Intervista a Tano D'Amico

Intervista a Tano D'Amico su l'Unità del 17 agosto 2001 Per gentile concessione della redazione cultura de l'Unità.

"Su Genova non ho visto immagini pensose", ci dice Tano D'Amico, che incontriamo in Val d'Orcia, vicino a una abbazia dell'anno Mille. La direzione di questa intervista - "chiacchierata" preferisce lui - è subito data dalla complessità del discorso su e delle immagini. Tano ha alle spalle più di trent'anni di attività, se vogliamo nomade, randagia , dove ha incontrato migliaia di storie e volti. Ma esordisce, quasi per chiarire immediatamente, con una battuta, un assunto della lezione di Roland Barthes.
Cosa è stato e cosa ha visto a Genova?
Io penso che esista sempre una differenza, due occhi non possono che avere un'impressione superficiale di quello che capita. Non bastano gli occhi, uno deve fermarsi e fare parlare tutto: dai volti feriti alle istanze delle centinaia di migliaia di persone che sono andate a Genova; cercarle sia nelle immagini che componevano i tanti corpi insieme, ma anche vedere, come se uno assistesse a uno spettacolo in teatro o al cinema - so che è cinico dirlo - quello che gli attori, se sono bravi, tentano e dicono, cioè far scorgere anche l'invisibile, i perché, i per come, i motivi. L'immagine di quei giorni è più che mai doppia. Oggi le videocamere, anche le più piccole, sembrano padrone assolute della rappresentazione mediatica rompendo qualsiasi possibilità di racconto.
Crede che tutto questo allontani dal reale, creando immagini che paiono addomesticate una sorta di wrestling estetico del conflitto sociale?
Io spenderei delle frasi per parlare di qualche cosa che è stato dimenticato. Perché sento e vedo quello che insegnano a scuola, e debbo dire che la sottocultura della fabbrica ha cambiato un po' i rapporti umani. Ha fatto un massiccio ingresso nella storia l'intercambiabilità degli esseri umani visti come "cose"; a sua volta il lavoro degli esseri umani è visto come "cosa", come prodotto intercambiabile. La sottocultura che domina, viene dalla fabbrica - ma dovremmo vedere anche da quali altri luoghi - ha reso un'immagine anch'essa "cosa"; come un mattone, che si assembla come uno vuole.
Si è rimossa dalla storia dell'umanità l'immagine, che non è una "cosa", vive, è un essere che ha una propria vita. Questo tipo di immagine, anche se per "comodità" delle intellighenzie dell'ultima parte del secolo scorso è stata rimossa, esiste. Quella delle videocamere un po' usate come le telecamere delle banche, che vengono messe sui bancomat, forniscono "immagini cose": possono andar bene per un verbale ma non fanno memoria. Sono incapaci di produrre memoria e pensiero, sono dei documenti, come i verbali. I verbali si aggiustano; io inviterei a riflettere sull'immagine che perdiamo sempre più: quella capace di produrre memoria, capace di avere una sua propria vita.
Le cose che dice mi pare siano una costante del suo "racconto", la messa in scena e la rappresentazione.Sente un particolare disagio per questa sovrapproduzione, questa serialità che tutto sommato è nuova, per il numero di videocamere che circolano?
Non è che le immagini sono troppe, non voglio "stoppare" le immagini. Sono un grande amante di queste e le ho scelte a mie compagne di vita. Quello che non va bene, e su questo dobbiamo puntare i piedi, è il farci portare a riflettere sui "documenti" che abbiamo visto e basta - come dire, non esiste tutto quello che non abbiamo visto. Anche se siamo stati capaci, i colleghi, i ragazzi, tutti quanti di far vedere scene raccapriccianti - cose che andavano viste - non sono le "visioni"di quei giorni.
In quei giorni ci sono state tantissime altre cose. Le grandi assenti dai media, sono state la bellezza, l'umanità, la cultura, le istanze delle persone e quelle immagini, non sono state in grado di raccontarle.
Questo non vuol dire che io odio quelle riproduzioni, ben vengano magari di più, però dobbiamo pensare, attrezzarci tutto l'anno e non soltanto ai summit mondiali, per cercare delle altre immagini che già esistono nell'animo e nelle domande che si sono fatti tutti quelli che sono venuti a Genova.
Lei non hai mai difeso la corporazione dei reporter, dei fotogiornalisti e né ha mai parlato, in tutti questi anni, a nome della categoria. Pensa che comunque ad una tendenza pericolosa, da parte dell'attuale quadro politico, nel limitare il diritto di cronaca?
Qualcuno anni fa scrisse che andiamo verso un tempo in cui sempre meno occhi vedono, e questi pochi debbono vedere per tutti. Mai epoca ha avuto poche immagini come la nostra, e si vedono sempre le stesse ed identiche, esiste un modo di vedere che va bene sia al Manifesto che a Berlusconi. La sovrabbondanza di foto e filmati di Genova, incapaci di raccontare il contesto, non ha fatto altro che fornire la giustificazione di episodi in cui il potere ha mostrato il suo volto omicida.
