Rino Pucci. Giornalismo per immagini: informare o illustrare?

Rino Pucci, 34 anni, giornalista professionista, lavora dal 2000 alla redazione grafica del «Corriere della Sera». Con la supervisione dell’art director Gianluigi Colin e del vicario Bruno Delfino, si occupa di progettazione e disegno delle pagine, di cura dell’infografia e, in particolare, di ricerca e selezione delle fotografie. In precedenza ha lavorato come giornalista grafico al «Giornale» e come art director e socio amministratore per una società di consulenza editoriale. All’esame di Stato per giornalisti professionisti, nel 2002, ha presentato e discusso una breve tesi di teoria e tecnica giornalistica dal titolo Giornalismo per immagini: informare o illustrare? Spunti di riflessione su fotografia e informazione nella pratica dei quotidiani italiani, che viene qui riprodotta con lievi modifiche e aggiornamenti:

"Durante il praticantato ho avuto la possibilità di occuparmi con altri colleghi della redazione grafica – per cinque mesi al «Giornale», poi per più di un anno e mezzo al «Corriere della Sera» – della copertura fotografica, per tutti i settori, sia dell’usuale cronaca quotidiana che di una serie di grandi eventi (elezioni politiche 2001, G8 di Genova, 11 settembre 2001, guerra in Afghanistan, seconda Intifada, Mondiali di calcio 2002). Accenno per punti, nel breve spazio di questa tesina, ad alcune questioni che ho approfondito per esperienza diretta e con l’esame comparato degli altri grandi quotidiani nazionali. Segnalo ovviamente il «conflitto d’interessi» di giudicare, tra gli altri, il quotidiano per il quale attualmente lavoro: spero che si colga un sufficiente distacco e, per le critiche su fatti specifici, lo spirito costruttivo che le anima. INFORMARE O ILLUSTRARE? La foto è una notizia, può essere un commento. Ha la stessa dignità giornalistica di un testo scritto, del quale deve essere il contrappunto o il rafforzamento intelligente, non la ripetizione pedissequa. Deve fornire il contesto visivo di un accadimento, aiuta a creare nella pagina un tessuto narrativo. Deve rappresentare un fatto, non l’idea di un fatto (v. Emblema). Concetti persino banali, che però difficilmente passano nell’ambito di un quotidiano: la sua struttura mentale e organizzativa, la sua autopercezione ruotano ancora intorno alla parola scritta. Una bella foto vale più di mille parole, si dice. Il problema è che, per dare più spazio alle foto, occorre convincere chi scrive mille parole a contenersi in cinquecento. Non tutti hanno la sensibilità culturale di fare un passo indietro, e così troppo spesso la foto rischia di avere, nella frenesia talvolta isterica della fattura del quotidiano, una funzione meramente esornativa, quasi un tributo da pagare ai grafici per alleggerire una pagina. REDAZIONI E PHOTOEDITOR A differenza di molti quotidiani stranieri, nessun quotidiano italiano, né grande né piccolo, ha un photoeditor, cioè un giornalista (inquadrato nella gerarchia almeno come caporedattore) che, d’intesa con il direttore e con l’art director responsabile della grafica, stabilisce la linea visiva del giornale e ne garantisce l’attuazione quotidiana. La sua funzione – commissionare ai fotografi le immagini, ovvero organizzarne la ricerca, in sintonia con il progetto editoriale – è svolta in via suppletiva dalla redazione grafica, ovvero, in via residuale, da redattori delle singole redazioni «scriventi». (In alcuni quotidiani, peraltro, l’ufficio grafico non può dirsi a rigore una redazione, in quanto non costituito da giornalisti ma da poligrafici). Non sempre, a copertura di un fatto, i giornali quotidiani mandano, insieme all’inviato «scrivente», anche l’inviato fotografo. Si ragiona troppo spesso per compartimenti stagni, non prende piede un modello di redazione multimediale in senso stretto, nella quale lavorano – sullo stesso evento o