C'è del marcio in Danimarca?

  • didascalia: Haiti
  • fonte: www.pressefotografforbundet.dk
  • nota: Elaborazione a partire da una delle immagini di Klavs Bo Christensen. A sinistra il file Raw con le impostazioni di default, a destra lo stesso file con le impostazioni decise dal fotografo.
A seguito della vicenda delle foto del fotoreporter danese Klavs Bo Christensen, le cui immagini sono state escluse dal concorso Danish Photographer of the Year per "eccesso di Photoshop", abbiamo raccolto alcuni contributi per approfondire il tema del trattamento delle immagini e della corrispondenza alla realtà nel lavoro del fotogiornalista.
Vi presentiamo qui di seguito il punto di vista interno alle agenzie, una prospettiva storica (che supporta l'opinione di Stefano De Luigi) e le reazioni dei fotogiornalisti danesi (raccolte per noi da Carsten Snejbjerg).
A chi non conoscesse la vicenda che ha scatenato la discussione consigliamo di leggere lo speciale "Eccesso di Photoshop?".
Contiamo, a breve, di aggiungere altri contributi.

L’esclusione del fotografo danese Bo Christensen, decisa dalla giuria del premio nazionale “Picture of the Year”, che ha valutato eccessiva la postproduzione nelle immagini presentate al concorso (vicenda raccontata su queste pagine dal presidente Gsgiv dell'Alg Amedeo Vergani), obbliga a riflettere sul limite delle manipolazioni consentite in fotografia. Limite non facile da identificare.

Il problema etico, ovviamente, va circoscritto a quegli ambiti in cui dalla fotografia ci si aspetta una documentazione o una testimonianza. In tutti gli altri casi la valutazione sarà di tipo estetico o filosofico, e non ha senso chiedersi a priori cosa si possa o non si possa fare.

Lo scandalo sollevato dai giudici del concorso serve a ragionare sulla natura delle immagini che vediamo sui media di tutto il mondo, su quanto siano rispettose della verità, su quanto offrano un’informazione affidabile. Rimandando, per un’analisi approfondita del rapporto vero-falso in fotografia, al libro Un’autentica Bugia di Michele Smargiassi , vogliamo qui semplicemente segnalare, a titolo di esempio, alcune caratteristiche di una delle tre più importanti agenzie di news del mondo, la Reuters .

Reuters Pictures carica in tempo reale oltre 1500 fotografie al giorno provenienti da tutto il mondo, prodotte da fotografi di staff e collaboratori occasionali (detti stringer), i quali, pur non avendo un rapporto continuativo con l’agenzia, forniscono quelle immagini di breaking news sfuggite ai membri dello staff per ovvi motivi geografici, temporali, ecc, permettendole di avere un’informazione il più possibile completa. I clienti di Reuters e delle altre grandi agenzie (AP, AFP su tutte) si aspettano una copertura globale e completa di tutti gli avvenimenti principali. Di solito i quotidiani hanno un abbonamento e ricevono direttamente sul “sistema” (un programma per la visualizzazione, l’archiviazione e la messa in pagina delle fotografie) una fornitura (feeding) 24 ore su 24 da parte delle agenzie di news, nazionali e internazionali.

Considerati i tempi tra la produzione e l’invio ai clienti, poche decine di minuti in molti casi, sarebbe impossibile per i fotografi e gli editor dell’agenzia effettuare post-produzioni lunghe e complicate, concedendosi al più qualche intervento rapido su contrasto e luminosità.

I codici etici sono molto restrittivi e interventi di manipolazione manifesta, se scoperti, portano al ritiro immediato delle fotografie incriminate e a sanzioni verso i fotografi, fino all’interruzione del rapporto lavorativo. Esemplare in questo senso la vicenda, risalente al giugno 2006, che costrinse Reuters a cacciare il fotografo Adnan Haji per aver aggiunto del fumo posticcio alla Beirut bombardata dall’aviazione israeliana .

