Manipolazioni e gabbie

  • didascalia: Spedizione di morte contro i palestinesi di Nazareth: gli israeliani sparano e uccidono nelle case. Finisce così uno Yom Kippur di sangue in Israele e nei Territori. Scade l'ultimatum di Barak ad Arafat, la diplomazia internazionale arranca. Alle soglie della guerra.
  • firma: AP
  • fonte: il manifesto 10 ottobre 2000
  • titolo articolo: La caccia di Nazareth

Il manifesto ha manipolato una fotografia pubblicata con grande risalto in prima pagina ed è stato smascherato (?) da "Striscia la notizia". La fotografia del palestinese che - apparentemente - si ripara la testa sullo sfondo di altri dimostranti che lanciano sassi è stata pubblicata anche da "la Repubblica" e dal "Corriere della sera" quindi è stato facile svelare la manipolazione. La trasmissione televisiva è ingabbiata dalla necessità di far scandalo a tutti i costi per mantenere alta l'audience e al "manifesto" - ma non solo - sono prigionieri della gabbia grafica del giornale.

L'ultimo restyling de ilmanifesto prevede una prima pagina dove una grande foto e un titolo breve e secco ridiano al lettore la posizione del giornale su un fatto una notizia. L'operazione è delicata, occorre scegliere il tema, cercare la fotografia adatta ad illustrarlo, pensare un titolo. Tutto deve poi essere assemblato in modo che le masse dei grigi, dei bianchi e dei neri della fotografia, del titolo e degli articoli formino un'immagine equilibrata del totale della pagina. Anche la posizione dei pochi caratteri - in corpo quasi mignon - che compongono la firma della fotografia contribuiscono a far sì che il lettore non abbia l'impressione di vedere una pagina pencolante.
La messa in pagina dell'edizione del 10 ottobre 2000 deve essere stata più difficile e sofferta del solito; la fotografia scelta non si adattava perfettamente alla bisogna e allora la si è dovuta ripulire un poco. La necessità del discorso e della gabbia era quella di avere un'immagine più immediata e più rettangolare, meno quadrotta dell'originale. Non avrebbe avuto senso però tagliare la fotografia - come è stato fatto - a filo dell'elastico della fionda lasciando un paio di gambe inutili sulla destra.
E fino a questo punto "capiamo" i colleghi del manifesto ma non li seguiamo più quando nella nota del giorno dopo ci dicono che "L'immagine delle gambe dell'altro palestinese l'abbiamo cancellata non solo perché rovinava a nostro giudizio una bella foto ma anche perché non aggiungeva nulla al fatto". Ma la foto è bella proprio perché ci sono quelle gambe, quelle figure in secondo piano; è bella perché "aggiunge" che i palestinesi attaccano con sassi e fionde pallottole non sempre di gomma. La fotografia dell'AP è una sintesi giornalisticamente efficace degli avvenimenti in Palestina e anche "Corriere" e "Repubblica" l'hanno scelta fra le altre. Tutti hanno dovuto adattarla alle rispettive gabbie grafiche e alla lunghezza degli articoli ma tutti ne hanno salvato il significato originario.
In fine, paradosso tutto italiano, la fotografia è apparsa firmata solo su il manifesto che ne ha svilito il significato manipolandola. Ben inteso si parla del nome dell'agenzia perché pretendere di leggere quello del fotografo sarebbe troppo.

  • didascalia: AI RIPARI Un giovane palestinese cerca riparo dalle pallottole israeliane mentre altri suoi compagni lanciano pietre all'indirizzo del nemico
  • firma: non firmata
  • fonte: Il Corriere della Sera, 10 ottobre 2000
  • didascalia: Dimostranti palestinesi lanciano pietre contro i soldati israeliani a Ramallah
  • firma: non firmata
  • fonte: la Repubblica, 10 ottobre 2000
Qualcuno ha protestato, "Striscia" ci ha presi in giro: avete manipolato la foto di ieri in prima pagina? Sì, l'abbiamo manipolata. Non si dovrebbe fare, in realtà volevamo procedere a uno scontorno, cioè evidenziare il particolare che ci interessava. Non l'abbiamo fatto per motivi di tempo, ma l'idea che volevamo comunicare era quella: un palestinese con una fionda in mano che si ripara dai proiettili. L'immagine delle gambe dell'altro palestinese l'abbiamo cancellata non solo perché rovinava a nostro giudizio una bella foto ma anche perché non aggiungeva nulla al fatto. Non certo perché ci vergognamo dei palestinesi che tirano le pietre. Anzi: pubblichiamo da anni le loro foto, scriviamo da sempre che fanno bene a ribellarsi.

