UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione

A.A. 2003-2004

IL REPORTAGE FOTOGRAFICO - Il caso di “D”: veloci flash sui contrasti del mondo


Indice

  • Elena Lonardi
  • IL REPORTAGE FOTOGRAFICO - Il caso di “D”: veloci flash sui contrasti del mondo

Introduzione p.9

CAP 1.
Storia del fotogiornalismo e teorie sul linguaggio fotografico


1.1 Andare vedere e raccontare p.21

1.2 La nascita della Leica p.23

1.3 Il racconto fotografico p.24

1.4 L’avvento della televisione p.26

1.5 La nascita del fotogiornalismo in Italia p.27

1.6 La nascita della fotografia sociale p.31

1.7 La notizia fotografia: teorie fotografiche p.34

1.8 Cronaca e commento: un flusso di frammenti p.38

1.9 Il ruolo della fotografia nell’informazione p.40

1.10 Notiziabilità della fotografia p.42

1.1I Immagine come illustrazione o rappresentazione, flusso o pausa p.43

1.12 Congeniti problemi di linguaggio p.45

1.13 La fotografia come processo estetico p.51

CAP 2.
Diversi approcci allo studio della stampa femminile

2.1 Storia della stampa femminile p.55

2.1.1 La comparsa dei primi periodici p.55

2.1.2 Stampa femminile, società industriale e cultura di massa p.57

2.1.3 Stampa femminile in Italia p.60

2.1.4 I femminili e la trattazione dei problemi sociali p.61

2.2 Il contributo degli studi femministi p.63

2.2.1 Un universo femminile multiplo p.64

2.2.2 La nozione di genere p.66

2.2.3 Linguaggio maschile vs linguaggio femminile p.68

2.2.4 Indebolimento della nozione di identità p.70

2.2.5 Contributi della sociologia agli studi di genere p.72

2.2.6 I limiti del concetto di differenza p.73

2.3 Contributi della sociologia delle comunicazioni e degli studi sulle comunicazioni di massa p.75

2.3.1 La stratificazione del pubblico dei periodici femminili p.76

2.3.2 Il ruolo del lettore dei magazine femminili p.77

2.3.3 Lo studio dei testi popolari p.78

2.3.4 Il lettore come produttore di senso p.79

2.3.5 Il genere testuale p.80

2.3.6 La produzione del senso p.82

2.3.7 La proposta di un sé perfetto p.83

2.3.8 Il dolore della Jeune-Fille p.85

CAP 3.
Le riviste femminili oggi: come nasce “D”, un termine di paragone

3.1 Caratteri generali delle attuali riviste femminili p.87

3.2 La stampa delle illustrazioni e gli inserti allegati ai quotidiani p.88

3.3 La comparsa di “D” p.91

3.4 L’eccezionalità di “D” nel panorama delle riviste femminili p.92

3.5 “D”, il progetto editoriale p.94

3.6 Attenzione al cambiamento e al quotidiano: parla Enrico Regazzoni p.95

3.7 ”D” e i drammi sociali p.98

3.8 Un target ben definito. “D” come giornale di frontiera p.100

3.9 “D” e la costruzione di un mondo possibile: analisi più puntuale p.102


CAP 4
Analisi di 46 immagini apparse su “D”

4.1 Primo reportage. Fame di stato p.108

4.2 Secondo reportage. Bulldozer sopra Pechino p.110

4.3 Terzo reportage. La lunga marcia di Shanghai p.112

4.4 Quarto reportage. Cecenia, nel paese delle vedove p.113

4.5 Quinto reportage. Fermate la polio p.114

4.6 Sesto reportage. Medellìn, la legge delle bende p.117

4.7 Settimo reportage. Dizionario di pace p.118

4.8 Ottavo reportage. Crisi in Argentina, di chi è la colpa? P.120

4.9 Nono reportage. Tra i fantasmi di Pyongyang p.122

4.10 Decimo reportage. Afghanistan anno zero p.123

4.11 Undicesimo reportage. Vicinissima Cina p.125

4.12 Dodicesimo reportage. Polveriera Pakistan p.127

4.13 Tredicesimo reportage. Qui si parla la lingua di Noè P.129

4.14 Quattordicesimo reportage. La rivolta dei tranquilli musulmani inglesi P.131

4.15 Quindicesimo reportage. Paura Congo p.133


CAP 5. L’uso dell’immagine su “D”