Il potere non si vergogna di quello che fa, quasi sempre lo fa perché tutto questo venga visto, per "educare".
Per questo anche le condanne a morte sono rappresentate e c'è una parte della popolazione che approva tutto questo. Le "maschere nere", quelle vere, che siedono in parlamento e in qualche giornale hanno difeso le forze dell'ordine per degli episodi indifendibili e anche a sinistra qualcuno ha minimizzato sull'oscenità delle sevizie fatte ai manifestanti, in particolare alle ragazze. Certo, io penso che la prossima volta avremo addirittura più difficoltà, anche per il rumore e lo scalpore che hanno fatto certe scene documentate.
Temo ci verrà impedito sempre più di fare cronaca, ma le immagini verranno, anche se ci impedissero nel modo più completo di farle nelle piazze, noi le faremo nelle case, nei sotterranei, negli angiporti, dappertutto.
Se noi abbiamo un modo diverso di vedere il mondo, quello trasparirà da ciò che saremo in grado di fare con i nostri strumenti.
Riusciamo a scorgere dell'umanità viva nei frantumi spenti che la bestialità del potere poliziesco ha prodotto a Genova?
Io penso che la bestialità abbia, oltre che ucciso, tentato di cancellare dai nostri occhi quei volti, quegli sguardi nuovi e bellissimi che c'erano e che torneranno ancora in piazza. Si voleva, umiliandoli, cancellare dal volto di questi ragazzi la bellezza. Abbiamo i racconti di Bolzaneto, Fiera, Diaz, questi piccoli e momentanei Garage Olimpo che hanno fatto inorridire anche le persone venute dall'estero che hanno visto la gioia dei soldati, degli armati che prendevano a calci con i loro stivali i volti delle ragazze di quindici anni - ed erano felici... volevano cancellare quel modo di guardare, che quando si afferma è incancellabile.
La violenza a Genova è quella maggiormente rappresentata a danno dei momenti collettivi felici, creativi. Vedremo qualche immagine della gioia e non solo della violenza?
Io ho visto che la ferocia, anche negli anni passati, si scatena quando c'è appunto una felicità dell'essere in piazza. Nel nostro paese, nei giorni di luglio, un popolo "completo" come non mai è sceso in strada, dai cattolici ai migranti, insieme. Questo determina che anfibi, manganelli, pistole si abbattano su questa moltitudine per spezzarla, perché incompatibile con il modo di vita attuale. Ci sono dei giovani che facevano teatro e sono stati incarcerati. Credo di averli incontrati , sono dei giovani capaci di mettere in piazza la loro grazia, la loro bellezza in quadri, spettacoli che durano pochi istanti e prendevano in giro l'uso che si fa delle donne veline/vallette. Siccome erano delle ragazze bellissime c'era di fronte a loro un muro di telecamere; ma non ho visto questo sui giornali, sulle televisioni pubbliche e private, quasi che il teatro incarcerato ha fornito delle altre immagini che non hanno corso. Erano ragazzi e ragazze più belli degli attori e dei modelli televisivi, forse capaci di incrinare qualche frame televisivo. La censura non è per ordine della CIA, ma è perché le televisioni hanno qualche difficoltà a mostrare immagini che si mangiano o dissimulano le lo loro stesse icone.
Sei riuscito a fissare dei ritratti e vedi delle analogie negli sguardi presenti e passati?
Ogni epoca ha i suoi volti, il suo modo di guardare, di guardarsi. Penso a immagini passate. Si fissano degli sguardi nelle persone che scendono in piazza: capaci di affrontare tutto, anche il dolore, quando hanno nei loro occhi un modo di vedere diverso da quello che domina. Ricordiamo il modo di guardare nelle foto della Comune, i ritratti che Nadar ha scattato; questo fotografo avventuroso non ha quasi fatto foto perché era impegnato ad essere parte della Comune, perché pensava di aver già fatto le immagini che doveva fare: i comunardi, il volto dei suoi amici.
C'è sempre un "vedere differente", come era diverso lo sguardo di Roma città aperta dallo quello della Spagna del '36. Se non pensiamo per un attimo al sangue, teniamo mente gli occhi delle "persone di luglio", il loro modo di guardare, così diverso per esempio da quello del '77, è un modo di guardare lontano.
In tutte le immagini, anche in quelle degli innamorati che stanno insieme, si percepisce che non erano assorti solo dai loro attimi di vita ma sentono che su di loro incombe qualcosa e tentano di guardarlo... come se mettessero a fuoco su un punto. Un punto, che non dista molto dall'infinito.

Marco Guarella