Il caso sollevato oggi è però di più difficile valutazione, poiché non sono riscontrabili immediatamente secondi fini e l’intervento sembrerebbe essere esclusivamente di tipo estetico. Tornando alle agenzie di news e al sistema dei media citato sopra, risulta evidente che una fotografia per essere scelta deve saltare all’occhio di editor, grafici e impaginatori. Per farlo deve essere facilmente e immediatamente comprensibile a chi ne sta scorrendo centinaia. Colori vivaci e brillanti, forme e linee semplici, pochi dettagli e poco disordine, riferimenti all’iconografia classica (spesso sacra) a cui siamo abituati da secoli, sono le chiavi del successo di un’immagine. Spesso dietro a scelte che potrebbero sembrare ideologiche, riordinare il mondo, ripulire la realtà, la povertà, la guerra, sta semplicemente un problema di tempo. Gli editor delle grandi agenzie, per facilitare la scelta, hanno preselezionato le immagini che rispettano più o meno queste caratteristiche, identificandole con la tag “top pictures”.

Stefano De Luigi, fotoreporter noto a livello internazionale, autore di lavori in cui utilizza tecniche e linguaggi molto personali (si veda ad esempio Pornoland) introduce una riflessione sull’uso del ritocco fotografico nella fotografia giornalistica.
Nel piccolo mondo della fotografia di reportage è ormai famosa la vicenda del reporter danese Klavs Bo Christensen e del suo altrettanto famoso lavoro su Haiti che si è visto escluso dal concorso Danish Photographer of the Year 2009 per “eccesso di Photoshop”.

Vorrei partire da queste immagini che molti di voi conosceranno di certo:
  • didascalia: Haiti ospedale psichiatrico 1958-1959 malata mentale
  • firma: Eugene Smith
  • nota: A sinistra: stampa senza interventi; a destra: stampa finale di Eugene Smith.

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  • didascalia: Villaggio di Deleitosa, Spagna 1950; donna spagnola
  • firma: Eugene Smith
  • nota: fotogramma intero

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  • didascalia: Villaggio di Deleitosa, Spagna 1950; donna spagnola
  • firma: Eugene Smith
  • nota: stampa finale
Questi sono due esempi di Photoshop… ante litteram.

E che dire di questo?
  • didascalia: Gabon, Lambarene, 1954. Dr. Albert Schweitzer
  • firma: Eugene Smith
Tre foto sovrapposte...

Perché ho voluto mostrarvi queste foto? Per cercare di riflettere insieme su un fatto oggettivo: la manipolazione in fotografia esiste da molto tempo. Sbaglia chi continua a considerare la fotografia come un elemento oggettivo. C’è su Repubblica del 30 aprile 2009 un testo di Jean Baudrillard (“Fotografia. L’ombra del reale") sulla vana ricerca dell’oggettività in fotografia.

Ma già sento il rumore della disapprovazione di colleghi che pongono la domanda madre di tutte le altre: ma nel fotogiornalismo se arretrassimo sull’oggettività perderemmo l’anima?
E’ giusto: sì la perderemmo.
Non bisogna arretrare: oltre all’anima direi che perderemmo anche la ragione di esistere.
Ed infatti pongo ancora un’altra domanda, essere “embedded” non vuol dire sottostare ad una manipolazione delle proprie immagini (chiaramente impostaci)? Ma non è anch’essa manipolazione, seppur parziale, della realtà che oramai può essere raccontata solo da un punto di vista? Senza più poter essere liberi di scegliere quale?
Ma torniamo al caso in questione.

