C’è, nei quotidiani italiani, a partire dai due maggiori, Corriere della Sera e Repubblica, una sciagurata vocazione a “strapazzare” le foto. Non dubitate, prima di scegliere il termine “strapazzare” ci ho riflettuto a lungo e ho scelto, tra i molti quasi-sinonimi disponibili, proprio questa parola per cercare di comunicare l’idea di quel mix micidiale di mancanza di riguardo, brutalità, maltrattamento, cialtroneria, mancanza di serietà e sbadata faciloneria che porta agli esiti mediocri e deprimenti che su questo sito non ci stanchiamo di denunciare.
Gli ultimi due esempi sono tratti per par condicio proprio dai nostri due quotidiani più diffusi, anche se sono assai diversi per tipologia.
Il Corriere di domenica 5 aprile 2009, dedica quasi per intero la pagina 27 alle elezioni presidenziali del 9 aprile in Algeria. L’ articolo di Sergio Romano ricorda la guerra civile (o “terrorismo” secondo la versione adottata ufficialmente dagli algerini) scoppiata nel 1992 a seguito del successo del Fronte Islamico della Salvezza (FIS) al primo turno delle elezioni politiche e alla soppressione, da parte delle autorità dello stato, del secondo turno. Tra i vari massacri di civili portati a termine nel corso dei dieci anni successivi, vi fu, nel settembre 1997, quello di Bentalha, un sobborgo della capitale Algeri. In esso morirono circa 200 persone, o forse di più. La fotografia più nota, circolata nei giorni immediatamente successivi e diventata ben presto l’icona non soltanto di quel fatto di sangue, ma di tutte le incredibili sofferenze di un popolo dilaniato da una guerra interna destinata a durare per oltre dieci anni, fu quella del fotografo dell’AFP Hocine, immagine subito denominata “la Madonna di Bentalha”. Fotografia che ha poi fatto vincere al suo autore il World Press Photo nello stesso anno.
Il Corriere, opportunamente, mette in pagina con grande evidenza al centro dell’articolo, su quattro colonne, quella foto ma inciampa sulla didascalia, nella quale la donna è indicata come “una madre”. Potrebbe anche sembrare una svista secondaria, trascurabile, se non fosse che proprio sull’errore involontariamente evocato da questa didascalia, ai tempi è stato scritto un ampio capitolo della fotografia giornalistica contemporanea, riguardo al quale ci limitiamo a rimandare i nostri lettori, per i dettagli, al nostro Osservatorio a suo tempo pubblicato .
In sintesi, la donna era inizialmente stata indicata dal fotografo come una madre i cui otto figli erano stati uccisi nel corso della carneficina. Solo in un secondo momento era stata poi più correttamente riconosciuta come una persona che aveva perso un fratello, la cognata e una nipote. E infatti l’AFP era stata costretta a cambiare la didascalia che accompagna la foto, e che ancora oggi recita: “Algiers, Algeria, 23 September 1997. A woman cries outside the Zmirli Hospital, where the dead and wounded had been taken after a massacre in Bentalha.” Quindi una donna, non una madre. Per inciso, la donna è anche una madre, ma i suoi figli erano al sicuro in una grotta a parecchi chilometri di distanza dal luogo della carneficina. E dunque la parola “madre” in questo caso è del tutto ingiustificato, ma forse viene utilizzato, se si accantona per un momento l’ipotesi della svista, nello stesso modo, con le stesse finalità “emozionali” con cui qualche anno fa L’Unità ha utilizzato, nella didascalia di una scena di guerra in Iraq, il termine “padre” anziché il più neutrale “uomo”. (L’abbiamo notato e commentato qualche anno fa in un nostro Osservatorio .)
Il ricordo di quell’esperienza è la stessa donna a consegnarlo al giornalista Magdi Allam (che al tempo lavorava a Repubblica e non era ancora diventato cristiano e Cristiano), in un’intervista dell’anno successivo ai fatti di Bentalha .
Riportiamo qualche frase, per sottolineare quanto quell’errore di attribuzione sia stato vissuto in maniera penalizzante e traumatica dalla donna:
“Ero scioccata dal fatto che le televisioni e i giornali di tutto il mondo continuassero a mentire, a dire che avevo perso i miei otto figli mentre nessuno diceva che avevo perso mio fratello, mia cognata e mia nipote.” (…) “In tv ho detto tutta la verità: che non abito a Bentalha, che non ho otto figli, che i miei figli non sono stati uccisi e che sono un donna viva.” (…) “Ancora oggi c' è chi utilizza la mia immagine presentandomi come la madre che ha perso otto figli a Bentalha.”
Spiace per la signora Oum Saad, ma ancora oggi, a distanza di dodici anni, c’è chi cade nell’errore di distorcere la sua vera storia.
Fin qui il Corriere della Sera.