E' questione di punti di vista. C'è una guerra in corso e una foto che dovrebbe essere uguale per tutti ma che in realtà non lo è. Basta guerdare i giornali e Striscia la notizia che puntualmente ieri sera ha fatto notare ciò che qualcuno aveva già visto. In breve: una foto scattata in piena battaglia ritrae un palestinese che "cerca riparo - come riporta esattamente la didascalia del Corriere della Sera - mentre altri suoi compagni lanciano pietre all'indirizzo del nemico". Giusto? Sbagliato, almeno per il manifesto che, fedele alla causa antisionista, pubblica la stessa foto (sotto) ma con un ritocchino. Titolo: "La caccia di Nazareth". Sommario: "Spedizione di morte contro palestinesi: gli israeliani sparano e uccidono nelle case." E i tiratori di pietre, direte voi? Spariti nel mouse di un non tanto abile (il ritocco si vede, e come) tipografo. Come dire: c'est la guerre...

La polemica dei giorni scorsi sulla foto tagliata e ritoccata da questo quotidiano, offre un altro tassello al nostro provvisorio elenco di temi culturali che dovrebbero essere approfonditi e studiati in un ipotetico programma di alfabetizzazione alle nuove culture digitali e multimediali. La nostra tesi è questa: l'epoca digitale obbliga chi scrive con le immagini a nuovi codici e dovrebbe spingere chi le legge ad assumere verso di esse un diverso atteggiamento mentale.
Ma prima i fatti: il manifesto compra una foto dell'agenzia Associated Press e poiché conteneva delle antiestetiche gambe tagliate in primo piano, i suoi grafici decidono di eliminarle; non c'è malizia, né secondi fini, né pare che il senso della foto (guerra, pietre e fionde in Palestina) cambi significativamente. Ben diversamente andarono le cose quando Tim, per meglio evidenziare che si trattava di un nero, decise di scurire un po' la foto di O. J. Simpson, il campione di football americano accusato dell'omicidio della moglie.
Ma le reazioni sono state ugualmente alte e indignate. Poco contano quelle di Striscia la Notizia,, ormai pallida memoria di quella che fu una spietata critica dei vecchi media. Ci riferiamo qui a quelle dei professionisti dell'immagine o dei lettori che questo giornale ha pubblicato nei giorni scorsi e che sono accomunate da un'idea classica della fotografia, tanto legittima quanto forse da sottoporre a nuova riflessione critica.
L'idea classica dice dunque che l'immagine fotografica è un frammento di realtà passata, congelato a futura memoria grazie a un particolare procedimento fotochimico. Poiché la luce parte dall'oggetto e colpisce una sottile pellicola di alogenuro d'argento, il travaso dall'oggetto vero alla sua immagine è automatico e senza manipolazione. Certo c'è di mezzo la scelta dell'inquadratura; certo il processo di sviluppo e stampa può alterare quella verità (luce, contrasto e altri parametri), ma nella sua essenza la foto si presenta come una cosa oggettiva. Potrebbe anzi essere considerata il coronamento di un lungo percorso della cultura del visuale, protesa a raggiungere il massimo di verismo. Questo cercarono di fare nel Rinascimento gli inventori della prospettiva, persino ricorrendo a vari marchingegni con cui il pittore poteva aiutarsi nel riprodurre esattamente le proporzioni e le disposizioni degli oggetti. In questo filone della pittura, la perfezione tecnica e artistica consisteva nel raggiungere il massimo di verosimiglianza.
La migliore descrizione di questa aspirazione al realismo fotografico ci viene da Roland Barthes, nel suo saggio intitolato "Camera Lucida": "Più che le altre arti - scrive il semiologo francese - la fotografia fornisce una presenza immediata del mondo ... Spesso è stato detto che sono i pittori ad avere inventato la fotografia... Io dico di no: sono stati i chimici... La fotografia è letteralmente un'emanazione di un referente. Da un corpo reale, che fu, procede la radiazione che alla fine mi colpisce, me che sono qui".
Naturalmente la storia della fotografia è anche piena di falsi, per esempio di marines o soldati russi che piantano bandiere vincitrici sui presidi nemici. E qui entra in gioco un altro elemento, l'autore. E' lui che sceglie cosa e come fotografare e dunque il suo è un intervento di mediazione: la foto classica rappresenta una cosa vera, ma grazie all'intervento intellettuale di una persona umana.
Le cose si fanno parzialmente diverse quando la foto diventa digitale. Può succedere perché una foto analogica è stata digitalizzata oppure, più modernamente, perché essa fin dall'inizio è fatta di soli bit. Sia le camere amatoriali che quelle professionali offrono ormai livelli di definizione dell'immagine più che soddisfacenti e si portano dietro una serie di software con i quali le immagini possono essere lavorate.
