Ingaggi Ong: “il lusso del tempo” tra fotogiornalismo e pubblicità

  • didascalia: uno dei lavori multimediali presenti nel sito di Human Rights Watch
  • firma: Brent Foster per Human Rights Watch
  • fonte: www.hrw.org

Fotografie per le Organizzazioni non governative (Ong): informazione o pubblicità? Un articolo pubblicato su Le Monde (“Photographes en terrain miné” di Claire Guillot), ripreso in italiano nel n. 973 di Internazionale, riunisce importanti spunti di riflessione su questo fronte, deontologici e non solo. Ne proporremo ora alcuni, tenendo presente anche le riflessioni di vari fotoreporter individuate nella Rete e le osservazioni emerse nel convegno "Oltre il dolore degli altri: altre strade del fotogiornalismo", organizzato nel 2006 da Fotografia & Informazione, dal Gruppo Redattori Iconografici Nazionale e dalla Provincia di Milano. Un incontro che ha riunito un nutrito gruppo di operatori specializzati e di addetti ai lavori (tra i vari, il direttore di Nigrizia Carmine Curci, il fotogiornalista Francesco Zizola e la photoeditor Renata Ferri) i cui interventi sono disponibili nella sezione “Materiali” di questo sito (ascolta).

 

«Trent'anni fa, i fotografi partivano a coprire una crisi per una rivista e offrivano talvolta qualche foto a delle Ong. Oggi, invece, partono grazie alle Ong e sperano di essere pubblicati dalla stampa» afferma il fotoreporter Frédéric Sautereau in un articolo sul sito francese www.youphil.com (“Les ONG, nouveaux employeurs des photojournalistes” di Solène Cordier). Da anni, ormai, le Organizzazioni non governative sono protagoniste della scena fotogiornalistica internazionale, con un'incidenza, considerando gli ingaggi, particolarmente alta rispetto a quella della stampa: Jean-François Leroy, direttore del festival di fotografia “Visa pour l'image”, in un'intervista al British Journal of Photography stima che «almeno il 90 per cento delle immagini riguardanti una causa umanitaria sono fornite ai media dalle Ong». «Quale rivista oggi – commenta nell'articolo di Le Monde Carroll Bogert, vicedirettrice per le relazioni esterne a Human Rights Watch – potrebbe mandare per due mesi un inviato in trasferta? Noi abbiamo il lusso del tempo. […] La nostra capacità di fare informazione ha più risorse e più forza di quella di un giornale».

 

Numerose organizzazioni, infatti, hanno accumulato nel corso degli anni budget sostanziosi, grazie anche a campagne di comunicazione in cui l'impatto visivo ed emotivo delle fotografie gioca un ruolo decisivo. «Non abbiamo bisogno di mettere il nostro logo o di vedere il nostro nome citato nei giornali» afferma, sempre su Le Monde, Bruno De Cock, responsabile fotografico per Medici Senza Frontiere. «Se in pagina ci sono grandi foto di rifugiati, le persone fanno immediatamente delle donazioni». Come fa presente la giornalista del quotidiano francese, dunque, per una Ong le foto sono sì un atto di denuncia, ma anche e soprattutto uno strumento per raccogliere fondi. Tanto meglio, poi, se a impugnare la fotocamera è un fotogiornalista già affermato, la cui notorietà rafforza la credibilità del messaggio e assicura una rete di contatti funzionale alla pubblicazione delle immagini.

  • didascalia: un'immagine della campagna stampa 2007 di Medici Senza Frontiere
  • firma: Francesco Zizola
  • fonte: www.medicisenzafrontiere.it

