Il Sabato del Villaggio

  • didascalia: Silvio Berlusconi
  • firma: foto non firmata
  • fonte: La Repubblica, 17 dicembre 2005 - pag 18
Questo intervento, anomalo rispetto alla nostra tradizione di Osservatorî, prende spunto da un articolo scritto da Giovanni Valentini nella sua rubrica su Repubblica, "Il Sabato del Villaggio", apparso lo scorso 17 dicembre. Lo spunto non è legato all'utilizzo di determinate immagini, ma alla recensione di un volume di immagini (non in commercio) pubblicato dall'ANSA che raccoglie le più rappresentative fotografie giornalistiche del 2005. Per meglio articolare le nostre critiche alle considerazioni di Valentini abbiamo deciso di scrivere delle lettere, per spiegare il nostro punto di vista. L'articolo di Valentini lo trovate nella sezione testi e interviste di questo sito.
Le nostre lettere sono qui di seguito.
Lettera di Marco Capovilla.

Gentile Giovanni Valentini,
la sua rubrica “Il Sabato del Villaggio” su Repubblica del 17 dicembre è stata, come sempre, interessante e ricca di informazioni e spunti di riflessione relativi al mondo dei media e del caso italiano in particolare.

La mia curiosità di fotogiornalista, tuttavia, è stata stimolata dalla seconda parte del suo intervento, là dove si recensisce il volume-strenna dell’ANSA a tiratura limitata, che raccoglie le “600 fotografie sugli eventi principali del 2005” e ancor più là dove lei si spinge a fare alcune considerazioni più generali sull’importanza della fotografia nell’ambito dell’informazione giornalistica. Le anticipo subito che ho provato due sensazioni, nel leggere queste sue considerazioni: una che potrei definire di gradevole stupore e un’altra che brevemente descriverò come disappunto e delusione.

Se avrà la pazienza di seguire il mio scritto, cercherò di chiarire meglio entrambe queste mie sensazioni e di articolare le motivazioni razionali che stanno alla loro origine. Prima di tutto, però, le voglio esprimere gratitudine per avere, credo per la prima volta nel corso della lunga storia di questa sua pregevole rubrica su Repubblica, toccato il tema della fotografia nel giornalismo (non parlo delle immagini televisive, parlo proprio della fotografia, intesa come immagine fissa). Vede, nonostante essa occupi una fetta preponderante dello spazio fisico sulle pagine di quotidiani e periodici e, al di là dello spazio fisico, il suo ruolo nell’informazione giornalistica sia riconosciuto dagli studiosi, dai critici e dagli analisti di media di tutto il resto del mondo, i giornalisti italiani sembrano non averne piena coscienza, tant’è che non ne parlano mai, o quasi mai e, quando lo fanno, raramente dicono o scrivono cose degne di nota. Lei ne ha parlato, e già questo è un fatto positivo.

Tornando alle sensazioni provate davanti al suo pezzo, inizierò dal disagio che ho sentito nel leggere che questo volume (che posso soltanto immaginare, non essendo in commercio e non avendone una copia da consultare) a suo parere ha la sua “caratteristica più originale” nel non riportare le didascalie delle foto. Questa scelta, secondo lei “coraggiosa” da parte dei redattori del volume, si spiegherebbe con il fatto che “le foto (…) parlano da sole, senza spiegazioni o commenti”, grazie alla “forza e alla qualità delle immagini, tutte di grande impatto visivo”. Ritengo che questa affermazione, che sono certo lei vorrà rianalizzare a freddo con me al di là dell’articolo divulgativo dov’è apparsa, sia profondamente sbagliata, tanto più in quanto pronunciata da un giornalista di vasta esperienza quale lei è. Lei sa bene che una fotografia puo assumere numerosi (infiniti) significati, fino a quando essa non viene “ancorata” ad un senso ben preciso tramite un testo scritto di accompagnamento (titolo, didascalia o altro) non essendo, in senso proprio, quello delle fotografie un linguaggio, e in ogni caso non essendo dotato di un preciso codice interpretativo univoco, a differenza dei testi scritti. In ambito giornalistico, in special modo, il senso di una fotografia è talmente legato alla didascalia che tutti i maggiori depositari dell’eccellenza in campo giornalistico a livello mondiale, dall’Associated Press alla Columbia School of Journalism, dal quotidiano Le Monde al Poynter Institute (per citarne alla rinfusa qualcuno) hanno dedicato dettagliati stylebooks, libri de estilo, e lunghe liste di consigli pratici ai quali si devono attenere fotoreporter, photo editor, grafici e giornalisti in generale nel mettere in pagina le immagini, come pure nello sceglierle, nel trasmetterle, nel catalogarle, nell’archiviarle.