5.1 Fotografia e dolore p.135

5.2 Il progetto visivo di “D” p.136

5.3 Trentadue minuti di seconda lettura p.139

5.4 “D” e la selezione delle immagini di reportage p.140

5.5 Le routine produttive oggi p.142

5.6 Nuovo rapporto fra immagine e parola p.146

5.7 Autonomia dell’immagine rispetto al testo p.147

5.8 “D”, l’immagine come simbolo p.149

5.9 Prospettiva globale e locale p.150

5.10 L’importanza della messa in scena del soggetto p.151

5.11 La retorica del piccolo uomo p.153

5.12 Lo spettacolo del dolore p.154

5.13 Topica della denuncia, del sentimento o estetica? p.156

Conclusioni p.165

Bibliografia p.173

Appendice p.177

Introduzione

  • Elena Lonardi
  • IL REPORTAGE FOTOGRAFICO - Il caso di “D”: veloci flash sui contrasti del mondo

Ci sono tracce di guerra, di
demolizione, di desolazione, di corruzione.
Caos è il futuro, caos sono queste foto
esatte come i disegni di una paurosa
architettura.

Enrico Regazzoni


“D” non è donna. Richiama per assonanza il ‘the’ in copertina dei maggiori magazine americani. Richiama l’affidabilità delle notizie, degli approfondimenti, dei giudizi sulla realtà. Si pone a cavallo fra quello che rimane di una rivista femminile e quello che è rotocalco informativo. E lo fa spesso in modo curiosamente ambiguo. A partire dal logo.

Il mio lavoro si propone di analizzare l’utilizzo delle immagini di reportage su “D, la Repubblica delle donne”, inserto femminile di “la Repubblica”, e capire che tipo di immagine femminile possa costruire una scelta editoriale di questo tipo. Per fare questo ho analizzato 62 numeri della rivista a partire da quello del 15 maggio 2001 per arrivare a quello del 26 giugno 2004, limitandomi a riportare l’analisi puntuale di 46 immagini, quelle che mi sono sembrate più significative, tratte da 15 reportage su 14 numeri del magazine.

Fra le tante riviste femminili lo studio si concentra su questa per due motivi. Il primo, più ovvio, è che nel panorama dei magazine “D” spicca assolutamente per quanto riguarda l’importanza data all’utilizzo dello strumento fotografico. I reportage sono, oltre che molto frequenti, estremamente curati dal punto di vista grafico. La risoluzione è 300 DPI per immagini con base 40 cm e altezza 30 cm. La loro importanza è sottolineata dalla dimensione, spesso a due facciate, e dal fatto che lo spazio e l’attenzione a queste dedicati sono maggiori rispetto al testo scritto. L’immagine acquisisce grande autonomia. Questo rapporto fra immagine e testo richiama l’ approccio del fotogiornalismo di inizio secolo per arrivare alla nascita della televisione, pur essendo il panorama mediatico, e di conseguenza l’utilizzo del mezzo stesso, per forza di cose profondamente cambiati.

Il secondo motivo è legato a caratteristiche di profonda innovazione che la rivista, nel suo complesso, porta nel panorama dei femminili. Assieme a “Io donna”, del “Corriere della Sera”, in quanto inserto di un quotidiano, è la prima rivista che si rivolge ad un target femminile non più solo sessualmente connotato. Come afferma il direttore del controllo editoriale Enrico Regazzoni , essendo il pubblico di “D” anche quello di “La Repubblica”, a cui è allegato, questo è definito sotto il profilo non solo economico ma anche culturale e professionale. Proprio il fatto di rivolgersi ad un target così precisamente delineato permette alla rivista di definirsi ‘di frontiera’. “Io donna”, termine di paragone privilegiato in quanto allegato di un quotidiano, avendo l’esigenza di riferirsi ad un pubblico, quello del “Corriere della sera”, estremamente poliforme cede molto più facilmente a classici caratteri da femminile: il pettegolezzo, il gossip mondano, ad esempio. “D” non lo fa. Per questo il divario che lo separa dagli altri femminili è ancora maggiore e più interessante.
La donna è qui concepita al di fuori della sfera intima e privata, da sempre quella collegata agli ambiti di esistenza e agire femminili, e con due occhi sul mondo. È una donna che partecipa alla costruzione di un’avanguardia, che partecipa mentalmente alla realtà che ha attorno, un villaggio globale senza frontiere. E questa partecipazione mentale è uno stimolo ad agire, ad aprirsi ulteriormente all’esterno. È la lettrice di un quotidiano che “dorme con il pugno chiuso”, militante a tutti gli effetti . Non ci si interessa all’esplorazione della sfera intima e personale ma si analizzano fenomeni collettivi e sociali di più ampio spettro.

