Guerra e libertà di stampa

Di fronte ad una nuova guerra che coinvolge gli USA può essere opportuno tornare indietro nel tempo. Gli Stati Uniti ancora una volta si trovano oggi a combattere lontani dal proprio territorio nazionale e gli americani possono avere degli avvenimenti solo notizie indirette fornite dagli organi d’informazione; un’ottima possibilità di controllo per la censura. E’ interessante così ricordare come venne controllata la libertà di stampa americana durante la seconda guerra mondiale e vedere le coincidenze con le dichiarazioni di oggi nella “guerra al terrorismo”.

Fino a che gli USA non vennero direttamente coinvolti nel secondo conflitto mondiale con l’attacco a Pearl Harbor nel dicembre del 1941, i corrispondenti americani sui fronti di guerra erano sottoposti solo alla censura del luogo in cui si trovavano (Parigi, Londra, Berlino…) e la stampa americana era libera di pubblicare ogni notizia o fotografia ritenesse interessante.
Dopo Pearl Harbor, con gli USA formalmente in guerra, il controllo dell’informazione divenne fondamentale anche negli Stati Uniti. Il Paese che si riteneva il più libero al mondo e con la stampa più indipendente dovette affrontare la questione in modo da soddisfare sia le esigenze belliche sia l’opinione pubblica e lo fece utilizzando modi e frasi che ritroviamo anche nelle parole di George W. Bush.
Il presidente Roosevelt ebbe infatti a dichiarare il 9 dicembre 1941, a due giorni dall’attacco: “all americans abhor the censorship, just as they abhor the war. But the experience …has demonstrated that some degree of censorship is essential in war, and we are in war”.
E’ esattamente lo stesso concetto espresso da Bush dopo il crollo delle Twin Towers: gli Stati Uniti sono in guerra ed ogni giornalista oltre che al dovere d’informazione deve fare riferimento allo spirito patriottico, evitando di diffondere notizie “inopportune” per gli Stati Uniti d’America ed il sentimento unificante dei cittadini statunitensi.
I punti chiave nel dicembre 1941 erano due: le notizie pubblicate dovevano essere vere, ma allo stesso tempo non dovevano in alcun modo aiutare il nemico. Quindi fu istituito l’US Office of Censorship; preposto al controllo della diffusione di notizie concernenti il conflitto lavorava a stretto contatto con gli editori affinché questi ultimi divulgassero solo le informazioni che i militari ritenevano potessero essere di dominio pubblico
Già il 5 gennaio 1942 venne redatto il Code of War Practise for the American Press, stilato in collaborazione tra le Forze Armate e le varie associazioni della Stampa: un decalogo di comportamento a cui erano invitate ad attenersi le redazioni. Nel caso di non osservanza delle norme non era previsto alcun tipo di sanzione, ma si faceva affidamento sul patriottismo di ogni singolo giornalista per la sua applicazione. Il Codice era messo a garanzia contro la pubblicazione impropria di notizie concernenti navi, aerei, truppe, fortificazioni, produzioni di guerra, armamenti e tempo meteorologico.
Nel giugno del 1942 venne creato l’Office of War Information ( che alla fine della guerra diverrà l’USIS, United States Information Service) con il compito, all’interno del Paese, di dare informazioni sullo stato e il progredire della guerra e della politica bellica nonché dell’attività del governo. All’estero aveva lo scopo di sviluppare e diffondere la propaganda pro USA.
Il quadro a questo punto era completo: gli americani potevano essere messi a conoscenza di tutto, tranne che di quello che né loro né altri dovevano sapere; il lettore americano poteva dormire sonni tranquilli, su di lui e sulla sicurezza del Paese c’era chi vegliava e decideva cosa fosse opportuno scrivere, leggere, vedere, pensare di una guerra lontana combattuta da soldati americani che fino al febbraio del 1943 saranno presentati, ai suoi occhi, come immortali e preferibilmente bianchi. Si aveva cioè notizia dei soldati morti sul fronte ma non ne venivano divulgati né i nomi né tantomeno le fotografie.