Per La Repubblica il modo di “strapazzare” le foto in questo caso è diverso.
La scena del crimine: il dorso interno “La Domenica” a pagina 27, 28 e 29 del numero del 5 aprile 2009.
L’illustrazione che racchiude il titolo “Tutti a casa” è chiara, semplice, gradevole e molto appropriata, dal punto di vista della metafora che utilizza: un grande ombrello protegge la famiglia dalle avversità che stanno al di fuori di esso. L’illustrazione è tratta dall’archivio Corbis. La si può trovare semplicemente digitando le due parole che per prime vengono in mente: “family” e “protection”. E’ tra le primissime immagini proposte dall’archivio.
Diverso il discorso per le due pagine seguenti, in cui, a completare e, si suppone, integrare o dialogare con la grande illustrazione che si trova nella parte centrale della doppia pagina, si trovano quattro fotografie raggruppate a due a due. Il titolone che guida la lettura della pagina di sinistra è “E’ tempo di crisi. Si torna in famiglia”
La prima è una immagine tratta sempre dall’archivio Corbis, anche questa rintracciabile attraverso la più immediata ricerca: “family” + “conflict”. Vi si vede una scena costruita tipica delle foto di stock, che rappresenta una famiglia intorno ad un tavolo con i genitori che litigano e i figli che assistono, distinguibile a prima vista per il grado di spudorata finzione, per l’improbabile recitazione, per la totale mancanza di credibilità della messa in scena.
otto a questa un’altra foto di agenzia, ma questa volta dell’AP, che ha invece un sapore più autentico, una foto di reportage, essendo tratta dall’archivio dell’Associated Press. Vi si riconosce l’interno di un supermercato, una donna con tre bambini in primo piano e un’altra donna che spinge un carrello in secondo piano.
La didascalia cumulativa, che si riferisce alle due foto, recita: “Due scene di ordinaria vita famigliare: qui accanto un litigio; in basso, al supermercato.”
Nella pagina di destra, sulla quale campeggia il titolo “Soltanto un rinvio aspettando anni migliori”, che ospita l’articolo di Massimo Livi Bacci, troviamo un nuovo gruppo di due foto con una didascalia che vale per entrambe.
Ancora una foto di agenzia (Alamy/Photostock), il cui titolo originale, rintracciabile sul sito dell’agenzia è:
“Mother with 2 of her daughters in housing in need of repair west London UK” photo © David Taylor
Dunque una foto di reportage, senza i nomi delle persone, ma con una precisa collocazione spaziale (Londra, UK).
Infine un’altra foto, tratta sempre dal sito Alamy (archivio da 15 milioni di immagini) raffigura due anziani e un giovane in un interno senza altre presenze o particolari qualificanti che permettano di comprendere la relazione tra le persone o altri significativi elementi che contribuiscano alla produzione di un qualche senso. La didascalia, unica, come si diceva, per queste due ultime immagini è:
“Le difficoltà economiche favoriscono la convivenza fra generazioni: qui accanto madre e figli; in basso, nonni e nipoti.”
Ci troviamo qui di fronte a quattro immagini fotografiche che non soddisfano minimamente i criteri dell’informazione giornalistica veicolata dalla fotografia. Infatti:
- i generi fotografici (foto di reportage e foto di stock) sono qui mescolati in una accozzaglia senza capo né coda, e senza che al lettore sia data una indicazione per capire che genere di immagine ha davanti. Le immagini di stock sono, come spesso avviene, ridicole nella loro impossibile rincorsa del reale. Le foto di reportage, d’altro canto, indebitamente estratte dal contesto a cui appartenevano e private della didascalia che le ancorava ad un possibile senso, finiscono per trasformarsi in improbabili illustrazioni dal realismo incomprensibile;
- i temi sono trattati, nelle foto, in maniera caotica, annunciati nelle didascalie e non illustrati nelle immagini. Che senso ha infatti parlare nella didascalia di “convivenza tra le generazioni” e mostrare una madre con tre figlie piccole: c’era forse un’ alternativa a questa situazione? Le bambine, se non ci fosse stata la crisi economica sarebbero andate a vivere fuori casa? Evidentemente no, ma allora di cosa stiamo parlando?
- le didascalie, e i loro titoli, sembrano dimensionate e collocate in pagina dal grafico più che altro per far risparmiare fatica ai redattori e sono state scritte da questi ultimi per cercare di dare una qualche giustificazione alle immagini scelte e non certo per fornire informazioni.
Ci si chiede se, in casi simili, rinunciare del tutto all’immagine fotografica non renderebbe un miglior servizio alla testata, agli articoli in essa ospitati, agli estensori degli stessi e infine anche al lettore. Non sarebbe stato meglio lasciare che queste tre pagine fossero illustrate unicamente dai disegni?
Marco Capovilla