La rivista non si limita solamente a introdurre la donna in una sfera che prima non le apparteneva, ma, fatto ancor più importante, come primo obbiettivo del suo progetto editoriale, si propone di utilizzare un punto di vista femminile, o un approccio femminile, come strumento di analisi della realtà. Questo strumento risulta vincente, più adatto di quello maschile. Il polo pubblico viene quindi introiettato in una sfera femminile più articolata e complessa di quella che si descriveva in passato. Viene quindi arricchito da nuovi e vincenti strumenti di analisi. Per utilizzare la terminologia che caratterizza gli studi femministi, si ha una sorta di riscatto di uno dei poli che caratterizza la dicotomia maschile/femminile: un approccio più intimo, più ravvicinato, meno apocalittico e più concentrato sugli aspetti quotidiani della realtà, offre uno strumento di indagine sul mondo più sincero ed efficace, suscettibile di riportarne ogni suo aspetto. Uno sguardo miope, quello femminile, che si sostituisce ad uno presbite, quello maschile .

Quello che qui interessa capire è perché il mezzo fotografico sia, nella rivista, considerato quello più efficace nell’esprimere questo nuovo punto di vista, questo nuovo modo di indagare la realtà. Fin dal suo connubio con la stampa illustrata la considerazione dell’efficacia della fotografia come mezzo di informazione ha risentito della sua congenita ambiguità come strumento di registrazione del reale. L’immagine ha da sempre sofferto di problemi linguistici. Estremamente meccanica da una parte, quindi caricata di forte credibilità e capacità di registrazione oggettiva del mondo, estremamente soggettiva dall’altra, filtrata dalla personalità del reporter e caratterizzata da una forte componente di emozionalità. L’immagine è in grado di colpire e commuovere più di ogni altra forma di rappresentazione. Per di più la rappresentazione di aspetti della realtà, di frammenti del mondo, difficili e dolorosi, qui passa molto spesso attraverso ritratti di uomini passionali, colti nel loro sentire, soffrire, nel loro agire quotidiano. Sono figure che rimandano alla retorica del “piccolo uomo” , quello che si può sentire vicino e per il quale provare compassione. È interessante capire che tipo di reazione l’utilizzo dell’immagine cerchi effettivamente di suscitare nel fruitore.

Altro fatto determinante, e strettamente connesso al precedente, nel considerare l’importanza dell’immagine nella rivista è considerare come questa apra la possibilità di una seconda lettura, basata su un immediato impatto visivo, quindi più veloce e potenzialmente più superficiale. È infatti usata come frammento di realtà capace, in quanto simbolo, di richiamarla interamente. Le didascalie, talvolta frammenti di articolo che non spiegano l’immagine, forniscono pochi elementi necessari per stimolare della foto l’interpretazione voluta dalla rivista e per capire con facilità il senso dell’intero reportage. Tutto questo avviene in media in 32 minuti, il tempo di lettura effettivo, emerso in una ricerca di mercato del ’98, che rimane un tempo comunque lungo.

La doppia frammentarietà del testo e dell’immagine, oltre a consentire una lettura più veloce, crea un insieme omogeneo se lo si considera collegato, anzi, se lo si considera immagine della complessità di tutti gli aspetti della realtà. Grazie all’utilizzo delle immagini la lettura della rivista procede per attriti e contrasti molto forti. Immagini di tipo assolutamente diverso, che rappresentano aspetti opposti della realtà, sono accostate. “Un bambino mangiato dalle mosche appare accanto a una donna che guarda annoiata il suo diamante” . Il dolore viene usato come modello per rileggere il benessere, e viceversa. Questo per rappresentarne la reciproca convivenza nella quotidianità. La foto è il mezzo che può rappresentare con estrema immediatezza questi contrasti e il continuo cambiamento di cui sono origine.
La componente emozionale della fotografia e soprattutto la suscettibilità di offrire questa seconda lettura, immediata e basata sulla raffigurazione di contrasti così forti, sono caratteristiche che possono assumere una rilevanza particolare proprio per il fatto di essere utilizzate in una rivista femminile. “D” ha un pubblico al 36% maschile e, non fosse per la merceologia proposta, tipicamente femminile, potrebbe facilmente essere identificato come un magazine ‘neutro’, partito dal presupposto di non accettare la differenziazione fra ‘argomenti maschili’ e ‘argomenti femminili’. Ma non si può prescindere dal fatto che sia nato come femminile, per tanto è necessario analizzarne le caratteristiche in quest’ottica.