sulla stessa sezione – redattori di testo, grafici, infografici, photoeditor: giornalisti di pari dignità che valutano collegialmente se quella notizia è data meglio privilegiando il testo, l’impianto grafico, le foto oppure la rappresentazione infografica. FOTO COME EMBLEMA Il nome scelto per una (pur buona) agenzia fotogiornalistica milanese (Emblema, appunto) dà il senso della tendenza a produrre e a mettere in pagina delle foto che diano l’idea di un fatto, lo rappresentino emblematicamente, come un’illustrazione, ma senza avere i requisiti per dirsi giornalistiche, e cioè (mutuando una definizione dell’Associated Press, e precisando che va limitata ai quotidiani): essere informative, riferite a un evento contingente, realizzate con tecniche note e corredate di una didascalia. Passata la stagione dei film – la storia della prostituta redenta illustrata con foto di scena di «Pretty Woman»... –, è il tempo delle foto che «danno il senso» ma che non «dicono», vale a dire le foto simboliche, cercate in tutta fretta, che soddisfino rapidamente richieste del tipo «mi serve una foto orizzontale di extracomunitari in fabbrica». Ora, se è vero che alcuni temi sono indubbiamente poco illustrabili, è altrettanto vero che, invece di ricorrere a foto di maniera, si può mettere una foto al pezzo di ripresa invece che all’apertura, si può prevedere una fotonotizia eccetera. Il problema si pone in maniera drammatica per l’economia. Titoli come la parità euro-dollaro, un’Opa su una grande industria, uno scambio di accuse sullo scudo fiscale: a quali foto possono accompagnarsi? E così vanno in pagina facciate di banche o ministeri o sedi di grandi gruppi, oppure persone, sempre gli stessi ministri o commissari europei o governatori di banche centrali, possibilmente freschi, se non di giornata... AGENZIA O FREE LANCE? Le grandi agenzie «generaliste» (Afp, Ansa, Ap, Reuters) e alcune altre agenzie «tematiche» (Magnum, Contrasto, Olympia Publifoto, Grazia Neri, Corbis eccetera) dominano ormai il mercato editoriale: se da un lato ciò significa globalizzazione (con il rischio, che spesso si fa realtà, di usare tutti gli stessi scatti), dall’altro garantisce copertura dei principali eventi, standard alti di qualità tecnica e giornalistica, assenza di manipolazione dei file, digitali. L’alternativa è rappresentata dai free lance, che – per singoli eventi o per grandi temi – assicurano di norma servizi più approfonditi, con un taglio meno convenzionale. Sia un bene o un male, è altro discorso: ma, se archiviate durante i venti giorni di permanenza nel sistema editoriale WireCenter e, soprattutto, se ben classificate, le foto delle grandi agenzie «generaliste» – acquistate normalmente con un contratto d’abbonamento a forfait, – possono coprire al 95% le necessità di un quotidiano. COSA ARCHIVIARE? Le agenzie collegate ai sistemi editoriali di un grande quotidiano mettono in circuito, ogni giorno, dalle 2.000 alle 2.500 foto, e cioè, in media, circa 800.000 in un anno: una quantità impressionante di file, in formato jpeg che pone rilevantissimi problemi di selezione, di gestione e di archiviazione. A ciò si aggiunga l’archivio cartaceo: quello del «Corriere», il più grande, raccoglie 20 milioni di ritagli, 200mila buste su eventi o personaggi. Eppure, la responsabilità dei centri di documentazione dei quotidiani italiani non è affidata a giornalisti. Un esempio chiarisce le implicazioni di quest’affermazione. Nei venti giorni successivi all’11 settembre 2001, nel sistema editoriale dei quotidiani italiani sono «entrate», spedite dalle agenzie di tutto il mondo, circa 10.000 foto dell’attentato alle Torri gemelle di New York: un patrimonio iconografico di eccezionale rilevanza. Ne sono state pubblicate, in quello stesso periodo, circa 500. Dal 1° ottobre, per limiti fisici di capienza, il sistema editoriale ha cancellato