Etica e informazione: la dura scelta di Marco Vernaschi

  • didascalia: La famiglia di Mukisa, un bambino di tre anni a cui sono stati asportati i genitali durante un sacrificio rituale.
  • firma: Marco Vernaschi
  • fonte: http://untoldstories.pulitzercenter.org/2010/04/uganda-child-sacrifice-not-a-cultural-issue.html
È sempre possibile conciliare etica e diritto e dovere di informare? O in casi estremi un elemento finisce col prevalere inevitabilmente sull'altro? E a che prezzo? Un reportage del fotogiornalista italiano Marco Vernaschi ha riacceso il dibattito su una questione con cui, prima o poi, ogni operatore dell'informazione deve confrontarsi. Il caso in questione è particolarmente complesso e delicato, ma nonostante la sua importanza e la nazionalità dell'autore per diverse settimane è stato discusso soprattutto all'estero.

Ecco la storia: Marco Vernaschi, 37 anni, fotoreporter torinese premiato nell'ultima edizione del World Press Photo, tra gennaio e febbraio ha documentato la pratica dei sacrifici rituali di bambini in Uganda per un progetto finanziato dal Pulitzer Center on Crisis Reporting . Un fenomeno in crescita, come ha scritto lo stesso fotografo, e per il quale sono stati uccisi, solamente nei primi tre mesi dell'anno, almeno quindici bambini.

Alcune foto pubblicate (e poi rimosse) sul sito dell'autore e/o sul blog "Untold stories" del Pulitzer Center, sono state duramente criticate perché giudicate lesive della dignità e della privacy dei protagonisti e non rispettose dei principi etici e deontologici della professione. Un'immagine ritrae un bambino di tre anni a cui sono stati rimossi i genitali e con un catetere che fuoriesce dal taglio. Un'altra il corpo orrendamente mutilato e senza vita di una bambina di dieci anni.

A suscitare maggiori polemiche è stato quest'ultimo caso. Ecco la versione dei fatti del fotografo: Vernaschi incontra la famiglia della bambina poche ore dopo la sua morte. Dopo aver spiegato il senso e le motivazioni del reportage, ottiene il permesso di fotografare, come "prova visiva" degli abusi subiti, il corpo della piccola, che la famiglia è disposta a riesumare dalla fossa in cui è stato da poco sepolto.

«Tra le molte cose che ho fatto nella mia vita — ha scritto Vernaschi — questa è stata una delle più difficili. Essere lì, di punto in bianco, nel buio di questa notte da brividi, a chiedere a una madre con il cuore spezzato di farmi vedere il cadavere mutilato della figlia […]. […] Spiego che questa testimonianza visiva sarà cruciale in vari modi; cerco di immaginare la paura e il dolore che Babirye ha vissuto mentre un mostro chiamato ironicamente un "guaritore" la stava uccidendo […]. Sono fermamente convinto – più che mai dal mio arrivo in Uganda – che questa morte orribile possa essere convertita in qualcosa che aiuterà a prevenire altri reati simili».

Al momento del congedo, il capo del villaggio chiede a Vernaschi un'offerta per pagare le spese legali della famiglia e il fotografo accetta di consegnare alla madre quello che ha in tasca: una settantina di dollari.

«Quando sto per lasciare la casa – racconta infatti il fotografo – il capo della comunità mi chiede un "contributo". Sono un po' sorpreso, e domando a cosa serva. La madre dice che non hanno soldi per pagare un avvocato. Spiega che c'è un sospettato, ma teme che questi corromperà la polizia locale e che lo lasceranno andare. In un primo momento mi viene in mente di mettere in contatto la famiglia con RACHO, l'Ong con cui sto lavorando […], ma è ancora una piccola organizzazione, e nonostante i progetti e l'impegno, non ha fondi. Così dò i soldi alla madre».

  • didascalia: Bambini di strada di Kampala, capitale dell'Uganda.
  • firma: Marco Vernaschi
  • fonte: http://www.pulitzercenter.org/openitem.cfm?id=2302
Per la scelta di chiedere la riesumazione e di consegnare il denaro, Vernaschi è stato accusato di aver sacrificato i principi etici della professione a beneficio di immagini più potenti dal punto di vista visivo ed emotivo. Una scelta, per molti, dettata anche dal fatto di essere in un paese africano, e non europeo o americano. «Se la bambina fosse morta durante un rituale in Italia, Vernaschi sarebbe stato in grado di chiedere alla famiglia di riesumarne il corpo per qualche foto? […] Perché questi fotoreporter ed editori non riescono a capire che non possono continuare a mostrare immagini di bambini mutilati? È immorale» ha scritto un blogger. «Se i due bambini fossero stati vostri figli, nipoti, o anche solo parenti o conoscenti, avreste ancora scattato le foto e pubblicate le loro immagini? O lo si fa perché sono "solo" degli africani?».

Diversi internauti hanno fatto presente che foto come queste potrebbero essere considerate illegali in Gran Bretagna, e tra loro c'è anche chi invita a prendere a esempio le linee guida editoriali della Bbc sulle immagini di minori e i codici di comportamento della National Press Photographers Association .

Vernaschi, che è stato disponibile al confronto e ha spiegato a fondo i motivi delle sue scelte, riguardo alla riesumazione ha riconosciuto di aver preso una decisione sbagliata. «Ma l'ho presa — ha precisato — in buona fede e per una buona causa, e non per una mancanza di valori morali o etici. Di sicuro non ero alla ricerca di una foto sensazionalistica». Era convinto che l'immagine del corpo della bambina «avrebbe aiutato la gente a capire l'enormità di questo crimine, che è molto poco conosciuto fuori dall'Uganda ed estremamente difficile da accettare». Il fotografo definisce «assolutamente false» le accuse di aver offerto soldi alla famiglia per far riesumare il corpo.