Il canale tramite cui il messaggio fotografico passa è fondamentale nella costruzione del senso dell’immagine . Emerge un curioso parallelismo fra le dicotomie che descrivono i poli donna/uomo, fotografia/parola. Questo potrebbe sembrare già il segnale di una scelta. Universale, emozionale, escrittivo e sintetico, da una parte, razionale, locale, espressivo, analitico, dall’altra. È come se la foto rappresentasse il medium potenzialmente più adatto per esprimere quello che è definito come facente parte della sfera femminile.
Quello che è utile capire è ciò che può significare questa scelta, all’interno di un progetto editoriale sicuramente valido e di forte carica innovativa, che vuole rappresentare la donna in maniera consona agli attuali sviluppi sociali, proiettandola per la prima volta in una dimensione pubblica che vuole coinvolgere il mondo intero. È rappresentativo che la foto sia il mezzo più usato per farlo, seppur supportata da articoli validi e approfonditi, così come sembra rappresentativo che da subito siano sorti degli imbarazzi nella redazione stessa riguardo questa scelta e le modalità di applicazione. Il fatto è che la foto è stata fornita di un’autonomia fortissima, un’autonomia legata sia al suo valore estetico che a quello concettuale. La misura dei due aspetti è da decidere ed è molto sottile il confine che li separa. I disagi nascono dal cercare un equilibrio fra il piacere estetico che si ha fruendo di un’ immagine ben realizzata ed il valore di documento e testimonianza che la foto dovrebbe assumere su una rivista che fa informazione, che vuole non solo mostrare, ma anche analizzare ed approfondire. Come testimonianza infatti dovrebbe il più possibile aderire alla realtà, ma questo contrasta con un’ ostinata ricerca del bello.

Non si può poi prescindere dal fatto che l’allegato al quotidiano nasca per forza di cose anche come canale privilegiato di pubblicità a colori. Questo porta a pensare di ampliare l’offerta e molto spesso lo riduce ad una sorta di contenitore che vorrebbe parlare un po’ di tutto. Ciò rischierebbe di ridurre i reportage ad una mera attrattiva, ad un semplice espediente per rendere la rivista meno patinata e più impegnata. Lo ridurrebbe ad essere usato per attirare gli sguardi come “fiori con le api” . In effetti se si analizza la percentuale delle pagine di reportage nell’intera rivista si noterà che esse raramente superano il 10%, ed il 10% non è molto. Per avvalorare questo dato ho preso in considerazione anche altre riviste . Femminili mensili come “Vogue”, “Natural Life” e “Silhouette donna” non presentano reportage. Settimanali come “Grazia”, “Vanity fair” e “Donna moderna” raramente superano l’1%. La stessa cosa per il mensile “Marie Claire”. Su “Donna moderna” e “Marie Claire” il reportage in realtà si riduce a poche immagini nella sezione ‘emozioni’. Su “Grazia si parla invece di ‘foto della settimana’. “Io donna” invece supera di poco il 3%. Il “corriere della Sera magazine” sta attorno al 7%. Maggiori sono le proporzioni sugli altri rotocalchi. “l’Espresso” supera il 14%, “Internazionale”, “Diario” e “Avvenimenti” superano il 20%. Come magazine stranieri il “New York Times magazine” e “El Pais semanàl” non riportano reportage.

Quindi sembra inevitabile chiedersi quale sia il valore che si vuole dare al reportage sociale su “D”, vista comunque la percentuale bassa (anche se molto maggiore degli altri femminili) di pagine a questo dedicata e visto anche il contrasto maggiore, rispetto agli altri magazine, con il restante dei temi toccati. La questione è: si ha di fronte una rivista patinata che salta con estrema velocità e superficialità da un argomento all’altro senza eccessivi scrupoli, o una sorta di documento estremamente lucido del mondo così com’è, proprio per non correre il rischio di lasciare indifferenti?

Il progetto editoriale sarebbe quello di offrire un mezzo informativo e di approfondimento ad una donna dal gusto e dalla cultura sofisticati. Si tratta di una donna realizzata, forte, che conosce il mondo ed è pronta ad affrontarlo. È capace di osservare immagini di dolore senza versare una lacrima ma semplicemente prendendo atto di un certo aspetto del mondo, terribile ma esistente. Si sente così costruttivamente stimolata ad agire nel quotidiano, nel suo piccolo, per migliorare ciò che ha attorno, fatto anche di deficienze. Subito dopo può sorprendersi ad apprezzare la bellezza di un abito o di un gioiello e magari pensare di acquistarli. Ma questo è ciò che caratterizza il susseguirsi di eventi della sua quotidianità. È il mondo che è fatto in un certo modo, la donna ha semplicemente imparato a viverlo nel modo appropriato. La foto è il medium migliore per rappresentare la quotidianità, perché come questa caratterizzata da un primo impatto spesso inaspettato e prettamente visivo, che in un secondo momento può essere approfondito.