L'effetto di questa innovazione è di mettere in discussione i due caratteri fondamentali della foto classica, ovvero la sua immutabilità e il suo essere d'autore. Naturalmente già in precedenza il fotografo poteva intervenire, per esempio nella fase di stampa, per "manipolare" la verità della foto. Qui il verbo "manipolare" deve essere inteso alla lettera, senza alcuna connotazione negativa: vuol dire mettere mano e trasformare. Con le foto digitali queste possibilità si moltiplicano di molto e vengono messe a disposizione di tutti: sono abbastanza semplici, tutto sommato, i software che permettono di tagliare e incollare, zoomare, variare i colori e i loro rapporti. E sono operazioni che vengono svolte quotidianamente in tutte le redazioni e su milioni di computer personali. Oltre a tutto, un'immagine manipolata non ha memoria del suo passato; anche esaminandola nel profondo dei suoi bit non resta traccia di quelle trasformazioni, almeno se sono state fatte a regola d'arte. Entra in discussione dunque il concetto stesso di originale e di autentico e una stessa opera fotografica si troverà a essere figlia di diversi autori (chi ha scattato, chi ha trasformato, chi ha tagliato per impaginare).
Non è un percorso arrestabile e di per sé non è nemmeno negativo, perché la nuova versione della prima immagine può risultare migliore delle precedenti, magari perché è stata migliorata dall'intervento creativo di un videografico.
L'importante è che questo processo di artificializzazione sia noto e pubblico e che dunque chi guarda sia pienamente informato delle trasformazioni. In fondo con le parole scritte già si fa qualcosa del genere: si possono pubblicare delle citazioni originali di un libro, virgolettandole, oppure le si può riassumere con parole proprie, usando artifici retorici del tipo: "Luigi Pintor sostiene in sostanza che....". Il lettore in questo caso viene pienamente informato che Franco Carlini sta liberamente riferendo un'opinione altrui, senza appropriarsene, ma riassumendola per comodità espositiva.
Ma qui scatta la differenza: di fronte a ogni testo scritto il lettore sa benissimo di trovarsi di fronte a un artefatto (una cosa "fatta ad arte"), prodotto artificialmente da un'altra persona; e dunque, mentre legge, si confronta con un autore, dialoga mentalmente con lui, esercita - nel caso migliore - una certa dose di pensiero critico. Questo avviene perché il leggere è una cosa assai innaturale e difficile (tanto che si utilizzano alcuni anni della prima giovinezza per imparare a farlo). Con il vedere invece, non abbiamo apparentemente bisogno di apprendere alcunché: apriamo gli occhi e vediamo il mondo come è, vero e naturale. E ci siamo abituati a attribuire questo stesso carattere di verità anche ad alcune delle opere umane a contenuto visivo, fotografia e televisione.
Bene, nell'epoca del digitale questa presunzione di verità deve finire e di fronte a ogni immagine occorrerà imparare a leggerla e a diffidarne. Il che non vuol necessariamente dire respingerla, ma intanto essere consapevoli.
Questa per ora è solo un'aspirazione di principio, perché il sistema della comunicazione visiva non ha ancora inventato un sistema di segni adeguato paragonabile a quello delle citazioni testuali. E quasi nessuno peraltro, a scuola come in tv, insegna a decodificare l'artificiale: il guaio non è la manipolazione, ma il far finta che sia vera. E' la comunicazione bellezza, e il comunicare è sempre un processo altamente simbolico e artificiale.
