Così tanti corsi, così poco impiego

  • didascalia: Scuola abbandonata a Gunnison, Mississippi, 2007
  • firma: Hobo Elvis
  • nota: Licenza CC BY-NC-SA 2.0

Il mercato della fotografia giornalistica è in profonda crisi. Nonostante mezzi tecnici sempre migliori, costi di produzione abbattuti, distribuzione facile, tempi immediati per rivedere, editare, inviare, pubblicare… anche i fotografi affermati faticano sempre più ad avere commissionati o anche a farsi riconoscere (e ricompensare) lavori autoprodotti.

Eppure, nella precarietà assoluta della situazione attuale, sono sempre di più coloro che restano affascinati dalla fotografia a tal punto da intraprendere un percorso di formazione. Tralasciando i percorsi più approfonditi e di ampio respiro, offerti dalle scuole di fotogiornalismo (di cui vorremmo occuparci in seguito), vediamo sorgere (a volte dal nulla) corsi e workshop di reportage. Fotografi più o meno noti si dedicano sempre più all'insegnamento e sempre più persone vogliono approfondire, formarsi, provare. Perché?

Forse questa necessità è cresciuta grazie ad un'offerta formativa che una volta era molto più ridotta?

In parte, ma non solo: corsi e workshop di fotografia esistono da molto tempo. E' certo che il digitale e internet hanno amplificato la possibilità di condivisione, così ognuno può sperare di "far vedere al mondo" le sue esplorazioni, le sue foto. Questo però spesso va ad aumentare il volume dei contributi fotografici di bassa qualità, proposti da chi si improvvisa o crede di essere capace di comunicare per immagini. La televisione (specie quella italiana) ci ha abituati che non è necessario avere qualcosa da dire per avere uno spazio, e che l'importante è apparire.

Tra i tanti che riversano la loro produzione d'immagini nei social network e nei siti di condivisione d'immagini, ci sono però anche coloro che si rendono conto della necessità di approfondire, di apprendere, e quindi incrementano la domanda di formazione.

Non tutte le proposte di corsi e workshop sono di qualità, ma è indubbio che il numero delle occasioni sia in aumento, anche se (in Italia) mancano le situazioni d'eccellenza o i percorsi formativi davvero di alto livello, universitari. Purtroppo nemmeno nella scuola italiana di base si impara a leggere né a produrre le immagini. Cresciamo visivamente analfabeti, nonostante siamo imbevuti di immagini in ogni momento della nostra vita.

L'esperienza di chi partecipa a corsi o workshop è spesso positiva, empatica. Nei messaggi inviati al termine dei workshop di Reportage tenuti a Forma leggiamo: "Penso di parlare a nome di tutti quando dico che è stato un immenso piacere (Tomas). Tempo e soldi spesi bene (Guido). Grazie per aver stimolato la mia curiosità e il mio spirito di osservazione. Ne sono uscita davvero entusiasta (Chiara). Mi fa piacere verificare che non solo per me la fotografia è anche guardarsi dentro, crescere, imparare a rapportarsi agli altri (Marco)."

Forse la consapevolezza e l'introspezione sono la vera novità dell'attuale offerta formativa sulla fotografia. Non tutti vogliono alla fine diventare professionisti: "Imparare la differenza tra guardare e vedere fa bene nella vita. Stimola lo spirito critico, ti aiuta a guardarti intorno e a stare con i piedi per terra." sostiene Marco Vacca.
 
La perfezione tecnica come unico parametro a cui tendere (o come regola derogabile solo in presenza di un contenuto ineguagliabile) è sempre meno importante: nel linguaggio fotografico attuale la tecnica è sempre più spesso una filosofia, una forma di espressione o pensiero: la Lomografia, la fotografia con macchine a foro stenopeico, le tecniche basate sull'uso di telefonini o addirittura software dedicati non sono solo mode, ma spesso sottendono un approccio alla realtà.

Isabella Balena, in un recente incontro pubblico, ha spiegato che il suo interesse per la fotografia coincide con la sua necessità di vedere la vita e il mondo e che farlo da professionista le ha permesso di dedicarcisi a tempo pieno.

Peccato però che sia sempre più difficile avere degli sbocchi professionali in questo campo. Il mercato fotogiornalistico italiano è sempre più chiuso, e nel resto del mondo le cose non vanno comunque troppo bene.

Verrà il tempo, presto o tardi, in cui i semi della fotografia piantati con cura e dedizione in una miriade di situazioni riusciranno a crescere senza essere bruciati dalla vacuità delle immagini pubblicate sui media italiani?

Riusciranno i talenti della fotografia nostrana a trovare il sostegno e gli spazi per potersi dedicare al racconto della realtà senza doversi accontentare di pagine solo virtualmente visibili al mondo intero?

O dovremo accontentarci di essere tutti fotoreporter della nostra realtà sottocasa, che condividiamo in rete, e autoprodurre la nostra dose quotidiana di immagini perché i mass media si limitano al pettegolezzo innocuo e convogliano le risorse nell'invenzione di favole piuttosto che nel racconto di storie vere?

Oggi purtroppo quasi nessun media sceglie di investire su un testimone (ovvero un reporter, perché i giornalisti dell'immagine visiva sono obbligati ad andare sul posto) che vada dall'altra parte del mondo per raccontare (a noi, con il nostro linguaggio) quello che succede.

Speriamo che formare così tanta gente alla produzione e fruizione delle immagini serva a non far spegnere la consapevolezza che la fotografia rimane un potente strumento di conoscenza della realtà. E che compito di mettere questa conoscenza a servizio dell'uomo spetta al giornalismo, anche quello italiano. 

Esattamente quello che sempre più spesso sembra aver rinunciato a tale compito.