L’inutile voce delle vittime

  • didascalia: A Palestinian woman carries her belongings past the rubble of houses destroyed by Israeli strikes in Beit Hanoun.
  • firma: Lefteris Pitarakis/AP
  • fonte: http://www.theguardian.com/world/2014/jul/26/gaza-pause-bombing-destruction-seen-israel

Anche il conflitto israelo-palestinese, come tutti i conflitti moderni, è una guerra dove armi sono anche le immagini, e in modo particolare la fotografia. Ai microfoni di Repubblica, durante un presidio pro-Israele, il parlamentare di Forza Italia Renato Brunetta ha dichiarato di essere dalla parte di Israele, che sarebbe l’unico stato democratico in Medio Oriente. Fin qui una normale presa di posizione, ma di fronte ad un commento riguardo le fotografie di bambini palestinesi morti sotto le bombe israeliane ha risposto:

"Ogni volta che c’è un conflitto israelo-palestinese circolano delle immagini. Nella gran parte dei casi sono immagini di propaganda dall’una parte e dall’altra parte. Basare il proprio giudizio sulle immagini, o sul lavoro dei giornalisti, è deviare il giudizio."

Mettiamo da parte la questione politica e lo spirito “democratico” dello stato di Israele invocato da Brunetta (su cui personalmente ho più di un dubbio), e cerchiamo di analizzare la sua risposta da un’altra prospettiva, se non altro perché tocca uno dei punti più dolenti della fotografia documentaria: possiamo liberarci delle immagini definendole semplicemente propaganda? Dunque dove sono quelle immagini che valgono più di mille parole? Ebbene non sono mai esistite, perché vediamo mediante le parole che utilizziamo per descrivere ciò che vediamo, per cui se dico propaganda l’immagine è falsa, e se dico informazione allora sarà vera. Un tempo, con la stessa cattiva fede di Brunetta, fu una giornalista inglese a dirlo con chiarezza (1) :

"Una foto di mutilato mostra soltanto che si è fotografato un mutilato, non fornisce alcuna indicazione né sul luogo né sulle circostanze del delitto e non prova nulla più del suo contenuto."

Perciò l’immagine non prova nulla e non convince se prima non sono disposto ad accettarne, oltre il contenuto, il suo significato. È sempre stato così fin dai tempi del dagherrotipo, perché anche la fotografia, per quanto affidabile, è nient’altro che uno stimolo. Stimoli sono le immagini, gli articoli di giornale, i romanzi, le canzoni, e ne abbiamo bisogno per fornire a due interlocutori un piano comune su cui confrontarsi. Lo stimolo, per quanto ben strutturato, resta null’altro che uno stimolo in attesa di accendere un contenzioso che è il cuore stesso della democrazia. Non possiamo permetterci risposte da social network  del genere mi piace o non mi piace,  ci credo o non ci credo, ed allo stesso tempo sperare in una svolta culturale, sociale, o politica. Il significato delle fotografie che circolano in rete a proposito di quanto accade sulla striscia di Gaza è dato dalla somma dei discorsi che riescono a sollecitare, e se non si alimenta il dialogo, se non si creano i presupposti per valutazioni approfondite, il loro valore è limitato. Non si tratta di prendere per oro colato quanto dicono i media, ma ci possiamo davvero permettere d’ignorare il lavoro dei giornalisti?  
Posizioni senza argomenti, coalizioni senza programmi, inchieste senza approfondimenti, sono l’esatto contrario della democrazia. Immagine vera, immagine falsa, propaganda o meno, ogni posizione dev’essere ben argomentata, altrimenti che ne è del dibattito? Della democrazia? Nel suo blog, Leonello Bertolucci ha scritto:

"Domande, domande e nessuna certezza tranne una: dove le fotografie non suscitano domande è perché le fotografie non esistono, e se in quel luogo non esistono è perché le domande sono vietate."

Da noi le fotografie esistono, e vengono persino pubblicate, distribuite, e ancora oggi ognuno è libero di fare domande… le risposte, ahimé, se non sono vietate sono quantomeno tabù se basta dire, come ripete Brunetta:

"La sua è una domanda volgare."   

 

Mirko Orlando

 

 

(1) Cit. in P. Sorlin, I figli di Nadar, Einaudi; Torino 2001, p. XIV s.