Dall'intellettuale al fotoreporter organico

Perché non ci sono foto simboliche degli attentati di Parigi ? questo è l’incipit di un articolo pubblicato il 4 dicembre scorso su Qcode magazine a firma Enrico Natoli al quale mi sembra il caso di rispondere.

A quanto pare Natoli è in buona compagnia perché la photo editor di Vogue Italia pare abbia detto la stessa cosa ! perché non ha mandato lei qualcuno a farle ? o si pretende da noi di essere sempre sull’attenti, preveggenti ed in attesa ? Anche del terremoto dell’Aquila non ci sono foto di tal fatta ! oppure di Haiti, o della guerra in Kosovo, e allora ? Ci son miriadi di immagini e di storie che raccontano quel che è successo. Questo è quel che conta, il resto sono semplificazioni, riduzioni. Ad iconizzare ci pensa casomai la storia, quando vuole semplificare, ridurre. Non andiamo in giro a raccontare il mondo alla ricerca della sintesi massima, rara avis, ma per narrare quello che accade, se ci sono fotogiornalisti ci sono testimoni. La foto di John Stanmeyer che ha vinto il WPP due anni orsono è un’icona ? chi lo sa, ma fa il suo dovere e racconta bene l’ immigrazione nell’era della comunicazione. quella di Tim Hetherington del 2008 ? a futura memoria magari verrà scelta come immagine della stanchezza e della inutilità di essere in Afghanistan ! so what ? Alquanto strano che in questo articolo non si citino le immagini dell’ 11 settembre ! anche quelle asservite al potere ? poco iconiche ? o non ci interessano ?

 

E’ ricorrente ed altamente offensivo questo tic di voler inchiodare la bara di una professione assumendo che non faccia il proprio dovere. E poi, quale dovrebbe essere ? secondo Natoli, fumettista ed un’altra mezza dozzina di cose, prendere parte, spendersi per una causa, cito alla lettera: “Così la fotografia perde una delle sue funzioni prevalenti: quella di creare o sostenere dei movimenti di opinione collettivimandando così a farsi benedire il criterio etico e primo del giornalismo: osservare, riportare, essere indipendenti. Questa affermazione a me sembra di una gravità non da poco: sostenere che il fotogiornalista debba schierarsi invece di raccontare è l’idea di una informazione al guinzaglio, da qualunque parte il guinzaglio sia in mano. Dopo l’orrore dell’intellettuale organico siamo alla riproposizione nello stesso ruolo del fotoreporter.

 

 

Tornando alle icone, le prime immagini di tal fatta che mi vengono in mente sono proprio quelle che definiscono il mondo in buoni e cattivi, senza mezzi termini. Capa in Normandia, Nic Ut in Viet Nam, Stuart Franklin a Tien An Men: nel frattempo però il mondo si è complicato, le nuance sono diventate spesso incontabili, i conflitti intricatissimi ed inaccessibili: Siria, Libia, Gaza.

Chi sono i buoni ??

 

A supporto della sua tesi ritorna alle immagini di Sarajevo assediata e afferma che erano adeguate, schierate e facevano il proprio dovere ( cosa ci sia di simbolico ed adeguato nelle immagini di Mario Boccia impiegate a sostegno della sua tesi, Dio solo lo sa.) e dimentica i lavori di, cito a caso, Ron Haviv, James Natchwey, Paul Lowe e dozzine di altri: Una concentrazione di fotoreporter mai vista,

al cospetto del primo conflitto in ambito europeo dopo la 2° guerra mondiale!

Ma questo non significa che fossero lì per amor di patria o per prender le parti dell’aggredito, erano li per raccontare, senza mezzi termini e senza paraocchi, come avrebbero poi fatto nei conflitti a venire (Sud Africa, Somalia, Rwanda, Kuwait, Kosovo, Medio oriente, Iraq ) Se poi fosse vero quel che lui afferma, come mai la Bosnia è nelle condizioni disastrose in cui è ? : e, a dirla tutta, all’epoca gli occhi erano puntati su Sarajevo mentre le vere porcherie accadevano altrove.