automaticamente, giorno dopo giorno, le foto presenti da più di venti giorni. A fine ottobre nel sistema non vi era più traccia di alcuna foto dell’11 settembre; restavano, in archivio elettronico, le 500 pubblicate, e qualcuna delle restanti 9.500: qualcuna, scelta più o meno casualmente da pur bravi archivisti non giornalisti. DIDASCALIE Una didascalia completa – cioè le informazioni non direttamente deducibili dall’immagine, ma che la riguardano: due o tre periodi nei quali si dice chi, cosa, dove, quando e perché – vale già come mezza fotografia. Reuters e Ap forniscono didascalie dettagliatissime, al limite della pedanteria. È difficilissimo per un quotidiano – che, giova ricordarlo, prima ancora di emozionare deve dare notizie – pubblicare una foto senza didascalia. Quelle rare volte in cui la foto parla da sola, può farlo a condizione di essere inserita in un contesto che la rende comprensibile. Non che in origine non avesse parole che la spiegassero, dunque: qualcuno, consapevolmente, dichiaratamente, ha come abbassato l’audio e tolto le parole che la spiegano. Una didascalia esaustiva, peraltro, è l’unico modo per scongiurare il pericolo del «fuori contesto» che è insito nella prassi, diffusissima nei quotidiani, di pubblicare uno scatto singolo estrapolato da un servizio ben più ampio, magari per illustrare – con un taglio, come dire?, emblematico – una notizia che con quel servizio fotografico non ha un legame diretto ed evidente. Pubblicare una foto di questo tipo senza una didascalia puntuale è come riportare, virgolettata, una citazione da un libro ma senza dire da quale. Eppure le didascalie che di solito compaiono sui quotidiani italiani troppo spesso sono di maniera, quasi mai contengono una data o un nome: non danno un’informazione in più, ma ripetono informazioni, estranee alla foto, già date in un sommario o in un occhiello. La colpa, va detto en passant, è, in buona misura, dell’ipertrofia dei grandi quotidiani italiani, che costringe spesso a dare le stesse notizie degli articoli in quegli elementi di paratesto – focus, virgolettati, cifre, infografia e, appunto, didascalie – che invece dovrebbero fornire elementi informativi ulteriori, di arricchimento. Altre volte, va pure detto, la colpa è del fotografo, soprattutto se free lance, che invia foto con didascalie approssimative, obiettivamente non integrabili neppure da un redattore dotato di sensibilità fotografica superiore alla media. È raro, peraltro, che le redazioni centrali facciano con i fotografi ciò che usualmente fanno con gli inviati, e cioè telefonare per avere dettagli o addirittura per concordare un titolo. Con la sola eccezione (peraltro non costante) del «Corriere», le foto non hanno il credito fotografo/agenzia: una sciatteria che dice tutto. Da segnalare, dopo l’11 settembre, le pagine a colori del «Corriere» con le foto impaginate a mo’ di album e accompagnate da didascalie d’autore, firmate da Beppe Severgnini: la foto come spunto per riflessioni di costume. Segnalo anche, per fatto personale, la didascalia apparsa il 19 dicembre 2001 sul «Corriere», a pag. 13, a corredo di una foto di Nick Ut: si leggeva «Libero. Una manifestazione del ’99 per la liberazione di Mumia (foto di Nick Ut/Ap: Ut scattò la celebre immagine della bimba vietnamita ustionata dal napalm)». Ciò che è usuale nei giornali stranieri e sporadico nei periodici italiani – dare qualche breve cenno all’opera complessiva del fotografo che firma un servizio – è avvenuto, per un singolo scatto, in un quotidiano italiano: un evento eccezionale, il colpo d’ala di un caposervizio degli Esteri innamorato della fotografia, un lusso che ogni tanto ci si deve concedere. I GRANDI EVENTI Esemplare è ciò che accade nella copertura di grande evento non prevedibile: per esempio, il terremoto in Molise dell’ottobre 2002, al quale per molti giorni i quotidiani nazionali hanno