Pier Maria Mazzola: Tra violenza e contemplazione

dal dossier: Fotografare in Africa. "Nigrizia" sett.2004

Quali rapporti tra fotografia e informazione? Che cosa succede al fruitore di immagini? C’è chi riflette da tempo su questi temi. Ascoltiamo qualche voce.

La foto che qui non vi mostriamo è tutto quello che non deve essere il fotografare. In Africa né altrove. È un fotografo fotografato, mentre sta per scattare non sappiamo quale atrocità. Per comporre l’immagine nel modo a lui più congeniale si è spostato, senza scollare l’occhio dal mirino, fino ad appoggiarsi sul corpicino — siamo in Ruanda, 1994 - di una bambina. Altri reporter, in quei giorni di genocidio, hanno camminato, e con totale consapevolezza, su mucchi di cadaveri per assicurarsi la “prima fila”, così da offrirci le immagini che più avrebbero dovuto farci esecrare l’orrore. E lo scopo, per lo meno, sarà poi stato raggiunto? «Un evento conosciuto attraverso le fotografie diventa certamente più reale di quanto lo sarebbe stato se non le avessimo mai viste — scrive Susan Sontag venticinque anni dopo il suo precedente Sulla fotografia —, ma finisce per diventare meno reale quando si è ripetutamente esposti a quelle immagini». Oggi, in Davanti al dolore degli altri (Mondadori, 2003), Sontag affina il suo pensiero, precisa che in realtà le immagini che sensibilizzano al dolore altrui, o al contrario anestetizzano, sono anzitutto quelle televisive, quelle di cui, «per definizione, prima o poi ci si stanca». E che soprattutto un’immagine viene «privata della sua forza dal modo in cui viene utilizzata, dal luogo in cui viene vista e dalla frequenza con cui appare».

L’immagine fissa - la foto stampata — è a nostro parere meno soggetta all’usura di quella in movimento, perché più prossima a diventare, potenzialmente, un’icona. In fondo, anche di un film che ci è piaciuto noi difficilmente memorizziamo intere sequenze, ma singoli fotogrammi, e, a lunga scadenza, anche di questi ci rimane più l’impressione che non l’originale con i suoi dettagli. E David Freedberg ha i suoi fondati dubbi sul fatto che «la riproduzione indebolisca necessariamente il potere delle immagini» (Il potere delle immagini è appunto il titolo della sua opera edita da Einaudi nel 1992). «Alcune di esse — dichiarava il professore americano al Manifesto lo scorso giugno —, in virtù della loro stessa composizione, possono essere così forti da continuare a colpirci ogni volta che le rivediamo».

Anche per la foto stampata, in ogni caso, il contesto della sua fruizione è decisivo. «Partiamo dal presupposto — ci dice Marco Vacca, presidente dell’associazione Fotografia & Informazione - che l’Africa non è certo nei cuori dei direttori dei giornali. Stavo guardando una rivista femminile, con uno splendido reportage antologico di un bravissimo collega, in occasione di una sua mostra. Queste immagini di guerra, che parlavano di Bosnia, di guerra del Golfo, di Afghanistan e di tanti altri conflitti di cui questo passaggio tra secoli è disseminato, erano alternate ad immagini di belle donne, spesso seminude, foto di moda. Ormai la situazione è questa, se vuoi essere ospitato dai giornali, può capitare che tu debba condividere l’orrore e la violenza che volevi raccontare con oggetti di bellezza, donne nude, nani, ballerine e pubblicità di lingerie. E ti dici: ma allora che lo faccio a fare questo mestiere? Quel livello di decontestualizzazione quanto meno induce il lettore a un effetto di anestetizzazione delle mie fotografie, ad una “normalizzazione”. Una bella donna in costume vale tanto quanto un bambino palestinese, quotidiano oggetto di violenze da parte dell’occupante israeliano? Un doppio amputato in Sierra Leone quanto una bocca con le labbra marcate di rossetto?