Caro Carlini , La ringraziamo molto per la interessante sviolinata da R. Barthes a Photoshop passando per il manuale Feininger, ma a parte alcune cose sensate, (basterebbe indicare nella didascalia che la foto non era originariamente così ) mi pare che non si arriva al cuore del problema, che è: la realtà della foto originaria mostra una cosa ,ma siccome io voglio significarne un'altra piego e trasformo il messaggio a mio vantaggio, fregandomene dell'etica del copyright e del permesso dell'autore . Non c'è bisogno di panegirici, nè di spiegare che la foto digitale è più manipolabile di una tradizionale (vero in parte, lei mi insegna che i russi in periodi non proprio digitali erano maestri in questo.) È vero, noi fotoreporter siamo molto sensibili a queste cose, ma come diceva il mio collega Viegi nella lettera che ha aperto il dibattito, i giornalisti di penna non lo sarebbero? L'effetto di una citazione virgolettata in un testo con tanto di riferimento all'autore e la didascalia che riporti la avvenuta manipolazione della foto non sono la stessa cosa: nel momento in cui si cancella un elemento qualificante (e nel caso di merito, l'altro shabab che tirava pietre lo era, glielo posso garantire) si afferma una cosa che non è MAI ESISTITA. Vede bene che il paragone con la citazione non può calzare . Nell'epoca del digitale, come dice lei, quando venne arrestato Giovanni Brusca e il Time volle fare la prima pagina con la foto di lui che esce ammanettato dalla questura, la redazione chiamò non so quante volte fotografo ed agenzia solo per chiedere il permesso di apporre un fondo di diverso colore nella foto stessa, (peccato assolutamente lieve, che niente levava alla verità del fatto) sottoponendo il risultato dell'operazione al parere del fotografo e dell'agenzia, se non ricordo male, prima della pubblicazione), vede bene che è allora una questione di cultura e stile. Il problema è che siamo in ITALIA, e che in Italia si pensa e si è sempre pensato che delle foto si può far qualsiasi cosa, che sono figlie di nessuno, che l'autore 99 volte su cento non merita il credito, che si possono pagarle 25000 lire e pubblicarle decine di volte tagliarle sconciarle ridurle in brandelli, che un illustre direttore di giornale può permettersi di dire che la foto, rispetto all'economia di un giornale "è esornativa". Questa è l'essenza della faccenda, e nessun giornale è innocente. Potrei citarle centinaia di esempi di uso scorretto, artefatto, della fotografia. Lei dice che nessuno,"a scuola come in tv, insegna a decodificare l'artificiale" il problema è che nessuno, soprattutto nelle redazioni dei giornali, insegna a rispettare gli autori e leggere le immagini per quello che sono. Cordialmente Marco Vacca
Mi chiamo Massimo Viegi, sono un fotogiornalista di Milano e vi scrivo a proposito della vostra prima pagina del 10 ottobre. Manipolare le immagini di attualità è purtroppo un costume diffusissimo sulla stampa italiana, tanto diffuso che ormai non ci si rende conto di quello che significa dal punto di vista dell'informazione. Provate per un attimo a sostituire " fotografie "con "articoli", questo è quello che avviene oggi: C'è una guerra, una grande agenzia internazionale manda molti giornalisti a coprire l'avvenimento. I giornalisti fanno il loro lavoro e spediscono gli articoli ad un desk centrale a Londra o New York. Qui alcune persone (poche) scelgono quelli che per loro sono degni di esser pubblicati e li spediscono a tutti i giornali del mondo, a tutti gli stessi articoli scritti dalle stesse persone. In alcuni paesi chi riceve gli scritti, persona che comunque non era sul posto da dove la notizia proviene, ha l'abitudine di tagliarne delle parti, di modificarli, di abbellirli e di renderli più coerenti con quello che lui pensa stia succedendo. A questo punto che informazione ha il lettore? Accettereste voi un giornale fatto così? Se non lo accettereste per gli scritti perché lo fate per le foto? Perché non sono informazione ma soltanto illustrazione? Non voglio adesso discutere la scelta, vantaggiosa dal punto di vista economico ma non certo da quello dell'informazione, di usare una sola fonte (AP) per documentare l'attualità, ma perché aggiungere filtro a filtro? Quando ci fu la famosa sentenza della cassazione sullo "stupro in jeans" ero a cena con un gruppo di amici, donne e uomini tutti mediamente colti, informati e di sinistra. Capitò di parlare della vicenda e l'unico commento su cui tutti concordarono fu: " beh, questo è quello che hanno scritto i giornali, bisognerebbe sapere quello che è successo per poterlo giudicare". Questo aneddoto per sottolineare come oggi i giornali italiani servano più per sapere l'opinione di chi li scrive che per sapere i fatti. E non è certo manipolando le foto che possono ricrearsi una credibilità. Grazie per l'attenzione. PS: da fotografo... la foto del palestinese che si protegge in primo piano con il controcampo di quelli che tirano i sassi è una bella foto. la foto senza il controcampo è una foto banale.
Il 15 ottobre ci avete proposto un articolo di Franco Carlini dal titolo "Manipola che ti passa" che vorrebbe offrire "un altro tassello provvisorio al nostro elenco di temi culturali" nella pagina economia. Veramente l'avrei visto meglio nelle pagine di cultura. Ma forse siete un po' prigionieri del menabò.
Più che un "tassello culturale", come vorrebbe farci credere l'attacco del pezzo, sembra una difesa d'ufficio del giornale che ha eliminato "delle antiestetiche gambe tagliate in primo piano" da una fotografia dell'AP provocando reazioni "alte e indignate... dei professionisti dell'immagine e dei lettori". Ma che sia difesa d'ufficio forse sembra soltanto a me, indignato fotoreporter.
Certo è che le argomentazioni della "nuova riflessione critica" oltre che perentorie nei toni mi sembrano imprecise; il saggio di Roland Barthes la "Camera lucida" non è in realtà "La camera chiara. Note sulla fotografia" (1980)? Ma forse è solo un errore di battitura.