Francesco Zizola, nel convegno summenzionato, ha parlato (audio n. 7) di una «strategia di utilizzo della fotografia scaltra e intelligente» da parte delle Ong, giacché la carente o mancata volontà delle case editoriali di investire risorse in inchieste e reportage ha offerto loro la possibilità di occupare, gratuitamente, gli “spazi” lasciati vuoti: «Sempre più si è visto che le Ong riescono a far pubblicizzare la propria presenza in un posto in modo “gratuito” offrendo a un fotografo proveniente dal mondo della stampa viaggio, ospitalità, logistica e un privilegio di accesso in location particolarmente difficili. L'Ong accoglie, permette di documentare. Poi, il materiale raccolto viene usato in parte per le esigenze interne dell'Ong, ma soprattutto dalla casa editoriale per coprire una notizia. Dove si verificano grossi eventi mediatici legati a guerre, carestie, emergenze, subentra fortemente questo rapporto. Ed è soprattutto un fenomeno italiano, perché i nostri giornali non inviano più fotografi, piuttosto aspettano di comperare le immagini dai giornali stranieri. I fotografi italiani si sono abbastanza lanciati nel fare questo gioco di “doppia sponda” senza, però, un'adeguata riflessione. I rischi sono altissimi in questa confusione di ruoli: si potrebbe parlare di una nuova forma di embedded photographer».

 

Nel settore, Zizola non è l'unico a denunciare la confusione tra informazione e pubblicità. Per il fotografo Paolo Woods, citato nell'articolo di Le Monde, un servizio fotografico commissionato da una Ong e pubblicato su un giornale dovrebbe essere chiamato “reportage-pubblicitario” perché «una Ong è come un'impresa, quindi si tratta di pubblicità».  «I reportage dei “Fng”, come potrebbero essere chiamati i fotografi al seguito delle organizzazioni non governative – riflette a sua volta Michele Smargiassi, nel blog “Fotocrazia” – non andrebbero forse considerati come appartenenti a un nuovo genere, distinto dal reportage indipendente quanto la testimonianza è distinta dall'intervento, la denuncia dall'azione?». Il giornalista di Repubblica ricorda anche il pensiero del sociologo francese Luc Boltanski, precisando che un fotografo che lavora con e per un'Ong «si colloca in un sistema organizzato che non è soltanto di natura morale, ma mescola solidarietà, spettacolarizzazione e mediatizzazione».

 

Le opinioni, su questo fronte, sono tuttavia molteplici e discordanti. C'è chi condivide vari ideali umanitari e riconosce nel lavoro una componente di militanza (si potrebbe parlare, pertanto, anche di un advocacy photojournalism), chi commenta che anche la stampa è business e chi è convinto che si possa mantenere uno spirito critico scegliendo bene la realtà con cui collaborare. In ogni caso – sottolinea la giornalista di Le Monde – le condizioni di lavoro non sono proprio quelle di un reportage “tradizionale”: per esempio «è facile che la neutralità rivendicata da una Ong e i suoi accordi con le autorità locali impediscano contatti  con gli altri protagonisti presenti. Alla fine il fotografo si ritrova quasi arruolato».

 

«L'Ong, a cui spesso si deve l'esclusività dell'accesso a una realtà – spiega ancora Francesco Zizola (audio n. 7) – ha le sue esigenze di comunicazione, che non necessariamente coincidono con quello che dovrebbe essere il motivo vero (ma che invece è sempre meno considerato) della presenza di un fotogiornalista in un posto: quello, cioè, di informare, al di là delle limitazioni poste da una organizzazione. A volte, sul campo, la cosa è così evidente, che un fotogiornalista deve interrompere il rapporto con l'organizzazione ospitante per poter espletare l'obbligo di raccontare i fatti secondo la propria visione, ma con la maggior aderenza possibile a quella realtà. Spesso non ci si interroga su questo, soprattutto dentro le redazioni».

 

Resta il fatto, come ha fatto presente nel convegno del 2006 Marco Vacca (audio n. 1), fotoreporter e attualmente vicepresidente di Fotografia & Informazione, che senza Ong non sarebbe possibile «sviscerare» certe situazioni o temi. «Da anni, ormai, i giornali non investono più in racconti del “mondo che soffre”. Questo indubbio connubio di interessi è importante per la conoscenza. Quando chi dovrebbe occuparsi di investire in conoscenza non lo fa, abbiamo questo strano succedaneo, le Ong, che lavorano negli angoli più sperduti del mondo e hanno necessità di far vedere quel che fanno. Questo, poi, non significa che le capacità e le competenze in questo ambito siano sempre rispettate: non sono molte le Ong che investono in professionalità, che affidano un lavoro di spessore a fotografi di esperienza. La normalità è quella di affidare la comunicazione al primo cooperante che passa con una macchina fotografica al collo. La mancanza di una cultura fotografica in Italia si riflette anche su questo tipo di aspetti». 