dedicato non meno di otto pagine monotematiche. In questi casi cambia per alcuni aspetti il metodo di lavoro, la creazione delle pagine si fa più collegiale, in maniera da dare all’intera sezione un ritmo omogeneo, il respiro di una sequenza. Su un fatto del genere, per giunta avvenuto in Italia, non esiste un problema di copertura fotografica – al terzo giorno in circuito v’erano 2.000 immagini – ma, semmai, di scelta. Tra le tantissime foto alle quali i giornali hanno dato collocazioni molto vistose, due più di altre meritano un cenno di riflessione. La prima, l’immagine del carabiniere sulle macerie della scuola che porta in salvo una bambina: un frame di un filmato della tv, arrivata prima dei fotografi, dunque una non-foto. La seconda, la foto-ricordo di una classe di bambini con le maestre, sormontata da titoli composti in corpo 80 che parlano della classe dei bambini morti: dunque una notizia data male, posto che soltanto nella didascalia, in corpo 10, si specifica che la foto raffigura la classe dei bambini che si sono salvati. Questo secondo esempio rende esplicita una considerazione: le foto ci sono, complessivamente consentono – con i tempi e nei limiti di un quotidiano, in cui si chiede: prima fare, poi pensare – di creare un percorso significativo, che però risponde più spesso a impulsi estetico-emozionali che a istanze informative. È una notizia dire che la donna che si dispera in una foto è la vicina di casa o, invece, è proprio la mamma di uno dei bambini morti; è una notizia precisare che quella certa foto ritrae uno qualsiasi dei salvataggi o, invece, proprio il salvataggio dell’ultimo bambino estratto vivo dalle macerie. Queste foto in pagina c’erano, quelle informazioni no; l’istanza informativa è soddisfatta, ma solo in apparenza: così la foto – scattata da fotogiornalisti abili a intrufolarsi, anche bravi a scattare ma incapaci di fare un corretto editing delle proprie immagini – dà il senso del salvataggio, ma non dice del salvataggio. EFFETTI SPECIALI Le sequenze, le foto accostate senza bianco, la foto passante da pagina a pagina, gli scontorni, i titoli sfondati nelle foto, la fusione di più foto sfumate l’una nelle altra: tutti usi «alti» della fotografia, da studiare, non da improvvisare. O sono previsti dal progetto come codice di scrittura tipico e riconoscibile (per esempio: il fototitolo di prima pagina del «manifesto», oppure lo scontornato che caratterizza molte copertine di sezione dello sport), o vanno usati con rigore e per eventi realmente importanti: pena l’assuefazione del lettore. MODELLI STRANIERI Un modello molto avanzato di informazione fotogiornalistica è, a livello europeo, il quotidiano francese «Libération». Su «Libé» i politici sono ripresi dietro le quinte, svelando i meccanismi della vita pubblica; i reportage dalle città sono freschi e originali, i servizi spesso esclusivi; anche l’assemblea degli azionisti di una grande società diventa un evento fotograficamente interessante. «Libération» spesso usa foto con la vignettatura del fotogramma a vista, a garantire l’integrità dello scatto: ciò implica un progetto grafico nel quale il testo e il paratesto si piegano alle esigenze delle foto, non il contrario. Le foto sono puntualmente firmate, le didascalie dettagliate e, soprattutto, non hanno vergogna a indicare la data dello scatto, anche se non è recentissima. Il formato piccolo gli consente di usare quasi sempre una sola foto per pagina. Non è infrequente che «Libé» esca con un numero interamente illustrato da un fotografo: un solo giornale, due percorsi paralleli di lettura. Un’operazione simile, sia pure nel respiro corto di quattro pagine, è compiuta in Italia dal «Foglio», che illustra ogni edizione domenicale con gli scatti – impreziositi dalla stampa su carta patinata – di un fotografo italiano o straniero, del quale appare una scheda biografica".