Il Pulitzer Center on Crisis Reporting ha a sua volta riconosciuto di aver sbagliato a diffondere quelle immagini. «Come Vernaschi, siamo convinti che la fotografia può avere un ruolo importante nel mobilitare l'opinione pubblica, in Uganda e altrove, per fermare questi abusi» ha spiegato il direttore esecutivo Jon Sawyer. «Ora, però, crediamo – e Vernaschi è d'accordo con noi – di aver sbagliato il modo di affrontare i casi di Mukisa e Babirye». Riguardo al bimbo di tre anni, Sawyer precisa che «l'immagine era stata scattata con il permesso dei genitori che speravano così di mobilitare il sostegno per le lunghe procedure mediche che il bambino deve affrontare. Ragioni che, per i critici, non giustificano la violazione dei diritti alla dignità e alla privacy di un bambino. Siamo d'accordo. Vernaschi ha rimosso la foto dal suo sito web e si è impegnato a non distribuirla ulteriormente». In merito alle fotografie della piccola Babirye, il Pulitzer Center non ha dubbi sulla buona fede del fotografo italiano. Ma, proprio come Vernaschi, afferma che «è stato uno sbaglio chiedere la riesumazione del corpo. Ciò, oltre a rappresentare una mancanza di rispetto per i morti e un'ulteriore fonte di sofferenza per una famiglia in lutto, ha avuto l'effetto di focalizzare l'attenzione sulle azioni di un giornalista, piuttosto che su di un crimine orribile che ha bisogno di essere esposto».

A rendere noto il fatto della riesumazione è stato il reporter André Liohn , recatosi in Uganda per approfondire a sua volta il tema dei sacrifici umani, dopo aver visto le foto di Vernaschi in Rete. Dalla stessa Ong di riferimento di Vernaschi era venuto a sapere che quest'ultimo non aveva partecipato alla cerimonia di sepoltura delle bambina. Nel suo blog Liohn ha puntato il dito sull'illegalità della riesumazione e ha aperto un dibattito sul metodo di lavoro del fotografo italiano. Era davvero necessario, si è chiesto, infrangere la legge e violare una tomba per fotografare una bambina morta? «Perché – ha scritto Liohn – le prove da lui prodotte dovrebbero essere cruciali? Il caso è stato documentato prima da giornalisti locali. […] Se i criteri deontologici applicati da Marco Vernaschi sul modo di documentare un omicidio dovessero diventare una nuova tendenza, luoghi come la Bosnia potrebbe vedere le loro terre ridotte come il suolo lunare, con le tombe violate dai fotografi alla ricerca della "prova visiva" della sofferenza. […] La ragazza era stata fotografata prima da giornalisti del posto. Lui può sentirsi un fotografo migliore o più importante di quelli locali, ma questo non gli dà il diritto di violare una tomba per provarlo».

  • didascalia: Una bambina sudanese stremata dalla fame è fissata da un avvoltoio sul sentiero che porta ad un centro di distribuzione di cibo nel villaggio di Ayod. Questa foto venne premiata con il Premio Pulitzer nel 1994.
  • firma: Kevin Carter
  • fonte: http://www.clickblog.it/post/5315/lafrica-di-kevin-carter
I riflettori sul caso, in Italia, sono state accesi grazie a un approfondito post di Michele Smargiassi , sul suo blog "Fotocrazia". «Per come la vedo io […] chiudere gli occhi è la prima bugia della fotografia» scrive il giornalista di Repubblica, che in un secondo post ha anche riflettuto sulle principali posizioni emerse dai commenti dei lettori e su un'esperienza di Ferdinando Scianna (il cui ultimo libro si intitola proprio "Etica e fotogiornalismo"). «Quanto a mostrare quel che si è visto e registrato – precisa Smargiassi – questa è una decisione che potrà essere presa dopo, a mente più lucida e considerando tutte le variabili di opportunità ed etica. Ma che succede quando scattare non è solo assistere a una situazione, ma anche intervenire su di essa? Quando intervenire implica superare qualche confine etico o legale? È quello il momento in cui il fotografo testimone è solo con la propria coscienza. Fermarsi di fronte a un divieto o a uno scrupolo ci avrebbe privato di molte immagini del passato che siamo invece convinti sia giusto poter vedere oggi. Il "bene della causa" giustifica dunque tutto? La possibilità di denunciare un crimine autorizza a produrre un "male minore"? Nel racconto di Vernaschi in realtà questa violazione sembra essere stata in qualche modo condivisa e non imposta con le persone che l’avrebbero subita. Ma questo è sufficiente?».

Smargiassi ricorda la bambina giapponese focomelica fotografata da W. Eugene Smith a Minamata, con il consenso dei suoi genitori, per denunciare un criminale caso di inquinamento industriale, così come una foto vincitrice del premio Pulitzer, ritraente una bambina sudanese stremata dalla fame e presa di mira da un paziente avvoltoio. «Il suo autore, Kevin Carter – spiega il giornalista – fu additato come avvoltoio umano per non aver saputo dire il destino di quella bambina, e qualche tempo dopo si suicidò. Difficile essere semplici testimoni di una tragedia umana. Ma di testimoni abbiamo bisogno, o no? Credo che Vernaschi si sia assunto il carico di una scelta estrema, fuori dalle regole, senza sfuggire al suo peso. […] Sulla sua buona fede giudicherà chi lo conosce. Sul diritto o meno di quella fotografia ad esistere, giudicherà la storia».