  • didascalia: Lokichoggio (città al confine tra Kenya e Sudan), novembre 1998, quartier generale di Lifeline Sudan
  • firma: Marco Vacca

In un articolo su www.fotoinfo.net (“Che ci faccio qui? Ong e fotogiornalismo”) Marco Vacca racconta la sua esperienza. «Quando andai in Sud Sudan con un'agenzia delle Nazioni Unite nel 1998, durante la guerra tra nord e sud, fui ospite anche in campi di altre organizzazioni ed ero libero di raccontare tutto quel che ero in grado di vedere; libero anche di capire i terribili meccanismi che gli aiuti umanitari spesso ingenerano nella cronicizzazione del conflitto» ricorda. «Insomma, quelli che vorrebbero essere stigmatizzati come degli spot pubblicitari non hanno e non possono avere la linearità tipica del commercial, non c'è un copione, tantomeno una scenografia ad hoc. Certo, inutile negare che iniziative di questo genere sono legate alla promozione dell'organizzazione che ti permette di realizzare il lavoro, ma non è come vendere mozzarelle. [...] Chiunque sia il committente, dovrai comunque avvalerti di un mediatore. Il resto, la correttezza e l'obbiettività [...], è solo nella testa e nell'etica del fotoreporter».

Un altro importante aspetto da tenere in considerazione, sono i cliché visivi che accompagnano la comunicazione del settore umanitario. Nell'articolo di Le Monde viene citata, per esempio, l'opinione della fotografa americana Susan Meiselas, secondo cui le Ong hanno sviluppato una cultura visiva propria, incentrata sulle conseguenze di una catastrofe, piuttosto che sulla complessità dell'intera situazione sociale. È ampiamente diffuso, poi – come ha ricordato Renata Ferri nel convegno del 2006 (audio n.  8) – l'utilizzo di testimonial (cantanti, attori, ecc.), i cui ritratti (possibilmente d'autore) acquistano centralità rispetto alle immagini che raccontano la situazione locale.
«Assistiamo a una cancellazione dell'alterità, a un degrado molto forte dell'immagine dell'alterità» ha fatto presente nello stesso incontro il sociologo Marco Deriu (audio n. 11). Le fotografie che troviamo continuamente nei giornali e nei dépliant nel complesso «rappresentano intere zone del nostro pianeta come zone perse, distrutte, in cui manca qualsiasi elemento ambientale o sociale positivo. Interi paesaggi (per esempio legati a foreste, colline, laghi, ecc.) scompaiono da questo immaginario per lasciare posto allo stereotipo di un “paese tipo” del sud del mondo fatto sostanzialmente di deserto, in cui non ci sono né ambienti né luoghi, relazioni sociali, comunità, storia, tradizioni: scompare in qualche modo un'immagine reale di queste popolazioni. Per non parlare, poi, delle fotografie delle persone rappresentate come “vittime”: sono sostanzialmente quelle di bambini denutriti, che piangono; di donne ritratte in situazioni molto negative, tristi. Quasi mai riguardano adulti: le poche, sono quelle di uomini in grandi difficoltà oppure di grandi masse (come le colonne di profughi). Nel complesso – continua Deriu – ci viene dunque restituita una rappresentazione di queste alterità primitivizzata: le persone vengono mostrate come nude, spogliate innanzitutto di un senso di identità. Sono, inoltre, infantilizzate: non è un caso che ritornino così tanto spesso i bambini e che, comunque, le persone ritratte, spesso accompagnate dagli operatori umanitari, si trovino in una posizione subordinata. Più in generale, sono rappresentate attraverso la maschera della “vittima”, quindi di un individuo che non ha nessun ruolo attivo, che non porta nessuna risorsa personale. Vediamo una riconferma di un processo di espropriazione della soggettività e dell'unicità di queste persone che si somma, anziché contrastare, a quello che poi avviene in situazioni di guerra o di altre catastrofi». Un processo, come abbiamo visto, che chiama in causa anche le scelte operative dei singoli fotoreporter, la loro etica e indipendenza nell'informare.