La citazione di Barthes è talmente sbocconcellata da risultare criptica; era meglio scrivere "Roland Barthes sostiene in sostanza che..." , come il Pintor dell'esempio citato da Carlini. Ma forse la fretta ha impedito una sintesi più lucida.
Per dire che la fotografia è solo una rappresentazione della realtà fatta attraverso un mezzo tecnico e la mediazione intellettuale di un operatore, non c'è bisogno di citare Barthes, c'è anche Benjamin. Ma forse citare Barthes quando si parla di fotografia sui giornali è un dovere.
Francamente poi, se si vuol sostenere che la fotografia digitale, "fatta di soli bit", si può manipolare più facilmente di prima non interessa molto sapere se la fotografia l'hanno inventata i pittori, i chimici o i metalmeccanici. Ma forse il lavoro in un quotidiano è frenetico e la fretta, si sa, è cattiva consigliera.
Si vuole/deve citare Barthes? Bene, allora in questo caso c'è un altro intervento del nostro, "Il messaggio fotografico" (1961, in L'ovvio e l'ottuso, 1982). Parla delle fotografie sui giornali, del rapporto fra immagine, testo, titoli e didascalie. Ottimo per spiegare i meccanismi della comunicazione e argomentare il vostro invito ai lettori ad "essere consapevoli". Ma forse ai giornalisti di penna non piace che vi si affermi che sulle pagine dei giornali "è la parola che, strutturalmente, è parassita dell'immagine".

Carlini parte dai "fatti" concreti - la fotografia manipolata e messa in pagina sul giornale - e parla poi di fotografia e comunicazione visiva in astratto, come fossero entità staccate dalla parola. Di passaggio dice che lo scritto è "artefatto" ma - beato lui, lo scritto - è dotato delle virgolette per le citazioni testuali; infine conclude invitando il lettore a imparare a leggere e a diffidare della comunicazione visiva perché manca ancora un "sistema di segni paragonabile a quello delle citazioni testuali", ovvero le virgolette.
Ma la fotografia, quell'una che avete comprato dall'Associated Press, è una citazione testuale. L'AP vi ha fatto vedere una serie di fotografie, un discorso visivo sugli avvenimenti in Palestina, e voi avete scelto di "comprare"/pubblicarne una, un virgolettato.
E l'indignazione viene da qui; avete talmente massacrato il virgolettato fotografico che non so decidere se avete trattato peggio il discorso dell'AP e dei suoi fotoreporter o "La camera chiara" (chiara eh, non lucida) di Barthes.
Se avevate un minimo di dignità intellettuale e professionale, questa volta l'avete persa totalmente. Ma forse, dopo la pubblicazione delle lettere sulla vicenda manipolazione, non era meglio aveste deciso di stare zitti ?

Ci risiamo. Di fotografia, nel nostro paese, come il solito chiunque può parlare e scrivere. Lo si fa perché si ritiene di saperne qualcosa, perché si è mediamente colti, mediamente curiosi, mediamente critici e consapevoli della società in cui vive. Lo si fa perché, a differenza di altri campi del sapere, non si ritiene debba esserci bisogno di solide radici culturali specifiche e di vaste ed approfondite letture sull'argomento alle spalle.
In questo caso è toccato all'ottimo Franco Carlini (che seguiamo da molti anni e senza riserve apprezziamo), divulgatore scientifico tra i più preparati, attento osservatore e commentatore corretto e acuto dei mutamenti in atto nella nostra società, ma che nell'ambito fotografico non risulta avere alcuna specifica preparazione, se non, appunto, la media cultura che, nel campo della fotografia in Italia, significa aver letto "La Camera Chiara" di Roland Barthes, "Sulla Fotografia" di Susan Sontag e "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" di Walter Benjamin.
Questi tre "testi sacri" che datano nelle loro edizioni originali, rispettivamente 1980, 1973-77 e 1931 pur restando delle pietre miliari nella storia della riflessione sul medium, appaiono, all'osservatore più attento, palesemente insufficienti per tentare un'analisi con strumenti un po' più raffinati, e soprattutto aggiornati, dei meccanismi che governano la produzione, la distribuzione e la fruizione dell'immagine fotografica contemporanee.
Ma veniamo al misfatto del giorno: la foto pubblicata in prima pagina il 10 ottobre 2000 dal Manifesto, manipolata elettronicamente, senza segnalare il fatto ai lettori. E naturalmente il commento apparso domenica 15 ottobre a firma Franco Carlini.
Per meglio introdurre e delimitare il contesto in cui ci stiamo muovendo, prendiamo a prestito un paio di pensieri da un volume di Fred Ritchin, ex Direttore della fotografia del New York Time Magazine e fondatore della sezione dedicata al fotogiornalismo all'International Center of Photography ("In our own image" di Fred Ritchin è stato pubblicato nel 1991 e aggiornato quest'anno ed è un buon punto di partenza per capire gli scenari futuri dell'immagine nei media).