Le foto parlano tantissimo da sole, è vero, ma se non ne restringiamo noi volutamente il significato con dei testi accurati, specifici, contestualizzanti - temporalmente e spazialmente - rischiamo di far dire loro più cose, o altre cose, o proprio il contrario di quel che vogliono significare, in quel contesto, che è un contesto informativo, fino a prova contraria. L’utilizzo strumentale o mistificante di didascalie fuorvianti o false ha accompagnato la storia della fotografia “documentaria” da un secolo e mezzo a questa parte. Se poi vogliamo affermare che le immagini a volte si impongono per forza evocativa e per capacità di emozionare o di farci riflettere, questo può essere certamente vero ed è un grande merito delle migliori immagini giornalistiche, a patto che non si rinunci a collegarle in maniera chiara al referente a cui devono obbligatoriamente essere vincolate.

Ora che le ho spiegato il disappunto (perdoni il tono un po’ professorale, ma è quanto vado predicando da anni ai miei studenti del Master in giornalismo dello IULM, e non solo lì), mi permetta anche di illustrarle il piacevole stupore per alcune cose che ha scritto, di cui le parlavo nella prima parte della lettera. Lei auspica un’evoluzione dei quotidiani nel senso di “una ricerca, ed un uso della fotografia più mirati, più moderni e consapevoli”, proprio a partire da questo libro dell’ANSA. Su questo primo aspetto mi permetta dapprima di rivelarle i miei fondati dubbi che ciò possa avvenire in tempi rapidi, conoscendo da oltre vent’anni le redazioni dei giornali italiani, conoscendone fin troppo bene i giornalisti in redazione e conoscendo le magre destinazioni di risorse (economiche, progettuali, culturali e mentali) che le amministrazioni delle case editrici dedicano al reparto iconografico nel suo complesso. Non è sufficiente spendere di più (molto di più) per una nuova tipografia che spalma quadricromie su ogni pagina per conseguire questo auspicabile risultato: bisogna formare i giornalisti, i caporedattori centrali, i direttori, i grafici, i photo editor (che nei quotidiani italiani non ci sono proprio), gli archivisti. Bisogna mandarli per sei mesi a lavorare al New York Times, al Guardian, o anche, per spendere meno, al Detroit Free Press o alla Gazeta Wyborcza in Polonia. Bisogna riorganizzare il lavoro di redazione in funzione dei flussi di ideazione, commissione, produzione, impaginazione di immagini fotografiche, di reportage, bisogna investire in uno staff permanente di fotogiornalisti che lavorano in esclusiva per la testata (tanto per fare qualche esempio a caso: trenta fotografi al Washington Post, altrettanti al New York Times, ventitré al San Francisco Chronicle, pochi meno al Los Angeles Times, e così via, altrove. In confronto, qui in Italia: zero fotografi di staff al Corriere, zero a Repubblica, zero alla Stampa… non mi faccia continuare, ci siamo capiti). Sessanta pagine tutte a colori fanno lieti gli inserzionisti (e ricchi gli editori che aumentano la tariffa a modulo) ma non muovono di un millimetro la cultura fotografica né degli addetti ai lavori, né dei destinatari, il pubblico di compratori.

Nella sua successiva frase, in cui utilizza il tempo presente, quasi a riferire di una condizione oggettiva oramai affermata e incontrovertibile, descrive quotidiani in cui “dalla foto utilizzata come riempitivo nelle vecchie tipografie di una volta, siamo passati alla foto come notizia, documento, reportage.” Oltreoceano (perdoni i frequenti riferimenti agli USA, ma è lì che il fotogiornalismo ha raggiunto la sua forma più matura, nel corso degli ultimi cinquant’anni) questo verrebbe qualificato come “wishful thinking”, cioè interpretazione della realtà basata su come si vorrebbe che fosse piuttosto che su come essa è oggettivamente descrivibile in base alle verifiche sperimentali disponibili. Dottor Valentini, li guardi bene i giornali italiani, compreso quello sul quale pubblica i suoi pregevoli commenti: fanno un uso dell’immagine che non ha niente da spartire con i principali quotidiani del mondo civile. Non voglio farle l’elenco delle numerose, quotidiane cialtronerie che rendono imparagonabili i giornali italiani (con la buona compagnia di molti periodici) con quelli stranieri nel loro complesso. Colleghi stranieri con cui è certamente in contatto - che abbiano anche minime conoscenze di giornalismo visivo - glielo potranno facilmente confermare.