Questo è lo stato di salute dell’informazione oggi in Italia. Non solo perché in generale la situazione dei “morti di fame” è ansiogena e i pubblicitari non vogliono essere accostati a questo tipo di situazioni (l’Africa “non paga”, i morti di aids “non pagano”…); ma c’è anche il paradosso inverso: proprio per questo affollarsi di pubblicità che diventa una massa indistinta nei giornali, spesso gli inserzionisti preferiscono essere messi vicino a queste immagini perché, a questo punto, i loro prodotti sono più visibili. Sullo stesso giornale che citavo prima c’è anche un servizio sui disabili, molto bello, alternato allo stesso modo. Questo effetto decontestualizzante si verifica soprattutto nei magazine, perché nascono essi stessi come meri contenitori pubblicitari. E sono quelli che tutto sommato danno maggiore ospitalità al reportage fotografico!».

«Sui quotidiani — precisa Marco Vacca - la cosa è leggermente diversa. Magari c’è meno decontestualizzazione (se c’è una foto di Africa è perché si sta parlando di Africa), però poi c’è sempre poco rispetto per l’autore, per l’esatta didascalia. C’è sempre questo grosso substrato di cialtroneria che in generale informa la stampa nei confronti della fotografia».

Somalia 10.000-Zambia 20

Data solo dagli anni Novanta il (relativo) boom africano dei fotogiornalisti italiani. Grazia Neri affermava nel 1997 su AFT Rivista di Storia e Fotografia di avere ormai negli archivi della sua agenzia migliaia e migliaia di immagini africane - in buona parte acquisite all’estero. Ma con quale grado di copertura dei singoli paesi? «Somalia oltre 10.000 fotografie, Zambia una ventina; Sudafrica oltre 7.000 fotografie, Costa d’Avorio 30»…

Fra i pochi nomi notevoli prima di quell’epoca, Grazia Neri cita Uliano Lucas, Augusta Conchiglia, Mario Dondero, concentrati soprattutto sulle colonie portoghesi. E poi, anzi prima, Angelo Del Boca. Figlio di fotografo professionista, visse con entusiasmo il suggerimento del direttore della Gazzetta del Popolo di Torino agli inviati: munirsi di apparecchio fotografico. «Ad altri, l’invito di scattare immagini suonò addirittura come una forma di declassamento». Fu così che Del Boca documentò la guerra d’Algeria fin dagli anni Cinquanta, e l’esodo degli italiani dalla Libia, il Sudafrica dell’apartheid (da dove venne espulso)… Fu in India che «mi resi conto che il supporto della fotografia era fondamentale e che dovevo sempre più migliorare le nozze fra il testo e le immagini, che non dovevano diventare, queste ultime, una pura decorazione, ma un sostanzioso arricchimento, qualche volta addirittura la chiave di lettura del testo».

Negli stessi anni dava inizio alla sua carriera africana colui che è considerato uno dei più grandi reporter del nostro tempo, Ryszard Kapuscinski. Anche l’autore di Ebano scatta foto (Bruno Mondadori ne ha fatto un volume nel 2002: Dall’Africa), ma per lui scrivere e prendere immagini sono attività tra loro concorrenti: «Io non sono capace di raccogliere materiale per un servizio di stampa o per un reportage, e nel tempo stesso fotografare; non riesco a fare insieme il giornalista e il fotografo. Per me si tratta di due attività completamente separate, l'una esclude l'altra. Perciò, come giornalista guardo il mondo in modo completamente diverso dal fotografo, cerco altre cose, mi concentro su problemi d'altro genere». «Io sono un fotografo, ma il mio modo di fare fotografia — confessava il giornalista polacco a John Berger nel corso di un convegno italiano (Il cinico non è adatto a questo mestiere, e/o, 2002) — è molto istintivo. Quando anni fa acquistai il suo saggio Del guardare, ne rimasi affascinato, soprattutto per la sua interpretazione della fotografia e di ciò che si trova nelle fotografie. Di solito ignoriamo le fotografie. Ne vediamo decine al giorno. E non ci rendiamo conto che per capire la fotografia e la letteratura è necessaria una partecipazione attiva. Non si riesce a capire la fotografia se non ci si pone come creatori attivi». «La fotografia è il dettaglio — ha detto Kapuscinski in un’altra occasione -, è la composizione del dettaglio, è il tentativo di ritrovarvi metafore e simboli, e di osservarlo, di riflettervi sopra…».