Con lo svolgersi del conflitto ed i successi alleati il controllo dell’informazione divenne sempre più blando dato che le notizie che fosse riuscito a carpire il nemico potevano solo scoraggiarlo, come ebbe a dire il vicepresidente Ford già nel maggio del 1942: “Bring the Germans and Japs too see it. Hell., they’d blow their brains out!”.

A questo punto gli americani potevano così ritenersi veramente soddisfatti, convinti di ricevere notizie esaurienti sullo svolgimento del conflitto dalle autorità e dalla stampa: dalla radio ascoltavano la cronaca dei fatti, dai giornali e dalle riviste avevano articoli di approfondimento, dai cinegiornali e dai rotocalchi le immagini. E fu proprio alle fotografie che venne data particolare attenzione anche dagli organi preposti al controllo dell’Informazione.
Le fotografie ed i filmati erano infatti negli USA l’unico mezzo per vedere la guerra e l’importanza del loro controllo divenne prioritario. L’evoluzione della tecnologia aveva reso in grado chiunque di scattare fotografie e gli organi governativi subito si preoccuparono che solo alcuni gruppi specifici di individui potessero riprendere immagini.
Immediatamente dopo l’attacco a Pearl Harbor venne istituito dalle Forze Armate un pool fotografico, composto in parte da fotografi militari — combat photographers — ed in parte da fotografi di riviste o associazioni. Vi erano fotografi dell’ACME Newspicture, dell’AP, dell’International News Syndacate; il Time Inc. era l’unico gruppo editoriale ammesso nel pool. Alla fine della guerra il totale dei reporter accreditati presso l’esercito fu di 65 individui, e tra questi un’unica donna, Margaret Bourke-White.
Essere parte di questo staff poneva immediatamente i fotografi in una posizione privilegiata nello svolgimento del loro lavoro. Le regole erano poche e chiare. Le agenzie presentavano alle Forze Armate i fotografi che volevano inviare al fronte, l’ Office of Censorship controllava le loro credenziali ed il loro passato, nel caso di nullaosta venivano inquadrati nell’ USForce con il grado di ufficiali. Portavano una divisa militare con la sigla wc (sigh!) cioè war corrispondent, non potevano portare armi, dovevano vivere e spostarsi con l’armata o il battaglione a cui sarebbero stati assegnati, sia nelle retrovie che in prima linea. Il loro lavoro avrebbe avuto priorità assoluta al controllo censorio ed all’invio in USA, potevano usare canali militari e la radio trasmissione dell’Esercito (ed in questo caso non sarebbe stato menzionato il nome del fotografo). Di contro i fotografi non potevano opporsi a che le loro fotografie venissero utilizzate sulle riviste delle Forze Armate (come Parade o Stars and Strips) e se richiesto, dovevano fare servizi su invito delle autorità militari.
I fotografi d’altronde erano corteggiati sia dai generali, che ben sapevano di quanta popolarità gli avrebbe portato una foto sui giornali , sia dai soldati semplici che quasi consideravano le fotografie pubblicate un mezzo per dare notizie di sé a casa. Il resoconto visivo di una battaglia, anche se di scarsa importanza, vi faceva in qualche modo partecipare l’intera nazione rendendola patrimonio della memoria collettiva, punto di forza fondante della nazione americana.
Per i fotografi oltre al problema di essere al fronte senza armi, certo non trascurabile, vi era quello di mandare i propri servizi alle redazioni, e il più velocemente possibile. La maggior parte delle volte il reporter scattava prendendo nota delle pose ed inviava direttamente rullini e fotografie al laboratorio dell’ esercito, spesso distante centinaia di chilometri. Una volta sviluppate le pellicole passavano una prima censura presso il Quartier Generale per venire poi inviate a Londra o, dopo il 1943, anche a Il Cairo, o direttamente a Washington. Negli USA fotografie e didascalie passavano il controllo dell’Office of Censorship e dell’OWI per essere poi smistate alle redazioni delle varie testate, dove venivano impaginati i servizi che andavano sempre comunque vistati dall’Office of Censorship prima della stampa.
