Imparare a guardare le fotografie

Enrico Natoli su Qcode si pone una serie di domande intorno alla fotografia: dal perché non ci sono più "fotografie simboliche collettivamente", al perché "la nostra civiltà non è più interessata a produrre conoscenza e anticorpi tramite il linguaggio fotografico".

La prima cosa che viene in mente è una realistica affermazione di Eugene Smith, "La fotografia nel migliore dei casi è una piccola voce ma a volte - solo a volte - una fotografia, o un gruppo di fotografie, possono risvegliare la nostra coscienza". Da qui a dire che produce anticorpi ce ne corre. La fotografia invocata nel testo è considerata quasi come la panacea di tutti i mali. Poi, non si può scrivere tutto e il contrario di tutto. "La fotografia oggi (…) è al servizio di chi detiene il potere. Un potere che non ha bisogno, anzi teme [corsivo mio], il linguaggio fotografico come veicolo d’informazione, (…).”Non è che temere è rafforzativo di non averne bisogno. Il potere non ha bisogno del linguaggio fotografico o le teme? Non si sa. Capisco che a Qcode prediligono il giornalismo narrativo come dicono nel loro "Chi siamo" ma in generale oltre al genere - che qui pare essere ridotto solo a "stile" discorsivo - si dovrebbe scegliere una tesi chiara e poi dimostrarla, illustrarla o contestarla.

 L 'oggetto principale del discorso di Natoli è - implicitamente - la fotografia giornalistica, d'informazione e a questa mi riferirò.

Per il lettore del giornale o di una pagina web la fotografia in sé per sé non ha un significato preciso; sarà la didascalia, insieme ai titoli e all'articolo che l'accompagna, a darne la chiave di lettura e un significato pieno. Se guardo la fotografia di Mario Boccia pubblicata e inserita nell'articolo di Natoli senza leggere nulla intorno, vedo solo una giovane donna che corre in una via cittadina. 

  • didascalia: Sarajevo, 30 settembre 1993
  • firma: Mario Boccia
  • fonte: Qcode

Questa è la prima e unica informazione che ottengo. Se leggo la didascalia "Sarajevo, 30 settembre 1993" mi posso ricordare che ormai da più di un anno la città era sotto assedio e che si parlava tanto dei cecchini e che ci furono molte altre fotografie che testimoniarono dei feriti e delle corse della gente per le strade. A un trentenne però, quella foto con quella dida così povera, molto probabilmente non dice ancora niente di più di: donna che corre per strada a Sarajevo. Questo trentenne, non avendo vissuto quegli anni e non avendo studiato a scuola le guerre dei Balcani, non ha alcuna conoscenza di base che gli permetta di ottenere da quella immagine qualche informazione né tantomeno un'emozione. Quella fotografia risulterà comprensibile al lettore solo se accompagnata da una didascalia che parli della guerra civile ed esplicitamente di una corsa per sfuggire ai cecchini sempre in agguato nella Sarajevo del '93. Ognuno di noi legge, o se si preferisce, comprende una fotografia grazie alla sua cultura - nel senso più ampio del termine - e grazie alle informazioni che gli vengono fornite dal giornale che pubblica l'immagine. Sottolineato questo dato di base da tenere bene presente parlando di fotografia sulle pagine dei giornali, bisogna aggiungere che il lettore medio non può "identificarsi" - iperbole irrealistica - con gli assediati di Sarajevo a meno che non abbia lui stesso vissuto una esperienza simile, cioè sia stato potenziale bersaglio di un cecchino e abbia vissuto una situazione di perenne paura per la propria incolumità fisica. Il lettore - più o meno partecipe del dramma per ragioni morali, politiche o religiose - può provare un sentimento di solidarietà, di vicinanza morale ma non - in questa occasione - identificarsi realmente.

Ancora, cosa vuol dire: "non è richiesto più a chi guarda di identificarsi"?

Nel sistema dell'informazione di un paese democratico il lettore - quello che guarda anche la fotografia - dovrebbe ricevere dai media tutte quelle notizie che gli sono necessarie per orientarsi nelle scelte che deve affrontare, dalle piccole cose quotidiane alla politica. Solo così si può partecipare alla vita sociale, agli avvenimenti, solidarizzare con qualcuno, costruirsi un'opinione, senza essere solo spettatore passivo.  L'identificazione come sembra intenderla Natoli passa più attraverso l'emozione che l'informazione reale.  Un'emozione vuota di reali informazioni.