Nello stesso tempo l’immagine fa sì che il settimanale si carichi di un forte valore estetico. Si ha a che fare con una rivista estremamente curata graficamente, in tutti i particolari, piacevole da osservare sfogliandola. La lettura immediata che si può avere in questo modo della realtà è completamente distorta. La fotografia è evidentemente insufficiente per affrontare in modo completo un argomento, ma lo concede. Osservare il dolore filtrato dalla bellezza più compiuta della sua rappresentazione e alternato a immagini, per lo più pubblicitarie, di estrema ricchezza e benessere, può essere sconcertante. Si può pensare ad un osservatrice che si accontenti di una conoscenza superficiale della realtà, basata su immagini che altri, a modo loro, producono per lei. Non si rischia di arrivare alla costruzione di un mondo di immagini parallelo ma privo di contatto con il mondo reale?
Un’osservatrice che non arriva neppure a commuoversi proprio perché la sua concentrazione sul fatto è passeggera, perché è sommersa da un fiume di altri stimoli, perché nel giro di pochi secondi passa da un immagine di un tipo a una di un altro, è una lettrice forte, o semplicemente abituata al continuo flusso di immagini che l’ha ormai resa insensibile? Come il suo agire può essere effettivamente influenzato? E davvero questo tipo di impostazione del giornale può arrivare a costruire l’immagine di una cittadina del mondo, quando il mondo rischia di passare solo attraverso continui flash?
In poche parole, cosa si cerca di stimolare nelle lettrici? Per cercare di capirlo ho fatto riferimento alle topiche di Boltanski, tre modi di formulare la parola sulla sofferenza. Tre modi, sostanzialmente, di avvicinarsi all’azione.

È inevitabile arrivare a considerare l’eticità di questa scelta. Ma credo che in realtà bisognerebbe partire dalla considerazione molto più ampia che il mondo stesso non si fonda su strutture etiche. La rivista dà concretezza a quello che è un punto di vista non solo femminile, ma anche, e soprattutto, occidentale e consumistico. Ciò che succede dall’altra parte del mondo può destare grande interesse, emozione, indignazione, voglia di agire, ma difficilmente distoglie da altre abitudini e consuetudini di vita. La consapevolezza di un’ingiustizia intrinseca al sistema globale viene accettata come dato di fatto. Qui il dato di fatto viene raffigurato spudoratamente.
Quello che qui mi sembra però inevitabile tornare a considerare è lo spazio dedicato ‘all’altra parte del mondo’. È una quantità elevata se si considerano sia gli altri magazine femminili, dove questi spazi sono o completamente assenti o ridotti al minimo sia se si considera quello che si è abituati a fruire dalla gran parte dei media, ad eccezione dei mezzi di nicchia. Ma uno spazio così ridotto di fronte a possibilità, anche economiche, tanto ampie non può che svalutare l’importanza e l’intento di ampliare lo sguardo sulla realtà. È troppo poco se vuole essere ciò che guarda una vera cittadina del mondo.

Queste considerazioni servono a capire quanto sia utile, in effetti, l’intento di cercare di rinnovare il panorama dei femminili attraverso un prodotto editoriale valido e ben costruito sotto ogni aspetto, ma vorrebbero sottolineare anche come sia facile rimandare all’ambiguità che ancora oggi caratterizza il ruolo della donna, ambiguità legata al ruolo sociale e ai mezzi stampa per lei pensati. Anche quelli meglio costruiti risultano quindi suscettibili di letture possibili anche molto differenti. Sarebbe interessante arrivare a ridurre queste possibilità.

La tesi è divisa in cinque capitoli.

Il primo analizza il rapporto fotografia ed informazione da diverse prospettive. Dalla storia del fotogiornalismo, dalla nascita della fotografia sociale, fino ad analizzare gli usi più frequenti ed i problemi linguistici della fotografia, con costanti implicazioni, in ambito informativo.

Il secondo affronta diversi approcci agli studi della stampa femminile, in particolare quello storico, sociologico e gli studi sulle comunicazioni di massa, per cercare di darne uno sguardo panoramico. Una breve analisi è anche dedicata alle teorie femministe e agli studi di genere per sottolineare i limiti del concetto di differenza, il relativismo culturale della nozione di genere, fino a parlare di indebolimento della nozione di identità. Questo per uscire dall’ottica di considerare certe manifestazioni o prodotti delle differenze e differenziazioni dei generi, tra cui le riviste femminili, come naturali espressioni di una generica differenza sessuale biologicamente determinata, ma come espressioni culturali suscettibili di cambiamento ed espressione di una certa cultura e società.

Nel terzo capitolo si parla del progetto editoriale di “D”, della sua specificità all’interno del vasto panorama dei femminili, del suo target e del mondo possibile che arriva a costruire. Si affronta quindi il suo rapporto con i drammi sociali.

Il quarto descrive e analizza 46 immagini tratte da 15 reportage su 15 numeri della rivista.