Voglio concludere dicendole che le sue parole mi hanno fatto in ogni caso piacere, a parte i distinguo che le ho illustrato, perché costituiscono una delle poche dichiarazioni da parte di un giornalista di penna italiano in cui venga esplicitamente riconosciuta l’importanza dell’informazione veicolata da immagini. Ne parli, se crede, con i suoi colleghi che occupano posizioni dalle quali è possibile decidere di fare giornali diversi dal punto di vista dell’impostazione visiva: vedrà che, al di là di dichiarazioni di generico assenso, pochi sono veramente disponibili a fare i passi minimi necessari affinché possa cambiare lo status quo. E, se crede, ne parli ancora nella sua rubrica: il fotogiornalismo italiano ne ha un gran bisogno e ne trarrebbe sicuro giovamento.

Grazie per aver avuto la pazienza di leggere fin qui.
Cordiali saluti

Lettera di Marco Vacca.

Gentile Giovanni Valentini

Mi fanno piacere le sue parole su “ La Repubblica “ del sabato scorso: sentire da un qualificato addetto ai lavori che la fotografia può far recuperare ai quotidiani quella credibilità che sta perdendo in favore della televisione e di internet è qualcosa di inconsueto nel mondo italiano dell’editoria. Mi fa molto meno piacere la sua affermazione riguardo il libro edito dall’Ansa del quale sottolinea il coraggio di pubblicare le immagini senza le opportune didascalie, rafforzando la sua idea che le immagini siano autosufficienti.

Io invece ritengo che un prodotto giornalistico come immagino siano le fotografie in questione non possano essere esentate dalla regola aurea delle 5 w : e questo non perché non ritenga le immagini incapaci di parlar da sole: ma perché i lettori hanno il diritto di sapere il dove, il come, il quando, il cosa, il perché; e, non ultimo, che l’autore della fotografia non rimanga un figlio di nn. Purtroppo nella vita quotidiana della messa in pagina tutto questo non accade ed il giornale nel quale lei lavora è da noi fotoreporter considerato il campione della sciatteria.
Potrei citarle innumerevoli scivoloni sia sulla carta che nella versione internet, ma al riguardo la rimando a https://www.fotoinfo.net/osservatorio/detail.php?ID=618 Il fondatore del suo giornale d’altronde passò alla storia per una affermazione che vedeva la fotografia come “ esornativa “, e così è rimasta: tappabuchi, ornamento, solo perché non si può consegnare ai lettori un giornale triste e grigio: la ricchezza, la bellezza, la potenzialità dell’immagine finisce invece down the drain, direbbero gli americani.

Lei lo sa che nessun giornale in Italia si è mai preoccupato di avere un proprio fotoreporter sui maggiori eventi da 10 anni a questa parte (diciamo dalla guerra in Kosovo all’invasione in Iraq), invece giornali molto più poveri, che so, danesi, sloveni o finanche polacchi spediscono i loro fotografi nei quattro angoli del mondo ? e che i migliori di noi lavorano spesso per testate straniere sugli stessi argomenti ? lei lo sa quanti di noi ricevono riconoscimenti internazionali ogni anno e quanti fotoreporter italiani sono associati in Magnum ? non le viene in mente la fuga di cervelli, il “nemo profeta in patria” , la sconsideratezza di un patrimonio di intelligenze lasciate fuggire? lei lo sa che un paio di anni fa Newsweek e Time (dove evidentemente la fotografia viene considerata parte integrante della linea editoriale del giornale) stufi di ritrovarsi con immagini simili su argomenti internazionali decisero di mettere sotto contratto diversi fotografi, a garanzia dell’unicità delle proprie immagini e perché ritenevano quello un modo sano per farsi concorrenza e migliorare la qualità del proprio prodotto?

I giornali italiani sono brutti e poco interessanti, non raccontano più l’Italia, sono ideologici e nascono per far politica, che è cosa ben diversa dall’informazione. Forse è questo il motivo che ferma i dati di vendita di questi anni agli stessi del dopoguerra.
Personalmente ritengo che in Italia il fotogiornalismo, geneticamente non stia nella testa di chi i giornali li dirige e li produce. E’ una specie di corpo estraneo e le motivazioni sarebbero troppo lunghe da discutere in questa sede. Sta di fatto che nel suo giornale nessuno si chiede perché l’edizione del NYT che vi fregiate di pubblicare il mercoledì sia così ben fatta. Quante pagine di istruzioni vi hanno fatto imparare a memoria "quelli del NYT" e magari fatto firmare prima di concedervi quell' accordo? Provate ad usare la stessa disinvoltura che applicate quotidianamente sulle vostre pagine anche all'inserto del mercoledì: provate a dimenticare nomi, didascalie e crediti sotto le fotografie. Immaginiamo già le urla arrivare da Manhattan fino dentro la vostra redazione.