"Fino ad oggi il fotogiornalista è stato per lo più considerato come uno che fornisce un certo quantitativo di immagini al personale che lavora nella testata giornalistica il quale poi opererà una scelta. Del resto anche la contestualizzazione dell'immagine attraverso la didascalia e l'impaginazione è compiuta da altri. (...) Con un simile tipo di rapporto tra fotografi e redattori (...) la fotografia è usata come neutro materiale grezzo che ad altri spetterà plasmare. E' come dare ai redattori delle liste di frasi e lasciare che essi le mettano nell'ordine che preferiscono". Fin qui Ritchin.
Aggiungiamo che il paragone con ciò che è avvenuto nel caso di cui ci stiamo occupando è ancor più impietoso e che la frase andrebbe riscritta così: "è come dare ai redattori delle frasi e lasciare che essi, dopo averle cambiate a piacimento, le mettano nell'ordine che preferiscono".
Siamo tutti (TUTTI?) consapevoli della non univocità della lettura di un'immagine fotografica, che per sua natura non è un linguaggio, non sottosta ad alcun codice ed è polisemica. Non ci culliamo quindi ingenuamente nell'idea che le immagini che i giornali pubblicano e che le televisioni trasmettono rappresentino "la realtà".
Ci sono tuttavia delle consuetudini, dei codici etici e delle assunzioni di responsabilità che vanno presi in esame qualora ci si inoltri nello specifico campo dell'informazione visiva in campo giornalistico, con particolare riferimento alla cronaca.
In tutti i paesi occidentali, la fotografia in ambito giornalistico gode di un indiscusso statuto di veridicità che viene difeso strenuamente, nonostante sia accettato e riconosciuto che in ambiti diversi (pubblicità, arte, ecc.) tale statuto è stato da molto tempo messo in discussione se non totalmente superato, anche dai non addetti ai lavori.
Le principali testate giornalistiche del mondo hanno in proposito un codice, scritto o talvolta soltanto perpetuato dalla tradizione orale e dalla consuetudine, che prevede l'INVIOLABILITA' dell'immagine.
L'agenzia Associated Press (che peraltro è proprio quella da cui è stata acquistata l'immagine pubblicata dal Manifesto) ha, per fare un esempio, un codice etico scritto che assicura i suoi clienti (oltre 1.500 giornali di tutto il mondo) che le immagini fornite non sono state alterate in alcun modo, se non per migliorarne unicamente alcuni aspetti tecnici: contrasto, luminosità, incisione. Il codice dell'AP, che riportiamo testualmente, dice: "The content of a photograph will NEVER be changed or manipulated in any way" ("Il contenuto di una fotografia non sarà MAI cambiato o manipolato in alcun modo"). AP estende anche ai propri clienti la condizione di non manipolare le immagini e si riserva il diritto di interrompere la fornitura di immagini alle testate che violino questa clausola contrattuale. ( A proposito, il manifesto è stato diffidato da AP in occasione di questo penoso incidente di percorso? Sinceramente ne dubitiamo: Business is business).
Fuori dal nostro paese, l'attenzione dei media nei confronti di questo delicato aspetto dell'informazione è sempre stata elevata. Negli USA, per citare un fatto molto noto, ha fatto storia il caso delle Piramidi di Giza avvicinate con il computer per permettere l'impaginazione di una copertina del National Geographic nel lontano 1982. Bill Allen, vicedirettore del Geographic, ricorda che per molti anni dopo l'incidente è stato costretto a rispondere in pubblico alla impertinente e provocatoria domanda: "Avete smesso di spostare piramidi?".
E in anni più recenti possiamo ricordare la carnagione di O.J. Simpson scurita artatamente sulla copertina di uno dei più letti newsmagazine americani, le foto della famiglia reale inglese con il volto del principe William ritoccato per correggere uno sguardo triste e "poco regale" e via dicendo. In occasione di ognuno di questi "casi giornalistici" sono seguiti dibattiti accesi e pubbliche prese di posizione, normalmente anche delle scuse ai lettori da parte dei monelli colti in flagranza di reato. Per citarne una, di Alan Sparrow, photo editor del britannico The Guardian: "Non ci sarà mai un buon motivo per ritoccare un'immagine di cronaca. Se si dovesse arrivare a farlo, nessuno crederà mai più ad un'immagine".