Il quinto capitolo analizza nello specifico il progetto visivo della rivista quindi l’uso che D fa dell’immagine. Si parla del rapporto della fotografia con il testo scritto, quindi la sua suscettibilità di offrire una seconda lettura autonoma, la sua capacità di rappresentare la varietà ed il cambiamento del mondo attraverso accostamenti fortemente contrastanti, la pericolosità sia di offrire facile commozione e nello stesso tempo di lasciare indifferenti e le retoriche che tutte queste scelte sembrano perseguire, riconducibili alla costruzione di una determinata immagine femminile.

Conclusioni

  • Elena Lonardi
  • IL REPORTAGE FOTOGRAFICO - Il caso di “D”: veloci flash sui contrasti del mondo

Si è già detto all’inizio di questo lavoro che il suo scopo è quello di capire che valore si può dare all’utilizzo delle fotografie di reportage su un magazine, che è un magazine che nasce come femminile. Questo lo si può fare solo prendendo in considerazione l’intero progetto editoriale e la scelta grafica. Siamo d’accordo sul fatto che il pubblico di lettori è per più di un terzo maschile, e già questo è indicativo della novità che “D” rappresenta nel panorama dei femminili, ma la rivista porta con sé una serie di ambiguità che è comunque significativo interpretare.

L’immagine dà vita ad un tipo di informazione, perché di informazione si può parlare, diversa e parallela a quella offerta dal testo scritto. Si è visto come una diversa strutturazione, rispetto al passato (e all’estero), delle routine produttive giornalistiche crei diversi equilibri fra le due parti e dia vita a risultati complessivamente diversi. Il testo e l’immagine per forza di cose sviluppano una forte autonomia reciproca, si soffermano su aspetti diversi di uno stesso evento. Questo non significa che non sia auspicabile un equilibrio, né si può pensare ad un’immagine così autonoma da sostituirsi al testo.
Per un lettore è difficile capire se un equilibrio e un rispetto reciproco esistano davvero, come abbiamo già visto: il significato di un’immagine, infatti, può essere manipolato con una certa facilità da un testo realizzato successivamente. In realtà, anche in presenza delle più buone intenzioni, non è così facile neppure per la redazione selezionare le foto per poi elaborare un pezzo a queste adeguato. Viste le routine produttive attuali, che vedono appunto l’ideazione separata dei due aspetti, è davvero difficile mantenere l’attenzione su quella che è l’idea dell’evento così come il fotografo si propone di registrare. Molto spesso, nel suo fare informazione, la fotografia si piega alle intenzioni del testo scritto. È come se si virasse il suo valore informativo attribuendogli sfumature che il fotografo non poteva o voleva prevedere.

Se poi si considera l’aspetto estetico dell’immagine si noterà che, nell’utilizzare la fotografia quale testimonianza delle deficienze del mondo, si deve arrivare ad un perfetto equilibrio con una credibile registrazione della realtà. Ovviamente le cose cambieranno a seconda del soggetto fotografato. Ma tendenzialmente la foto che vuole fare informazione deve mantenersi ad un ‘livello medio’ , come abbiamo visto, perché solo così è riconoscibile come testimonianza di un frammento di realtà.
La rivista fin dalla nascita sceglie di dare molto spazio allo strumento fotografico quale mezzo informativo e col cambio direzionale cerca, come abbiamo visto, di mantenere più basso, rispetto alle scelte iniziali, il livello estetico delle immagini che pure sono molto curate. Regazzoni dice per creare una minor autonomia della foto dal testo. Quello che appare chiaro è il tentativo di mantenere le due dimensioni su uno stesso livello, quello di un reportage che vuole analizzare i mali del mondo cercando un forte equilibrio fra le due modalità di raccontare un fatto.

Altro aspetto interessante è quello inerente la carica emozionale, che per natura l’immagine possiede in misura sicuramente maggiore di ogni altra forma espressiva, correlata alla ‘seconda lettura’ di cui si fa veicolo. Questo secondo aspetto ricercato dalla rivista, oltre a consentire tempi di lettura molto accelerati, prevede l’accostamento di immagini di tipo assolutamente diverso e in una successione, almeno in apparenza, del tutto casuale . La rivista infatti non prevede sezioni dedicate a specifiche tematiche. Questo aspetto, ancor più del precedente, assume importanza in quanto inserito in una rivista femminile. I femminili infatti, come abbiamo visto, sono immersi in un universo di caratteri che storicamente sono stati collegati alla costruzione di un certo tipo di femminilità. In un megazine com’è “D”, che si definisce ‘di frontiera’ e ‘all’ avanguardia’ rispetto a un più generale panorama, è chiaro che usare in un certo modo un certo tipo d’immagine non può che caricarsi di ambiguità.
L’aspetto emozionale e commovente verrebbe a cozzare con lo scopo informativo, di lucido sguardo sul mondo. Il passare poi da un tipo di foto ad un'altra completamente diversa per contenuto e impatto emotivo sfocia in un atteggiamento spesso definito eticamente scorretto.

