Sulla dimensione estetica nel fotogiornalismo

  • didascalia: Loyalist Militiaman at the Moment of Death, Cerro Muriano, September 5, 1936
  • firma: Roberto Capa / Magnum
  • fonte: en.wikipedia.org/wiki/
  • titolo articolo: Morte di un miliziano
  • nota: Low resolution, fair use image of a historic photograph by Robert Capa, 1936. From Amherst College Magazine

Torino è una città che negli ultimi anni si è riscoperta come parte di un polo culturale di grande portata, e visto il crescente interesse che ruota attorno all’arte e più in particolare alla fotografia, perché non ospitare la prima (di fatto non lo è) biennale della fotografia italiana? Prevista in un primo momento nel 2014, tra polemiche, difficoltà logistiche e amministrative, l’evento è slittato al 2015 (lo stato dell’opera lo si trova sul sito ad essa legato). Nel suo primo intervento, il curatore (Vittorio Sgarbi) non sembra nutrire grande interesse per l’attualità, tanto che scrive:

"Qualche giorno fa, arrivata la notizia della morte di Henri Cartier-Bresson, Domizia Carafoli de Il Giornale mi ha chiesto alcune osservazioni estetiche sull’opera del grande fotografo."

 

Poco passa perché si faccia notare, in giro per la rete, che Henri Cartier-Bresson è morto circa dieci anni fa... sarà stata una semplice svista, il ritorno improvvisato di un intervento datato, e viste le incertezze che investono questa manifestazione un refuso in parte comprensibile. Proprio per questo vorrei porre l’accento su una questione a me più cara, che riguarda da vicino il sincretismo tra arte e giornalismo così pericolosamente in voga. Dopo aver ricordato, mediante un comunicato, la sua quarantennale esperienza in materia e il contributo fornito al Paese per una “diversa consapevolezza della fotografia”, Sgarbi getta un ponte tra l’opera di Cartier-Bresson e Robert Capa per censire l’estetica del “momento decisivo”. Così si arriva al celebre “miliziano morente” che tanto ha reso noto chi un tempo si firmava Endre Ernő Friedmann, ed è qui che si inizia a comprendere la prospettiva da cui si guarda oggi la fotografia, e nello specifico anche il fotogiornalismo. «Si è molto discusso» scrive, se questa foto «fosse costruita, cercata. Conta poco. E in quella fotografia che ha dato la gloria a Robert Capa c’è tutta la poetica di Cartier-Bresson».

In un primo momento può sembrare semplicemente un’affermazione un po’ cinica (costruita o meno significa anche miliziano morto o vivo) sulla quale non avrei nulla da dire, se non ci fosse al fondo di quanto affermato un difetto di conoscenza immemore delle implicazioni sociali della fotografia, e in modo particolare per quel che concerne il reportage dove la veridicità dello scatto è davvero importante, forse la cosa più importante, perché se la fotografia ha aggiunto qualcosa al circuito dell’arte è proprio una nuova riflessione sul rapporto tra segno e realtà.

Costruita o meno conta poco? Ma come? È una fotografia non un disegno! Francesco Cocco restituì il premio “Internacional de Fotografía Humanitaria Luis Valtueña” per molto meno, e per molto meno Narciso Contreras è stato cacciato dall’Associated Press. Viene da sé che i miti non si toccano, ma fino a che punto può spingersi l’idolatria? Capa resterà sempre un grande reporter (vasta è la sua produzione), ma le ombre che calano su questa fotografia restano un fatto problematico.