E qui torniamo alle osservazioni di Carlini, che parte da motivazioni tuttaltro che arbitrarie, anzi decisamente profonde ("l'epoca digitale (...) dovrebbe spingere chi legge le immagini ad assumere verso di esse un diverso atteggiamento mentale") cioè auspica che si possa arrivare a "mettere in dubbio la presunzione di verità" di ogni immagine e ad imparare "a leggerla e a diffidarne".
Questo è un nobile intento, e un approccio certamente maturo all'immagine, che dovrebbe e potrebbe essere messo in atto già con le immagini non manipolate, dato che non v'è niente di più discutibile, opinabile e soggettivo della trascrizione bidimensionale di un frammento spaziale e temporale di realtà che una persona a noi sconosciuta ci fa pervenire tramite un giornale. Ma è proprio per questo motivo, per avere la possibilità di vagliarla criticamente, che si vuole poter giudicare la trascrizione della realtà operata dal fotogiornalista che sul posto si trovava in quel momento. Si vuole poter esercitare la lettura e il giudizio critico su ciò che un testimone diretto ha da raccontarci, non sulle variazioni, più o meno lecite, più o meno estetizzanti, più o meno colte, più o meno gratuite, sicuramente meno ricche di informazione, che un giornalista o (perché no?) un grafico di passaggio, ha pensato di apportare stando seduto davanti al proprio computer in via Tomacelli a Roma o in via Solferino a Milano.
Ecco perché, dall'enunciazione di nobili intenzioni Carlini finisce (siamo certi contro la sua stessa volontà) per giustificare pessime e pericolose pratiche, sostenendo che: "(...) la nuova versione della prima immagine può risultare migliore delle precedenti, magari perché è stata migliorata dall'intervento creativo di un videografico". Questa frase agghiacciante (ricordiamoci che stiamo parlando di foto di cronaca), che se pronunciata in qualsiasi altro momento sarebbe stata inaccettabile, suona particolarmente grave ora. Infatti è stata scritta a qualche giorno di distanza sul Manifesto, lo stesso giornale che ha commesso una grave mancanza giornalistica, non una veniale leggerezza, nei confronti dei lettori (e ovviamente dell'anonimo fotografo dell'Associated Press.). Errore che la redazione ha ammesso, anche se dopo alcuni tentennamenti e balbettii iniziali, a testa bassa e senza riserve di fronte alla marea montante delle lettere indignate di lettori certo non sprovveduti ("Abbiamo sbagliato e basta", Il Manifesto del 12/10/2000). Questa di Carlini potrebbe suonare invece come la riabilitazione a posteriori, in nome dei "nuovi codici" cui ci obbliga secondo Carlini "l'epoca digitale", di un atto indifendibile.
In ogni caso, stupisce e sembra antistorica la pretesa, anche se soltanto a livello di "aspirazione di principio" di un atteggiamento di scetticismo nei confronti dell'immagine fotografica in un paese, l'Italia, dove la cultura fotografica non è mai uscita da ambiti ristrettissimi (tanto per citare un fatto clamoroso: è istituita una sola cattedra universitaria in tutta Italia, di "Storia e tecnica della fotografia") e certamente non è mai stata considerata dall'opinione pubblica, anche quella più sensibile ed informata, un ambito meritevole di riflessione.
Carlini non si è però chiesto come mai una così avanzata ipotesi di risveglio collettivo da atteggiamenti acritici nei confronti delle immagini giornalistiche, come quella che sembra suggerire, non sia stata proposta e sperimentata in paesi di più antiche e consolidate tradizioni culturali in campo fotografico (come al solito: Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania). Il motivo è che la manomissione dell'immagine fotogiornalistica è, nei paesi citati e in altri, un tabù. E proprio questo suo status di inviolabilità intrinseca e non discutibile ha preservato intatta, nel corso degli anni, la credibilità dell'informazione visiva ad esempio nei paesi anglosassoni.
Su una cosa non possiamo che dargli ragione e la nostra incondizionata adesione: sulla necessità di aggiungere un tassello dedicato alla fotografia al "provvisorio elenco di temi culturali da approfondire e studiare in un ipotetico programma di alfabetizzazione alle nuove culture digitali e multimediali". Aggiungendo che tale programma sarebbe stato necessario anche molto prima dell'avvento dei pixel e del web.
