applicazione, per esempio, per condividere più informazioni su di sé e sulle proprie scelte, chi per stimolare l'interesse del pubblico sulle tematiche trattate, chi per interagire sia con i fan sia con altri professionisti che lavorano nel campo delle immagini e ricevere in tempo reale un feedback sul lavoro fatto. Dalle varie testimonianze, dunque, emerge chiaramente il potente ruolo comunicativo di Instagram, che ha permesso un legame con il pubblico più esteso e diretto, secondo alcuni con possibili conseguenze positive anche sul fronte economico: «mi consente di mantenere un dialogo con i photo editor e i compratori d'arte che mi seguono» sostiene la fotografa Kendrick Brinson. «Sanno dove sono e a cosa sto lavorando».

In un altro articolo sul futuro del fotogiornalismo rispetto ai social media pubblicato da Polka Magazine e ripreso dal British Journal of Photography (“Facebook, Twitter, Instagram: How photographers can benefit from social networks”), l'autrice Laurence Butet-Roch si sofferma sul caso del fotoreporter e giornalista multimediale Richard Koci Hernandez, che grazie al suo account Instagram, seguito da oltre 160mila persone, ha detto di aver ottenuto «più lavoro, più visibilità, più soldi e più opportunità» che in qualsiasi altra fase della sua carriera, come se qualcuno gli avesse offerto gratis «un cartellone pubblicitario lungo l'autostrada più trafficata». James Estrin, co-fondatore del blog “Lens” del New York Times, afferma dal canto suo di tener molto in considerazione i suoi contatti di Facebook e Twitter per trovare nuovi lavori da proporre nel sito. Realtà come Instagram, si fa presente nell'articolo, «sono l'equivalente virtuale del passaparola». «Nel difficile contesto economico attuale – scrive Laurence Butet-Roch – i social network si rivelano un'ancora di salvezza. Facendo sapere dove sono esattamente, i fotografi possono ottimizzare le loro mosse». «Seguo i fotoreporter il cui lavoro mi interessa» spiega infatti Armelle Canitrot, photo editor del giornale francese La Croix. «Se uno di loro si trova in un posto in cui ho bisogno di un giornalista, mi rivolgo a lui».

James Estrin, in un post su “Lens” (“In an age of likes, commonplace images prevail”), elenca due possibili effetti di questo «tsunami di fotografie vernacolari» sulla fotografia “seria”, eventualmente combinabili tra loro: un allargamento del pubblico potenzialmente in grado di apprezzare la fotografia documentaria e di reportage perché più abituato a pensare visivamente e - secondo effetto - l'impossibilità, quasi, di distinguersi in mezzo a così tanti stimoli visivi, «perché se a tutti piace tutto, nessuna fotografia è migliore di un'altra». Il punto centrale, afferma Estrin, non è «se uno scelga di utilizzare un iPhone al posto di una Leica, ma le idee e la visione del fotografo», «il modo in cui la comunità fotografica sfrutta questa esplosione di energia visiva per ampliare il suo pubblico».