In realtà le cose non stanno esattamente così. L’ambiguità e l’ incoerenza di questi aspetti viene mitigata da due scelte.
La prima: le fotografie sono tratte da reportage che ritraggono aspetti del mondo anche terribilmente degradati ma mai in maniera gratuitamente drammatica. La foto si mantiene sempre ad un livello medio, come abbiamo già visto, cercando un contatto con il lettore che riconosce quello che vede, il più delle volte filtrato dalla quotidianità di una presenza umana. L’immagine poi non dovrebbe sostituirsi al testo, che fra l’ altro è sempre ben costruito e abbastanza ricco di specifiche informazioni.
Questo distoglie dal primo dubbio che può emergere, cioè che la fotografia sia usata con particolare insistenza su una rivista femminile con l’intento di commuovere, perché le donne sono creature facilmente commuovibili. Se poi si va ad analizzare l’intento dell’intero progetto editoriale, lo abbiamo visto, la figura femminile che si propone è tutt’altra: si tratta di una donna che “dorme col pugno chiuso” . È un essere complesso e completo, in profonda mutazione, una mutazione che è in corso in tutti i campi e in rottura con il passato. È profondamente inserita nella società a cui appartiene. È una donna che muta, che sta vivendo un processo di parificazione con gli uomini in molti ambiti, senza perdere la sua femminilità. È aperta al cambiamento, anzi, è l’emblema del cambiamento, cambiamento che cerca di sfiorare le frontiere identitarie, “sa mutare pelle fino a trasformare sesso ed identità, grazie ad una scienza senza più confini” . Si sottolinea il fatto, in sostanza, che quella di “D” non sia una donna qualunque: emancipata, socialmente e professionalmente, colta, sofisticata, esteticamente perfetta, mai banale, sicura e padrona di sé, che padroneggia tutto senza mai perdere il controllo. E, ciò che è fondamentale, è presentata come una donna eccezionale, o meglio, ideale. È una donna che sa affrontare le disparità del mondo, ciò che esso ha di più drammatico.
Questo salverebbe sia l’intento della foto di fare seria informazione, sia preserverebbe quella che è l’immagine femminile che la rivista si propone di suggerire.

La seconda: per quanto riguarda l’accostamento apparentemente improprio delle immagini, alla luce dell’analisi svolta, questo può davvero essere definito eticamente scorretto? Da un certo punto di vista è chiaro che lo sia, ma in realtà è proprio su questa chiarezza che fonda la sua ragione d’essere. Sulla chiarezza, cioè, di essere immagine di un mondo eticamente scorretto, dove i contrasti sociali sono interni alla sua natura e motori del suo continuo cambiamento. Rappresentarli qui non significa accondiscendere ad un certo ordine di cose, significa semplicemente darne atto.

“D” vorrebbe mettere in evidenza che la sua lettrice-lettore ideale non è affatto superficiale, non si accontenta di sapere quello che gli viene proposto in maniera sommaria, magari solo attraverso l’immagine, senza sentire la difficoltà di un passaggio repentino da un tema all’altro. La rivista vuole semplicemente adeguarsi all’abitudine, anche dolorosa, della giornata quotidiana della donna, chiaramente occidentale. Questo aspetto si collegherebbe a quello appena analizzato, connesso alla costruzione dell’identità femminile, poliforme e disposta ad un continuo cambiamento, che del mondo vuole conoscere tutto.

Ma cosa stimola veramente nella lettrice questo dare atto, in questo modo, di una certa condizione del mondo? Davvero questo repentino passaggio da un tema ad un altro e questo uso insistente dell’immagine non possono portare la lettrice ad inaridirsi di fronte a certi spettacoli? E davvero la seconda lettura proposta non porta al rischio di una totale sostituzione della fotografia al testo, potenzialmente ridotto ad una didascalia, e di conseguenza ad una conoscenza più superficiale del mondo? Non richiama molto da vicino la consueta lettura da femminile che può essere interrotta in qualsiasi momento? Non si concede troppo al piacere dello sguardo, col rischio di non trovare uno stimolo all’approfondimento?

Se si fa riferimento alle topiche di Boltanski , come abbiamo visto, la posizione della lettrice è a cavallo fra una topica della denuncia e una topica estetica. Il più delle volte dovrebbe indignarsi e più ancora impietosirsi di fronte allo spettacolo che le è posto davanti agli occhi. La sua potrebbe diventare un accusa che potrebbe sfociare nell’inchiesta, indignata, minuziosa, emotiva e fattuale, un discorso che di per sé fa grande uso del confronto e del contrasto, esattamente come accade sulla rivista, proprio per provocare una grande disgiunzione fra la situazione in cui si trova la lettrice-ore e quello in cui si trova l’infelice. La donna si troverebbe di fronte alla scelta di restare indifferente o attardarsi sull’emozione ma quello che qui è richiesto è che entri in azione, tramite un atto di accusa, nel suo quotidiano, che in qualche modo ha legami col mondo intero. Non le è richiesto ovviamente di entrare direttamente in contatto con l’infelice ritratto.

