Intervista a Fotografia & Informazione

Giuseppe Ceravolo, Alice Mattoni, Serena Tuozzi studenti del corso di Scienza della Comunicazione Università di Padova - gennaio 2002 Intervistano Marco Vacca (MV), Marco Capovilla (MC), Carlo Cerchioli (CC) Oltre a essere impegnati con le attività di “Fotografia e Informazione”, quali attività svolgete? MC - Parlo di me che sono il più spurio del gruppo. Ho iniziato a fare il fotogiornalista nel 1985, ho sempre lavorato per l’editoria e ho fatto dall’inchiesta al ritratto, al reportage geografico, al reportage sociale ecc. Ultimamente mi sono più spostato per miei interessi personali a progetti un po’ più a lunga portata. Faccio l’esempio dell’ultimo a cui sto lavorando, il progetto sulle carceri. Quindi, adesso parlo in generale, il fotogiornalismo può essere inteso sia come stare sulla cronaca e andare oggi a fotografare perché c’è un processo, perché c’è Borrelli che fa una dichiarazione importante, andare al fronte, fotografare una personalità, fotografare un personaggio dello spettacolo, la cronaca nera, la cronaca rosa ecc. