Free Tibet Free Generation

Si possono trattare temi leggeri in modo intelligente e argomenti seri, drammatici, in maniera stupida. Forti di questo assunto possiamo sollevare qualche obiezione sull’efficacia e sulle modalità della campagna di Max “Free Tibet”, che ha visto la partecipazione di 68 celebrità di casa nostra, che si sono fatte ritrarre con una maglietta con la scritta “Free Tibet”, hanno rilasciato delle non indimenticabili dichiarazioni sul tema e in cambio hanno avuto il passaggio mediatico dovuto, con il supporto di note sugli impegni di lavoro futuri e le biografie, a volte necessarie a certificare l’effettiva fama del semi-ignoto famoso. I dubbi sulla campagna sono sull’efficacia, scarsa, e sul gusto, pessimo. Ripetere 68 volte Free Tibet non offre un grande contributo al dibattito. Senza un qualche approfondimento, senza un paio di cenni storici risulta difficile impegnarsi nella lotta, solo perché raccomandati dalla Pausini. Se il tutto è condito da ragguagli circa il prossimo programma di Dj Ringo e le aspettative di carriera di Paola Barale si rimane sbalorditi o più semplicemente tranquilli a sguazzare nella solita melassa nazional-televisiva, non certo il carburante più adatto alla lotta e all’impegno. Esaurite per noia e inefficacia le petizioni degli intellettuali, l’arrivo di quelle dei divi del piccolo schermo ci coglie impreparati e, dopo averne vista una, sgomenti. Il tibet è una causa ottima per personaggi accomodanti, non essendo affatto, in occidente, una questione controversa, perlomeno nell’opinione pubblica. Sarebbe interessante vedere campagne simili per cause di più difficile e meno accertato consenso: il trattamento riservato ai rom in Italia nell’ultimo periodo non ha sollevato scandalo né indignazione. In un Paese quasi fallito come il nostro discutere, con allegro razzismo, dei rom e di come cacciarli, è una delle cose più grottesche che si siano mai viste. Calci nel culo ai rom a casa, tanta solidarietà per i monaci tibetani, che, ai nostri occhi hanno, rispetto ai rom, un indubbio pregio: sono dall’altra parte del pianeta, e finchè non si avvicinano possiamo solidarizzare con la loro causa.

Quanto al metodo. Neanche un premio Nobel riuscirebbe a dire in una frase di un solo periodo qualcosa di illuminante su una situazione così complessa, per questo pensiamo che costringere delle povere star, magari digiune di storia e geografia, a esprimere un’idea sensata in 10 parole è una dimostrazione di sadismo estremo. Ma forse funzionale a ricordarci che in fin dei conti stiamo solo scherzando. Quando a Nancy Brilli si fa dire “Free Tibet… e ho detto tutto”, come diceva Peppino a Totò nella Malafemmena , è impossibile non pensare a una regia occulta. Dire Free Tibet, come è ovvio, non vuol dire in sé nulla (altro che tutto) e lo slogan ripetuto per decine di pagine diventa infine un segno vuoto, muto, solo il filo conduttore del servizio. Come dimostra magistralmente l’ultima doppia pagina: a sinistra una foto generica del Tibet si presume e l’immancabile slogan, ormai diventato logo, “Free Tibet”, a destra una Micaela Ramazzotti completamente nuda e felice, quasi gaia, con lo slogan delle pagine seguenti “Free Generation” che ci introduce alla successiva sezione, pur riallacciandosi alla prima con un simpatico fil rouge e un paterno richiamo all’ordine: basta pensare, si torna a divertirsi; finito lo snervante impegno, introdotto da Micaela, il lettore affaticato può finalmente riprendere a svagarsi con la Free Generation. Dopo “Free Tibet”, ambiguo e obliquo nel messaggio (stiamo parlando della prossima fiction tv o del destino di un popolo in lotta contro uno stato oppressore?) inizia finalmente con “Free Generation” una sezione più pacifica, che ha, carta canta, il pregio della chiarezza: già dalla prima pagina sappiamo esattamente che argomento stiamo trattando

Un unico dubbio: un accostamento simile a una tragedia italiana o, ancora peggio, alla religione cattolica, come sarebbe stata accolto dalle nostre care e occhiute gerarchie?