A tale proposito, tanto per avere un assaggio delle riflessioni che, dopo Barthes e Sontag, possono aiutare il lettore a formarsi un sapere critico nei confronti dell'immagine fotografica nell'epoca digitale, citiamo qualche volume, in ordine sparso:

William John Mitchell - The reconfigured eye. Visual truth in the post-photographic era. 1992
Manovich Lev - The paradoxes of digital photography. 1996
Roetzer Florian - Re:photography. 1996

Oltre naturalmente al già citato Ritchin, di cui può valere la pena leggere anche una lucida analisi sul fotogiornalismo in un documento disponibile o n-line all'indirizzo:
http://www.pixelpress.org/Witnessing/index.html

Ai lettori curiosi riveliamo che l'autore della foto manipolata è una persona in carne ed ossa, che risponde al nome di Jerome Delay. Egli è per ora all'oscuro dei fatti qui commentati, trovandosi in Palestina per testimoniare cosa avviene in questi giorni.Marco Capovilla

Mi accodo all'intifada (manco a farlo apposta) che state subendo da parte di alcuni colleghi per la caduta di stile del 10 ottobre; se il Corriere non avesse pubblicato l'immagine originale, l'avreste pure fatta franca. La sassaiola la meritate perché e' ora di finirla; e' inutile citare autori a destra e a manca; Barthes ha scritto anche "I miti di oggi", andatevelo a leggere e cercate di capire che nesso possa esserci tra i teatrini descrittivi e il teatrino del giornalismo italiano; campane di parrocchie più o meno grandi.
Aggiungo a questo una sana lettura del buon Baudrillard sulla mimesi del reale, la decostruzione della realtà ad opera di alacri formichine che non possono accettare il mondo nella sua rappresentazione, seppur mediata da intelletto e cultura diversa, e si trovano costretti (loro malgrado?) ad intervenire per produrre un addomesticamento dell'informazione decretando la morte del prodotto reale e facendo nascere una nuova menomata serie di surrogati: informazione estetica, adattata alla retorica imperante o semplicemente informazione prodotto. Si, informazione prodotto, mi scuso per l'offesa che vi arreco, ma dovreste essere i primi a lottare contro il mercimonio dell'informazione. Altresì sarebbe simpatico parlare, ma non ho autori da citare, oltre che di mimesi del reale anche di "mimetismo redazionale", o meglio di imboscamento; di giornalismo fatto via cavo telefonico; fatto con le regolette matematiche della quinta elementare, le proprietà transitive! Mi e' recentemente capitato di ricevere una telefonata da un giornalista:-"corri a fare una foto del fiume locale perché sta per straripare!!!". Lui era a Verona con l'Adige alto e credeva (per la proprietà transitiva) che anche i fiumi della mia città fossero sull'orlo del collasso. Non ho fatto la foto, nulla di più normale nel fiume. A sera ho ricevuto la telefonata:-"manca la foto del fiume, ci facciamo l'apertura!!". Questo capita infinite volte, neppure la fatica di telefonare (manco il cavo!!) a qualcuno per sapere se la realtà mentale che vi si crea, nell'aria stantia delle redazioni (un po' di ossigeno non guasterebbe), corrisponde in una qualche maniera a quello che c'e' di fuori. Ora, interpretare delle interpretazioni di fatti (quindi terza mano) e darvi pure un senso retorico distruggendo il lavoro di uno che ha rischiato la vita (fotografo o giornalista che sia) per poi stampare un'informazione PRODOTTO (non potete sottrarvi neppure voi al marketing, vero?) e' una cosa semplicemente triste; non dico altro se non che questo mi ha provocato: una forte sensazione di tristezza e squallore, momentanea perché fortunatamente ho anche altro con cui distrarmi. Una cortesia dovreste fare ai lettori: scegliete le notizie, impaginate il giornale e poi toglietevi di mezzo, il popolo bue esiste solo nelle redazioni dei giornali; siate più o nesti e sinceri anche con chi lavora per voi, pubblicateli direttamente senza manipolazioni.
Buon lavoro, ne avete da fare.
Fabiano Avancini
fabiano_avancini@labo.it

P.S. Non credo più al giornalismo che, per correttezza, pubblica anche le voci contrarie; suona stonato come una moneta di latta.

Abbiamo aspramente criticato Franco Carlini per l'articolo pubblicato da Il manifesto ma è nostro dovere segnalare un suo libro uscito nel 1999. L'abbiamo letto solo ora con l'intenzione - confessiamo - di trovare altri spunti polemici ma, al contrario, ci ha fornito preziose argomentazioni per smontare l'annosa contrapposizione tra immagini e parole; una questione che ci troviamo a dover fronteggiare quotidianamente. Carlini in fondo sta dalla nostra stessa parte della barricata. Citiamo - per necessità di sintesi - il sommario del capitolo VIII: "La contrapposizione tra parole e immagini non è così fondata come si ritiene. E nemmeno quella tra Razionale-Emotivo, Simbolico-Percettivo, Libro-Televisione, Attivo-Passivo. Sono piuttosto due modalità, pienamente umane, di guardare alla realtà e di leggerla. Un mezzo comunicativamente ricco dovrebbe valorizzarle entrambe, anziché contrapporle o giustapporle."Da leggere. F. Carlini, Lo stile del Web, Einaudi, Torino 1999 £. 22.000