Il punto è che Sgarbi parla da critico d’arte, da curatore, e pare ignorare che l’immagine a cui si riferisce abiti altri orizzonti. Vera o falsa non importa perché è una fotografia celebre… è questo che conta! Lo ripete:

 

"È il celebre Miliziano morente, scattato durante la guerra civile spagnola, il soldato colpito che cade, nel momento in cui arretra, perde le forze, ma non è ancora caduto. Il “momento decisivo”, appunto, né un attimo prima, quando era ancora vivo, né un attimo dopo, quando era già morto. Il momento in cui muore. Un perfetto tiro a segno, la cui forza emozionante è proprio questo passaggio intermedio tra la vita e la morte. Capa ha centrato il passaggio, come un cacciatore. La straordinaria popolarità di questa fotografia non ha niente a che vedere con la storia e forse neppure con la naturale repulsione per la guerra. Essa è un teorema estetico che indica lo specifico della fotografia rispetto alla pittura e rispetto al cinema."

 

Molto bene, e forse vale persino la pena morire non da ribelle, ma per l’istituzione di un “teorema estetico”… un miliziano quale martire dell’arte a venire? Invece credo esista una quotidianità offesa che i fotografi più lucidi non si sono esonerati dal riprendere, consapevoli che più del godimento estetico era la conoscenza dei fatti che andava promossa nell’anima dei loro pubblici. La verità a tutti i costi! Altro che la bellezza… e ciò non significa che debbano escludersi a vicenda.

 

Mentre l’ennesimo morto di fame piange la sua miseria, i critici da salotto discutono dei toni e dell’inquadratura, o misurano per lungo e per largo l’immagine nell’intento di stabilire un prezziario preciso – del resto si sono dati un prezzo anche loro e non riescono neppure ad immaginare che esista un’esistenza al di là del lucro –, perché nel mondo in cui sono professori nessuno ha il diritto di farsi vedere se non è “ben vestito”: mio miliziano muori pure ma fallo con stile! (non sorridiamo, poiché cascano in questo tranello non poche giurie di prestigiosi premi dedicati al fotogiornalismo).

Forse Sgarbi vede il soldato ben posizionato sulla diagonale del fotogramma e non un uomo che offre se stesso in sacrificio per una libertà che è sempre in ritardo. Forse vicino agli atelier ci si dimentica che le fotografie non sono quadri, e che soprattutto il reportage non è pittura… neppure arte! Lì c’è un reporter che per spingersi sempre un passo oltre prima o poi ci lascia le penne (a Capa capitò nel 1954); c’è il desiderio di far sapere cosa accade nel mondo perché qualcuno possa porre rimedio all’infamia di cui l’uomo è solito fregiarsi; e c’è un pubblico che mediante l’immagine si forma un’opinione: qui lo specifico della fotografia rispetto alla pittura se non al cinema. Perciò non c’è tanto l’arte quanto invece la politica, non soltanto lo stile ma anzitempo l’etica.

 

Sebbene esista una dimensione estetica anche nel fotogiornalismo, ed esista un’innegabile fascinazione per le forme che prescinde dall’orrenda realtà che testimoniano, continuare a parlare di reportage come se si stesse parlando semplicemente di estro è un’operazione assai imprudente. Cerchiamo di non dimenticare che o il reporter sposa la realtà o tradisce il suo mestiere, e se è vero che l’immagine non potrà mai essere obiettiva, che almeno sia onesta. È chiaro che una fotografia non è solamente ciò che mostra, e che anzi rettifica la realtà dei fatti mostrandocene un distillato, ma è su ciò che si forma l’opinione pubblica… l’arte avrà altri spazi per nutrire la propria vanità. Ahimé sono proprio questi sguardi ad aver sedotto i reporter più affamati con la promessa indebita di una morte in galleria, e ormai non si contano i reportage prodotti per questo circuito – e in ciò sottratti all’orizzonte pubblico entro cui dovrebbero circolare. 

Per quel che mi riguarda, il tempo m’ha convinto che se non c’è verità non c’è reportage, e siccome la verità è un prodotto poco commerciabile, certuni non osano discuterne. Quarant’anni d’esperienza per non riuscire a distinguere un dipinto da una fotografia? Mi dispiace, forse il mio rammarico è partigiano, ma mi duole sapere che il destino della fotografia italiana possa dipendere anche da queste persone.

 

Mirko Orlando