Tanto per raccontarne una, il mese scorso ho inaugurato una mostra a Roma, nei musei del Vittoriano: il tema era il Darfur. Repubblica Radio mi chiede una intervista, ma sono stato soltanto una brevissima parentesi per introdurre uno sproloquio del Sindaco Veltroni ed un comizio della Boniver.

P.S. : la prego non mi citi ad esempio le foto di Salgado e le edizioni domenicali del suo giornale: non stiamo parlando dei bigné al pranzo domenicale, ma dell’ordinario pasto quotidiano.
Immagino riceverà altri contributi sul tema e con diverse sfaccettature, da altri membri della mia associazione che verranno in seguito condensati e pubblicati nella sezione “Osservatorio” di www.fotoinfo.net
Grazie ancora per le sue parole e per la sua attenzione.
Nella speranza di ulteriori approfondimenti.
Cordialmente

  • didascalia: 1992 - Vinckovci - Croatia - protezioni di sabbia all'ingresso dell'Ospedale
  • firma: Fabiano Avancini

Lettera di Fabiano Avancini.

Gentile Dr. Valentini,
mi accodo alle osservazioni sollevate dai miei colleghi fotogiornalisti alla sua rubrica "il Sabato del Villagio", dove presenta la strenna natalizia di Ansa. Non ci conti tra i suoi più accaniti lettori perché, purtroppo, da fotogiornalisti, consideriamo il sabato un giorno come altri: il tempo assume diversi connotati per noi. Quindi non abbiamno oggettivamente il tempo di poter considerare le letture per il tempo libero. Come credo del resto molti nel nostro paese, con questo clima da Italia - Argentina. Non calcistico, intendo, purtroppo, un parallelo storico economico che non ho dubbi sia venuto in mente a molti in questo periodo natalizio-bancario.

Lei obiettivamente conosce il suo lavoro e, per parlar di libri, pubblica, nell'articolo citato, l'ennesima foto di Berlusconi.
Tanto che pare uno specchietto per allodole. Con didascalia da museo delle cere, con l'unica differenza che quelle riportano epitaffi completi.
Cortesemente: si chieda cosa c'entrano la faccia e il nome di un politico. Per certi versi credo possa esser considerato autismo giornalistico.Lo sappiamo che esiste Berlusconi, ce ne siamo accorti, e credo sia anche ora di stendere un velo di pietosa censura su questa pessima abitudine,tutta italiana, di continuare a dare spazio sui giornali a "testine" (che non sono ritratti, beninteso) di politici. Di destra o sinistra che siano.

Riguardo al libro/catalogo di vendita di Ansa, ci stiamo ancora chiedendo (non sono l'unico, credo) con quali foto sia stato fatto. Ha scatenato in noi la morbosa curiosità di sapere quali sono stati i fotografi italiani che per Ansa hanno coperto metà globo quest'anno. E anche di vedere quali foto possono rimanere senza didascalia, nel suo confronto mnemonico con l'immaginario imposto dalla televisione. O se sia, come credo giusto temere, l'ennesima rivendita di immagini di fotoreporter e agenzie straniere. Marketing televisivo anglosassone?

Riguardo le didascalie: è da anni che le chiediamo con DATA-LUOGO-EVENTO-TESTIMONE. Non è molto ma rende un minimo di forza documentaria al fotogiornalismo. Come gli epitaffi potrebbero rendere giustizia alle foto tessera dei politici che pubblicate.

Possibile che alle soglie del 2006 non si trovi nessuno all'altezza di produrre un contenitore con gabbie grafiche decenti ed una "predisposizione" all'uso della fotografia? Vorrei inoltre ricordarle che, se una foto può dire mille parole, con l'aggiunta di una riga di didascalia possiamo solo che moltiplicarne l'effetto.
E alla fine una preghiera: smettetela di guardare fuori dalla finestra e di fare giornalismo giocando al "come sono bravi, come sono belli gli altri", mi riferisco al vostro inserto del New York Times, e compratevi uno staff di fotografi che si rispetti; costa poco.Come fanno appunto i giornali stranieri, confidando nella pluralità dell'informazione e considerando la fotografia ancora giornalismo.

Grazie dell'attenzione e buona giornata.

Fabiano Avancini

P.s. Le allego una mia foto, la cui la scarna didascalia può essere: 1992 - Vinckovci - Croatia - protezioni di sabbia all'ingresso dell'Ospedale. Sapere che quella era l'entrata di un luogo di cura, regala una lettura diversa dei fori di proiettile e di tutta l'immagine, credo. La didascalia aggiunge le parole, non le toglie.