Il succitato Berger è un poliedrico uomo di cultura inglese che alla lettura dell’immagine dedica tutto un settore della sua riflessione (Modi di vedere è il titolo di una recente raccolta di suoi interventi curata da Maria Nadotti per Bollati Boringhieri). Anche lui è molto critico, non sul compito della fotografia nell’informazione, ma sul «trattamento delle immagini che in gran parte promuove disinformazione». E solo apparentemente l’approccio all’immagine da lui suggerito cozza con la partecipazione «attiva» necessaria per Kapuscinski: «La prima cosa da fare davanti a un’immagine che già esiste è semplicemente essere aperti a essa, senza idee precostituite di alcun tipo. La prima cosa da fare è essere aperti alla sua energia e tale energia viene dalla costellazione dei suoi punti focali. Poi, dopo avere in qualche misura percepito e sentito quell’energia, può forse esserci una storia, o almeno ciò che chiamiamo una storia». È come quando ci si mette a disegnare: dall’oggetto prescelto, scrutato, «a un certo punto si sprigiona una energia che è lì per incontrarsi con l’energia contenuta nello sguardo di chi osserva».

Uno scatto poco naturale

Ci siamo attardati un po’ sul mondo del fotogiornalismo con il suo fascino (soprattutto antico) e le sue problematiche (particolarmente attuali) - nient’affatto banali anche per i non addetti ai lavori — perché è qui che ci appaiono con maggior evidenza chance e rischi dell’incontro/scontro con l’Altro. Un Altro che se ne sta “a casa sua” ma ritrovandosi d’un tratto al di là, o al di qua, di un diaframma disposto ad aprirsi a lui per un sessantesimo, un duecentocinquantesimo di secondo. Un batter d’occhio che può essere un atto di violenza o di contemplazione. Questo è vero persino per un paesaggio, secondo Eugenio Turri.

Nel suo Il paesaggio e il silenzio fresco di stampa (Marsilio), colui che diresse l’enciclopedia Il Milione ha belle pagine dedicate anche all’Africa, e alla fotografia. Nemmeno un paesaggio, per lui, è una “cosa”. Non solo perché l’aggressione cui lo sottoponiamo con scempi continui finisce per rivoltarsi contro di noi, suoi inquilini, ma perché anche l’ambiente che ai nostri (miopi) occhi appare più vergine, in realtà reca spesso delle tracce, per quanto dolci (o persino invisibili), che ne hanno fatto un “territorio”, uno spazio al contempo fisico e spirituale, materiale e simbolico, di una avvenuta antropizzazione da parte del gruppo umano ivi residente. (Qui Turri dichiara la sua dipendenza anche dai lavori di Angelo Turco).

Fotografare, allora, può ferire, o al contrario esaltare, anche là dove non vi fossero persone nel campo visivo. Risparmiamoci gli esempi, che il lettore potrà trovare da sé (nel dossier è da segnalare particolarmente l’intervento di Nabil Boutros), e limitiamoci a una citazione di Henri Cartier-Bresson (uno dei fondatori dell’agenzia Magnum) che Turri propone: «Fotografare significa, nello stesso istante e in una frazione di secondo, riconoscere un fatto e l’organizzazione rigorosa delle forme visualmente percepite che esprimono e significano questo fatto. Vuol dire mettere sulla stessa linea di mira la mente, l’occhio e il cuore».

Tra gli estremi del fotogiornalismo, di classe oppure selvaggio, e della ripresa di paesaggi — anonimi o con l’anima - si pone la maggior parte dei lettori di Nigrizia, non professionisti ma quasi tutti con una fotocamera nel cassetto e, soprattutto, mediamente assai sensibili al rapporto con l’Altro. A chi una macchinetta, digitale o meno, l’ha impugnata almeno una volta in Africa, o anche solo dietro il cortile di casa, le testimonianze di questo dossier offrono degli spunti di riflessione. Proviamo anche a noi ad analizzare ed esplicitare come viviamo il nostro fotografare ed essere fotografati. Perché, a dispetto dell’odierna facilità di possedere un apparecchio (basta una usa-e-getta) e di fare clic, ha ragione Turri: «Chiunque fotografa lo fa in modo non naturale. Soggiace a dei modelli, opera delle emulazioni. Esprime le tensioni culturali, il gusto, il senso sociale, politico, il senso della vita del proprio tempo».