Vi erano precise regole a cui il fotografo doveva sottostare se voleva vedere pubblicate le sue fotografie: venivano scartate al controllo censorio immagini di soldati americani morti o gravemente feriti (questi ultimi potevano essere mostrati solo dopo le cure ospedaliere), di radar (durante la seconda guerra mondiale era ancora considerata un’arma segreta), di volti dei morti anche se nemici, di prigionieri, dei lavori non eroici svolti dai soldati (ad esempio nelle retrovie) e si invitava a ritoccare le fotografie lì dove potevano comparire distintivi su divise o mezzi di trasporto e dove si potevano riconoscere installazioni militari e la loro ubicazione.
Con il proseguire della guerra e soprattutto grazie al fatto che i fotografi americani seguivano un esercito che avanzava di vittoria in vittoria (così come era stato inizialmente per l’esercito tedesco), i resoconti e le immagini divennero sempre più divulgati e, con il passare del tempo, la censura fu sempre meno rigida. Dopo l’invasione dell’Europa le immagini furono rese immediatamente disponibili alla stampa.
Ma spesso si ebbero comunque delle reazioni di autocensura da parte soprattutto degli editori che continuarono a preferire di non pubblicare certe fotografie. Un esempio clamoroso tra tutti è quello dei resoconti fotografici dei campi di sterminio nazisti che vennero diffusi dalla stampa solo molti anni dopo, anche se le stesse fotografie furono usate come prova inoppugnabile durante i processi di Norimberga.
Il numero dei corrispondenti americani caduti in guerra fu proporzionalmente quattro volte superiore alle perdite militari americane giungendo ad un totale di 37 morti e 112 dispersi.
A circa 60 anni di distanza ritroviamo gli Stati Uniti, coinvolti in una guerra lontana, che ancora fanno appello allo stesso spirito patriottico e agli stessi intenti censori per controllare la Stampa. Non solo si chiede di non diffondere notizie utili al nemico, ma si vieta anche di vederlo: non si possono vedere bin Laden ed i suoi uomini, né ascoltare i loro proclami e si invita a diffidare degli organi d’informazione “non amici” come la rete televisiva Al Jazeera.
I giornalisti occidentali inviati di guerra sono per la maggior parte in Pakistan, cioè nelle retrovie, e possono dare solo notizie incerte e già filtrate mostrando come supporto ai loro resoconti filmati e fotografie che non sappiamo se di repertorio o di cronaca e se coincidenti con quanto ci viene riferito.
La necessità che si impone sempre più nel mondo occidentale di avere una prova visiva degli avvenimenti (è stato fotografato e quindi è stato) ed il più velocemente possibile rischia di causare un forte scollamento percettivo. Se da un lato le nuove tecnologie, che pare però manchino in Afghanistan, permettono di avere immagini in tempo reale, dall’altro non sono più garanzia di autenticità , che è poi il valore intrinseco della fotografia-documento. Infatti una fotografia digitale, priva quindi di un supporto fisico, di una matrice, non dimostra assolutamente l\'autenticità di un fatto: può essere elaborata, creata virtualmente, assemblata dall’altra parte del mondo e non si avrà mai la prova inconfutabile dello scatto o del negativo o della stampa ritoccati o integri, lasciando così uno spazio che può essere solo colmato dal dubbio sulla veridicità di quanto osserviamo. Forse per questo una guerra che Bush si è prontamente preoccupato di definire anche “nascosta” assume dei contorni sempre più incerti sulla sua visibilità, anche quella ammessa e concessa. Credo che in pochi tra gli spettatori possano riconoscere un tracciante notturno sul cielo di Kabul diverso che da quello sui cieli di Baghdad e tutto questo lascia oltremodo disorientati sulla lettura delle immagini di questo nuovo conflitto.

Giovanna Bertelli è studiosa di storia della fotografia, photoeditor