Nello stesso tempo esiste la possibilità che essa entri in uno stato in cui il sentimento è rifiutato. Essa si potrebbe porre in questo enunciato come qualcuno che guarda e non fa nulla, spostandosi in rapporto a oggetti passivi che rimangono sul posto, per passare oltre. Questo sfiorando, ma solo sfiorando, la compassione.

Qual è fra i due atteggiamenti quello che è più facile assumere per la lettrice di “D”? Esiste un’aderenza effettiva fra quella che è la lettrice ideale e quella reale? Quest’ultima è veramente messa nella condizione di svilupparsi come cittadina responsabile, attenta e partecipe del cambiamento mondiale?

E per ritornare nuovamente al rapporto fra testo e immagine, una trasformazione delle routine produttive, che veda uno sviluppo parallelo e sincronico dei due aspetti del reportage, non potrebbe portare ad un risultato più coerente, ad un’analisi che effettivamente voglia utilizzare il mezzo fotografico come più puntuale e sincera testimonianza di un fatto, come un elemento essenziale per capirne la totalità e per approfondire? Quello che ancora di più potrebbe insinuare dubbi riguardo l’eticità dell’impresa editoriale è lo spazio dedicato ai reportage , che risulta essere sempre molto poco rispetto alla totalità dei temi considerati. In “D” si attiene attorno al 10%, che non è molto e comunque estremamente superiore rispetto agli altri femminili analizzati e lievemente maggiore rispetto ad altre riviste. In quest’ultime però è da segnalare che il reportage si colloca molto spesso in un contesto molto diverso per cui la sua limitatezza non è così evidente e graffiante . Allora qual è davvero il ruolo del reportage fotografico nella rivista? Semplicemente rischia di diventare un simbolo frettoloso del quotidiano susseguirsi di eventi che richiamano alla lontana situazioni più sfortunate dell’occidente in cui effettivamente vive la lettrice. Definirla allora cittadina del mondo sembrerebbe un po’ azzardato. O ancora, la rivista rischierebbe di assumere il ruolo di contenitore dove l’ inserire un reportage corredato da bellissime immagini dà al tutto una veste più colta e impegnata. Ma così anche il reportage rischia di diventare glamour, di diventare un aspetto fra i tanti di una rivista comunque patinata, che non attribuisce un peso diverso a tematiche che un peso diverso ce l’ hanno. Si rischia di passare da una cosa all’altra perché non si pesa davvero nessuna. Si rischia di abituarsi a fruire di certe immagini perché queste vengono proposte con troppa ricorrenza e leggerezza. Se poi si considera che “D” è una rivista femminile questa scelta diventa ancor più significativa.

Quello che si vuole sottolineare è che queste sono ambiguità e difetti che si collocano in un panorama che si carica di significati molto forti, quello delle riviste femminili. “D” in questo caso si pone come forte innovazione andando a toccare argomenti e sfere che in questo contesto mai sono stati presi in considerazione. Lo fa con tutta una serie di difetti che in generale riguardano l’intero ambito dei rotocalchi, ma qui la cosa appare più evidente quando non si perdono neppure quelli che sono certi caratteri ‘storici’ attribuibili alla stampa femminile, come ad esempio l’insistenza su merceologie tipicamente femminili. Siamo d’accordo che il panorama ha bisogno di essere rinnovato. Ma in che modo? Probabilmente cercando di suddividere davvero questo segmento di stampa cercando spazi nuovi, quelli che la donna dovrebbe assumere nella società, quelli che riconoscono la molteplicità dei soggetti femminili, non solo naturalmente opposti all’altro sesso. È giusto ricalcare una specificità femminile, e qui lo si fa assumendo un punto di vista femminile sul mondo considerato, come abbiamo visto, vincente. Ma per essere davvero vincente e innovativo e soprattutto libero da ambiguità, dovrebbe liberarsi del tutto dai retaggi del passato, per non perpetrare ‘assassinio simbolico’ della donna attuato dalle formazioni discorsive della cultura occidentale, come lo definisce Teresa de Lauretis .
Se la donna è davvero un essere così poliforme e si vuole darne atto non bisognerebbe, nel momento in cui si studia un organo di comunicazione a lei dedicato, cercare davvero di ricalcare tutti i suoi interessi e le specificità? È possibile darne atto in un magazine solo?

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  • IL REPORTAGE FOTOGRAFICO - Il caso di “D”: veloci flash sui contrasti del mondo

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