Provocatoriamente, io che ho fatto uso di sostanze stupefacenti quale il “crossing”, all’epoca ancora arcaica dell’analogico, posso a ragione parlare di “alterazione” ed “eccesso” dell’uso dei colori più di altri. Nel mio lavoro ho cercato sempre nuovi linguaggi che raccontassero delle storie “vere” ma con una forza espressiva ed “evocativa” che rendesse ancora più incisiva la realtà raccontata. Debbo per questo sentirmi in colpa nella mia eterodossia? Non credo. Penso piuttosto che il focus del problema sia un altro. Ho guardato le immagini accusate e posso onestamente dire, spero senza sembrare presuntuoso, che trovo il lavoro del reporter danese semplicemente inconsistente ed aneddotico.
Ed è questo il punto sul quale, secondo me, è fondamentale ragionare. Se le cose hanno un senso, se sono fatte con un “senso”, se sono di buon senso, se la fotografia ci porta dove l’occhio che l’ha vista ci vuol portare, se l’immediatezza dell’emozione che accompagna l’informazione che ci vuole comunicare riesce a toccarci, avrà raggiunto il suo scopo perchè quella è la sua missione.
Una fotografia che immediatamente ci dice tutto non è una buona fotografia, mai, anche nel fotogiornalismo.

Questi sono fatti oggettivi ed è per questo che mi sono permesso di scomodare un fotografo come Eugene Smith. Chi vorrà accusarlo di superficialità? Chi vorrà accusarlo di non aver cercato l’essenza delle cose che raccontava? Ha passato anni sui suoi soggetti! Il fondo del dibattito che si e svolto fin’ora è stato: quanto è lecito intervenire nella “alterazione” (che non vuol dire manipolazione) della realtà con l’uso massiccio di Photoshop?
Direi che la risposta stà nel buonsenso. E’ lecito nella misura in cui tale alterazione non provochi una reazione spontanea di disapprovazione agli occhi dell’osservatore.
Tengo a sottolineare il termine alterazione (dei colori) e non manipolazione della foto, qui chiaramente non esiste dibattito, sono contrario alla manipolazione, e come me credo lo siano tutti quelli che rispettano e cercano di fare questo lavoro con passione e lealtà. Sono convinto che il limite oltre il quale non è più lecito andare sia dentro di noi. Se si è onesti con il mondo che si vuole raccontare, e la fotografia non mente a chi la sa leggere, non si incorrerà in infortuni come quelli capitati al collega danese. Credo che lui abbia cercato di coprire una carenza del suo lavoro con dosi massiccie di photoshop, per spettacolarizzarlo, come si faceva una volta con l’uso smoderato dei grandangoli o di openflash.

Questo comporta un fatto oggettivo: il brutto, il superficiale, il superfluo lo si può anche mascherare, lo si può articolare o lo si può truccare ma si sarà sempre prigionieri della realtà e della verità di un bambino che grida forte: il Re è nudo!
Carsten Snejbjerg, fotoreporter danese, ha raccolto per noi i commenti dei colleghi

Commentare le reazioni dei colleghi danesi all'esclusione del lavoro di Klaus Bo Cristensen al Danish pictures of the year non è cosa semplice. Dopo che Klaus ha deciso di pubblicare i suoi file raw molti si sono sentiti in dovere di fare commenti ma personalmente la cosa più sensata l'ho sentita da Paula Bronstein che ha fatto notare che spesso i file digitali di immagini girate in bn sono molto più sature di quelle incriminate.
Qui in Danimarca non c'è una linea univoca anche se molti propendono per un giudizio che vede quelle immagini trattate un pò troppo. Altri dicono che nel fotogiornalismo si dovrebbe cercare di limitare al minimo l'elaborazione. Altri ancora vedono il ritocco come parte del linguaggio e Photoshop come strumento integrante per la lettura e comprensione del loro lavoro. Questi ultimi ritengono comunque che Klaus abbia un pò calcato la mano.
Per finire Søren Pagter capo dipartimento e docente di fotogiornalismo alla The Danish School of Media and Journalism ha detto che al proposito dovrebbero essere i lettori ad interrogarsi più spesso sulle immagini che vedono: se sono loro piaciute, se secondo loro raccontano correttamente e chiaramente quel che mostrano. Se hanno notato qualche cosa di artificiale, di giustapposto tra il fotografo ed il fruitore e che l'uso dell'elaborazione va visto come uno strumento utile al fotogiornalismo fin quando in questo processo lo si usa con onestà.

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