Nel mondo del commercio - ormai da tempo - i grandi marchi, per promuovere i loro prodotti, hanno adottato strategie di comunicazione che non fanno riferimento alla qualità reale del bene in vendita ma ai possibili significati che possedere quel bene implica o potrebbe implicare. I consumatori sono spinti a "identificarsi" con i prodotti, o i servizi offerti, attraverso un'emozione. Perché non si vendono semplicemente magliette, scarpe, servizi, poltrone o creme al cioccolato ma stili di vita. Un buon esempio di questo marketing è la recentissima pubblicità, vista nel metrò di Milano (circa 4metri per 2), di una catena di supermercati che annuncia: "Se voi siete svegli, lo siamo anche noi. Siamo aperti tutta la notte." Di volta in volta si sollecita il consumatore ad identificarsi nel tassista di "Charlie 28 che è pronto alla prossima corsa", in chi fa le pulizie di notte  e "non va a dormire" e in "chi stanotte incontrerà la sua stella". 

  • didascalia: riproduzione campagna pubblicitaria murale
  • didascalia: riproduzione campagna pubblicitaria murale

Semplici fotografie di reportage che ridanno atmosfere e richiamano sensazioni. Immagini emozionali, come sono definite oggi, che rendono immediatamente il concetto del lavoro del tassista, dell'uomo che fa le pulizie, della coppia quasi senza età che si bacia nella luce di un lampione stradale.  "L'identificazione" arriva puntuale perché a molti è capitato di prendere un taxi nel cuore della notte o di incontrare un addetto alle pulizie con il suo carrello carico di scope, detersivi e sacco dell'immondizia. 

  • didascalia: riproduzione campagna pubblicitaria murale

E a moltissimi è capitato di trovare "la sua stella" in una notte diversa dalle solite.

Queste sollecitazioni a "identificarsi" in una situazione vissuta, in uno stile, in un modo di pensare, in un partito, arrivano anche dall'informazione. Rincorrendo lettori la stampa ha adottato gli stessi modelli di marketing delle imprese commerciali. Lentamente ha abdicato alla propria primaria funzione di fornitore di notizie; prima, con i magazine dei quotidiani, è arrivato l'infotainment (neologismo per definire un'informazione-intrattenimento) per passare, una decina di anni dopo, alla settimanalizzazione dei quotidiani che nelle parole di Ezio Mauro, direttore de la Repubblica,  prometteva nel 1998 " grandi storie,  grandi interviste, grandi personaggi, grandi reportage" in un giornale in cui "la pagina ruota intorno alle foto, prende luce da loro" (a cura di Dario Laruffa , Direttori a confronto, Eri-Rai 1998). Però, al quotidiano romano nonostante l'uso strumentale che ne viene fatto (o forse proprio per questo) le foto ancora non le firmano e in generale nella stampa impazzano più i "retroscena" che le semplici cronache. I quotidiani consolano i loro lettori invitandoli implicitamente a "riconoscersi" in racconti e commenti carichi di aggettivi e metafore di una realtà che rimane solo in sottofondo mai svelata nei dettagli, data per scontata come se fosse già a conoscenza di tutti.

 Anche i social network, le reti sociali come le chiama Natoli, hanno fatto la loro parte stimolando e portando in primo piano l'individuo e le sue esperienze vissute per lo più sotto il profilo delle emozioni. Oggi a seguire i vari media - elettronici o tradizionali - la realtà è prevalentemente raccontata secondo schemi riconducibili alle emozioni. Nelle scuole professionali dedicate all'immagine si insegna che anche le fotografie non devono più essere solamente spettacolari ma emozionali, devono coinvolgere lo spettatore. Se però il lettore fa un passo indietro e guarda all'informazione fotografica e non solo a quella, con un minimo di distacco, meno di pancia di quanto vorrebbero imporci molti media e anche molti politici, vedrebbe che le foto dell'attualità e della cronaca ci sono - e si possono trovare facilmente - e documentano nei limiti del possibile fatti e avvenimenti. A volte forniscono solo piccoli particolari, delle specie di tessere, utili a ricomporre il mosaico della realtà. In Italia queste fotografie sono spesso usate dai giornali in modo sciatto e approssimativo, con didascalie sbagliate e incomplete ma qualche cosa da guardare si trova sempre. Certo di Parigi forse Natoli non ha trovato un'immagine che racchiudesse tutto il dramma della notte degli attentati però le fotografie ci sono eccome. E non poche sono grandi immagini di cronaca. Bisogna leggerle con attenzione andando oltre lo schema emotivo con cui sono proposte. Guardate l'impaginato di Libération, come hanno lavorato al fotografico e la galleria dell'edizione online relativa alla notte. C'è da vedere anche il n.47 del Espresso con le foto di Alex Majoli e Paolo Pellegrin. Solo per fare due esempi. E guardate il video di Patrick Zachmann ripreso di fronte al Bataclan. Sapendo ormai dalla lettura dei giornali, dalle televisioni, dai social network come si sono svolti i fatti, avrete un pezzetto di informazione in più. Guardate con attenzione gli ultimi secondi del filmato. Un inquadratura fissa, quasi una fotografia, di un poliziotto accovacciato con la pistola in mano.

E poi non si dica: non ci sono fotografie di Parigi.