Chi ha vinto e chi ha perso in Libano .

Cerchiamo velocemente di riassumere che cosa è successo e chi sono gli attori di questa vicenda: stringer, anche di lunga esperienza che inventano immagini, si portano appresso bambolotti di peluche, ritoccano le volute di un incendio nel bel mezzo di Beirut bombardata da Tsahal, didascalie arronzate (dal fotografo o dal desk della propria agenzia?) o palesemente contraddittorie, cadaveri (quelli si, veri) che appaiono in diverse foto con date e tempi e luoghi diversi, i capi delle agenzie che difendono a spada tratta il lavoro dei loro impiegati (i fotoreporter) ma che al tempo stesso balbettano giustificazioni sulle unità di tempo e di luogo di cui sopra o che, come Reuters, ammette di avere licenziato l’autore del ritocco delle nuvole di fumo e di aver eliminato dall’archivio 920 sue immagini. Foto che ritraggono altre foto di presumibili vittime del bombardamento che appaiono tra le rovine dei palazzi insieme a manichini di abiti da sposa e un copia del corano in fiamme.
Quel che mi salta alla mente è che di idiozie simili proprio non ne sentivamo bisogno: se un fotoreporter a cui viene assegnato il compito di coprire un evento del genere non certo parco di immagini, ricorre a trucchetti di bassa lega è o un cretino o un criminale; probabilmente tutte due le cose assieme: robe da fotografi di bottega per i quali vendere calzini al mercato o produrre delle immagini non fa alcuna differenza: il dubbio atroce che mi corre è che la logica del suq sia arrivata pure lì.
Chi fa una cosa del genere è un criminale perché uccide la credibilità di chi questo lavoro lo fa con la serietà e il bagaglio etico che necessita. E dà la stura ad articoli come quello scritto da Shmuel Trigano su Liberation (tradotto in italiano su Internazionale n. 659 - pp28/29).
Chi, in un contesto del genere, non riesce a raccontare quello che sta accadendo e si appoggia alle miserie morali di foto inventate, esaltate o seriali che siano, è meglio che cambi mestiere, o meglio ancora è bene che le agenzie internazionali si guardino attorno prima di assumere persone dall’etica dubbia.
Sarà che prima, per diventare fotoreporter, si facevano kilometri di gavetta, si usciva dalle scuole o dalle università con il bagaglio di morale e motivazione e distacco necessario che, bene o male, vaccinava da queste turpitudini o nemmeno te le lasciava immaginare; sarà che la difficoltà di accesso (vedi l’Iraq) e sicuramente costi inferiori portano tutte le agenzie ad assumere spesso stringer dall’oscuro passato e immagino, senza alcuna formazione che non quella frettolosamente acquisita sul campo): quale è la storia di tutti questi personaggi su cui pesa il carico di raccontarci l’Iraq, Gaza, il Libano? E’ il loro plusvalore quello di essere in grado di entrare in luoghi e quartieri a cui l’accesso a occidentali è negato? E chi ci garantisce l’obbiettività di quanto si produce in quei frangenti? Le scelte editoriali di molte wires mi fanno pensare che privilegino la quantità piuttosto che la qualità; bisogna arrivare a dire che la parzialità di certi fotografi Arabi è messa in discussione quando si tratta di vicende nelle quali sono immediatamente coinvolti? Dobbiamo cominciare a pensare come si fa nel calcio (sic) che non si manda l’arbitro ad arbitrare nella propria città? un grande reporter come Reza si è posto il problema della formazione professionale ed etica in Afghanistan e ha aperto una scuola di fotografia ed una agenzia che produce e racconta il paese con occhi autoctoni. Cosa fa Reuters prima di ingaggiare un fotografo libanese?
In tutto questo giace il corpo moribondo di chi questo mestiere lo fa seriamente e che, azzardo in questo caso, non è stato neanche in grado di avvertire del pericolo e di stigmatizzare quei comportamenti che minano la credibilità del lavoro di tutti: ho una certa esperienza di quelle situazioni e mi torna difficile pensare che quando si lavora fianco a fianco non ci si renda conto di quanto sta succedendo e di chi sta giocando sporco: e non denunciarlo è come metter merda nel ventilatore: in questo caso arriva addosso a tutti. Siamo nell’era della velocità: tutto è a disposizione di tutti: questa volta dobbiamo ringraziare la lente di ingrandimento (spesso anche quella grossolana) dei bloggers che si sono dedicati a smontare molte di quelle immagini finite poi sul banco d’accusa: ma questa non è una grande soddisfazione per la categoria tutta. Citando David D. Perlmutter su Editor and Publisher : “ la foto del fumo su Beirut, i missili che erano in realtà riflessi, l’F16 abbattuto che in realtà era un deposito di copertoni incendiati, il manichino con abito da sposa che viene dal nulla e il corano che brucia entreranno nel pantheon della vergogna del fotogiornalismo“. Il rischio è che il conflitto Hezbollah/Israele verrà ricordato solo per quelle immagini mentre tutto il serio lavoro degli altri reporter rischierà di essere dimenticato: proprio una brutta pagina.

Marco Vacca