Pubblicità e informazione

Un articolo pubblicato su la Repubblica di Giovedì 9 Marzo (pagina 42, sezione Economia) ci permette di fare qualche riflessione su un tema mai abbastanza dibattuto, ossia il rapporto tra pubblicità e informazione.

L’articolo in questione è intitolato "Il 56% della pubblicità finisce in tv" e sottotitolato "Denuncia della Fieg. Per i giornali utili e lettori in crescita".

Il pezzo scritto da Aldo Fontanarosa inizia così: "I giornali italiani vivono in discreta salute. Ma starebbero molto meglio se la televisione non mangiasse una fetta enorme delle inserzioni in circolazione. Il 56% della pubblicità va alle emittenti tv, mentre appena il 36,8% resta alla carta stampata, caso unico in Europa. Malgrado la crisi economica abbia svuotato le tasche degli italiani, i quotidiani conservano i loro lettori (la flessione delle vendite è dello 0,1%). Addirittura i settimanali e i mensili aumentano le vendite (del 2 e dell’1,5%). Per questo, gli editori della Fieg considerano il 2005 un anno confortante, positivo."

Contenti loro contenti tutti? Non proprio.

I dati riportati da Repubblica sono tratti dall’indagine "World Press Trends 2004", condotta dalla World Association of Newspaper (Wan) e riassunti dal giornale in una tabella che precede il testo dell’articolo e che qui riportiamo.

L’aspetto interessante non sta soltanto nella sproporzione tra gli investimenti pubblicitari destinati alla tv e quelli destinati alla carta stampata, ma nelle conseguenze che questa sproporzione comporta.

Molte volte abbiamo riflettuto e polemizzato sulle interferenze tra pubblicità e giornalismo ,denunciando casi in cui era evidente come l’interesse degli inserzionisti fosse prevalente su quello dei lettori e sulla qualità dell’informazione. E continueremo a farlo. Ma queste cifre ci consentono di andare oltre e di approfondire l’argomento.

La pubblicità è il mezzo principale che l’editoria ha a sua disposizione per finanziare le proprie attività di ricerca, selezione, organizzazione e presentazione dell’informazione: è storicamente e oggettivamente provato.

E’ impensabile che una qualsiasi testata seria possa vivere (e quindi produrre servizi giornalistici e fotogiornalistici di qualità) contando solo sulle entrate derivanti dalle vendite. Il caso più emblematico è quello della rivista Life, il cui primo numero uscì nel 1936 con una tiratura di 400.000 copie, che alla fine della sua esistenza come settimanale tirava 8 milioni di copie. Dal punto di vista delle vendite un successo senza precedenti, ma fu proprio la mancanza di inserzionisti, o meglio il passaggio degli inserzionisti dalla carta stampata alla televisione, a condannare la rivista a morte precoce.

In parole povere per finanziare e commissionare inchieste e reportage l’editoria ha bisogno dei soldi derivanti dalla pubblicità. In parole ancora più brutali: minore pubblicità sulle riviste corrisponde non solo a minore lavoro per i fotogiornalisti che vi collaborano, ma anche a una diminuzione della qualità delle immagini (ovviamente se le disponibilità economiche sono esigue ci si accontenta di prodotti che costano poco, ma che sono anche più scadenti).

Certo è che i costi di produzione dei servizi fotogiornalistici sono oggettivamente cari.

Ancora più certo è che motivazioni di carattere storico e culturale impediscono alle redazioni italiane di raggiungere gli standard professionali internazionali.

Da tempo andiamo dicendo che la qualità dei prodotti editoriali italiani è inferiore a quella di quasi tutti gli altri paesi occidentali; da parecchio sosteniamo che l’uso della fotografia - e soprattutto dei fotografi - nelle redazioni italiane è limitata e al di sotto delle potenzialità professionali.

Se ciò avviene è anche – ribadiamo, anche, ma non solo - per una mancanza di entrate derivanti dalla pubblicità. E’ questo uno dei problemi dell’editoria e di rimando anche del fotogiornalismo italiano: come scrive la Repubblica "Il 56% della pubblicità va alle emittenti tv, mentre appena il 36,8% resta alla carta stampata, caso unico in Europa." Caso unico e anomalo almeno finchè gli inserzionisti non invertiranno la tendenza. E non lo faranno se il legislatore non darà loro strumenti adeguati e convenienti, imponendo limiti precisi e non aggirabili agli investimenti pubblicitari televisivi. C’erano ben pochi cambiamenti in cui sperare finchè le leggi venivano fatte dai proprietari delle reti televisive, vedremo il futuro cosa ci porterà.

Detto questo appare ben strano che gli editori definiscano confortante e positivo lo stato di salute delle loro testate, significa che nelle loro considerazioni stanno privilegiando i dati relativi alle vendite rispetto a quelli del mercato pubblicitario, ma abbiamo visto quanto questo sia insufficiente e sconsiderato. Se avessero semplicemente letto le cifre relative agli altri paesi avrebbero visto che negli Stati Uniti il 42,6% degli inserzionisti si rivolge all’editoria e il 35,1% alla tv; in Francia il 47,9% all’editoria e il 31,5% alla tv; in Germania il 65,6% all’editoria e il 24,2% alla tv; ecc ecc.

Come possiamo pretendere un miglioramento qualitativo delle testate italiane se gli editori vedono il bicchiere mezzo pieno, anzi pieno per un terzo e non vedono i due terzi vuoti?

Inoltre.

Ovviamente ed evidentemente questa situazione stimola atteggiamenti scorretti. Ad esempio quelli di direttori ed editori che - pur di mantenere e coccolare i pochi e/o piccoli inserzionisti che hanno - non esitano a vendere pubblicità non troppo occulte nascoste negli spazi che dovrebbero essere di informazione e non publiredazionali, oppure esitano a condurre inchieste o reportage che potrebbero essere sgraditi ai graditissimi ospiti.

Su questi episodi è più volte intervenuto l’Ordine dei Giornalisti, ma senza comminare sanzioni esemplari (quando invece certi casi avrebbero meritato ben più del semplice "avvertimento") e così contribuendo a far diventare una prassi quello che in realtà è un imbroglio ai danni del lettore.

Il nocciolo della questione dunque è etico e deontologico. Il cronico-culturale-storico-politico atteggiamento degli inserzionisti, che prediligono la tv all’editoria, causa una patologia generale del sistema giornalistico-editoriale. Il problema non sta nella presenza massiccia di pubblicità sulle riviste (magari fosse così per tutte!), ma nell’invasione della pubblicità nell’informazione e nella crescita di pseudo-informazione pubblicitaria.

Su questo occorre maggior controllo e altre regole.

Leonardo Brogioni