Quando la fantasia supera la realtà.

  • didascalia: Li chiamano giardinetti. Un eufemismo. Come chiamare automobiline le auto che invadono il marciapiede o cacchine gli escrementi dei cani che sono dappertutto. I giardinetti sono quelli di viale Montenero. Un segnale stradale divelto. L'erba spelacchiata. Gli alberi rinsecchiti che paiono dolenti. Due vecchi pneumatici abbandonati. Sarebbero i giardinetti. Quando potranno avere dignità di giardino?
  • firma: non firmata
  • fonte: Corriere della Sera, 20 febbraio 2001
La foto, apparsa senza firma nelle pagine milanesi del Corriere della Sera del 20 febbraio 2001, rappresenta un piccolo angolo di verde cittadino, a Milano tra viale Monte Nero e viale Regina Margherita, deturpato da un degradato arredo urbano e dalla vistosa presenza di due copertoni d'auto abbandonati.
Fin qui niente di strano, o per lo meno di incredibile, in una città che non ha grande amore e cura dei suoi spazi pubblici. Vogliamo però qui raccontarvi i retroscena di questa foto. Nella testimonianza diretta (raccolta da una nostra collega) del gestore del bar MOM, che si affaccia con una vetrina sui giardinetti in questione, l'immagine di cui parliamo è stata letteralmente costruita da uno sconosciuto fotografo, semplicemente portando i copertoni di auto sul posto, fotografandoli e poi riportandoli via. Il barista ha stigmatizzato l'accaduto con un ironico "Eh, voi fotografi...", lasciando intendere che chi esercita la nostra professione ricorre abitualmente a questi espedienti per creare artificialmente una realtà che non esiste.
E' ben probabile che in genere l'opinione pubblica non faccia grandi distinzioni all'interno della categoria professionale dei fotografi. In parte questa confusione deriva da una insufficiente precisione lessicale: si chiama correntemente fotografo sia chi riprende con fini giornalistici fatti, persone ed eventi, sia chi in uno studio crea immagini a partire da un'idea.
In alcuni ambiti, quello pubblicitario per citare il più evidente ed immediato, la "fabbricazione" delle immagini è una prassi quotidiana che non soltanto viene accettata, ma si potrebbe dire ne sia componente fondamentale. La pubblicità, d'altra parte, non ha ne' il compito di informare i cittadini, ne' un'esigenza di riportare eventi nella loro essenza, e pertanto non ha obblighi morali da questo punto di vista. Altra cosa è l'ambito giornalistico, dove la "sostanziale aderenza ai fatti svoltisi" è la regola di base e il limite invalicabile di una corretta pratica professionale. La fotografia utilizzata in ambito giornalistico (soprattutto in Italia) è però, spesso, altra cosa: è la semplice e talvolta pacchiana illustrazione di un testo, di un preconcetto, di una tesi da dimostrare. Evidente in questo tipo di utilizzo dell'immagine è il ricorso ad espedienti del tipo di quello che vi stiamo qui raccontando, per due motivi pratici: 1) abbreviare i tempi e 2) ottenere immagini "forti". Per una volta (ma non è certo l'unico caso nella storia), il cattivo uso delle immagini che in questo Osservatorio commentiamo e stigmatizziamo, non è dovuto ad un redattore, ad un photo editor, o ad altro giornalista interno alla redazione di un giornale, come spesso avviene, ma è imputabile alla responsabilità diretta del fotografo che quella fotografia ha costruito e scattato e (se c'è stata un preciso incarico di lavoro in questo senso) del responsabile dell'agenzia fotografica nel cui ambito quel fotografo lavora. Per entrambi la fretta di produrre in tempi brevi un'immagine forte ha avuto il sopravvento sulla dentologia professionale. Aggingiamo che la pessima abitudine del Corriere della Sera di non firmare quasi mai le fotografie non permette in questo caso di risalire ai responsabili. Ad essi va non soltanto il nostro biasimo, ma anche il nostro invito affinché, adottando un atteggiamento più responsabile, evitino nel futuro di dare all'opinione pubblica fondati motivi per screditare l'intera nostra categoria professionale.