 

Dice poi Natoli che non erano invece adeguate le immagini della prima guerra del Golfo, perché, più o meno il giudizio è questo, gli eserciti sono cattivi, gli americani brutti, la Coca Cola satanica ed i fotografi embedded, quindi complici (anche qui gli risparmio di fare una ricerca sul lavoro dei fotoreporter sul tema, basta per questo qualche foto di Francesco Cito e poi di guardarsi Restrepo di Tim Hetherington e Sebastian Junger, Afghanistan 2010. (salto temporale, fotografo embedded)

Natoli afferma che mentre la fotografia nella guerra in Bosnia assolve al suo ruolo, “Nel caso della guerra del Golfo la situazione si ribalta”.

Ma come si fa a ribaltare una situazione che invece è accaduta prima ?

l’assedio di Sarajevo va dalla primavera del 92 al 95, mentre Desert Storm inizia i primi mesi del 91) si mettesse almeno d’accordo con lo scorrere del tempo, quanto ai fotografi erano più o meno gli stessi.

 

 

Mi viene in mente un esempio di foto molto problematica: quella realizzata da Paul Watson a Mogadiscio ( quella che ha, diciamo, “contribuito” al ritiro delle forze speciali americane dalla Somalia ( avete presente “Black Hawk Down” di Ridley Scott ?) come vogliamo catalogarla ? era adeguata o era soltanto quel che era successo nelle strade di Mogadiscio ? doveva farla ? doveva evitarla ? ha fatto un piacere all’amministrazione ? reso un servizio ai somali ? sono domande che al suo autore sono costate ( per quella immagine ha preso il Pulitzer ) anni di tormenti, psicoanalisi e soprattutto l’ostracismo della famiglia di William David Cleveland, questo il nome del soldato linciato dai somali e ripreso nell’immagine.

 

Niente di tutto ciò ha a che vedere con il ruolo di stampella, di fotografia militante, “per creare o sostenere movimenti di opinione”. o di “asservimento al potere”.

questi sono soltanto linguaggi stantii, offensivi, figli di un’epoca che grazie a Dio non ci appartiene più e che ad onor del vero nel fotogiornalismo non ha mai attecchito.

Per quanto mi riguarda, sono tre mesi che frequento confini riprendendo gli esodi di popolazioni provenienti dai diversi angoli del mondo e non mi sogno certo di contribuire a qualcosa di diverso che non sia una mia narrazione dell’evento, senza altra missione se non quella di raccontare quei volti e quell’esodo. Ho sempre fatto così in qualsiasi situazione mi sia trovato. Anche quando, molto più giovane di adesso, mi ritrovavo a raccontare storie che disdegnavo, alla fine ne uscivo sempre arricchito, privo di quei pregiudizi con i quali ero arrivato. A questo serve la fotografia, a conoscere e comunicare, a riflettere, per il resto esistono gli uffici stampa e le p.r.

 

Quanto al resto, lo posso rassicurare: quello del fotoreporter, nonostante la rivoluzione digitale, è ancora un mestiere elitario, ahimè, molto più di prima,

forse a causa dell’editoria, tutta, che non commissiona, non paga e non vuole vedere, ma delle cui responsabilità nell’articolo, non c’è traccia - I numeri poi non fanno necessariamente la democrazia: l’etica, i valori, la distanza con cui si guardano gli accadimenti invece ne sono un ottimo fondamento.

Si pretende un ruolo salvifico da un mestiere che deve soltanto raccontare, far vedere, riflettere, incantare, far piangere o ridere, quando invece tutti quelli che ci avevano promesso un mondo migliore hanno miseramente fallito. E se poi questo va a farsi benedire, cari colleghi, la colpa è anche un po’ nostra, ricordiamocene al nostro prossimo incarico !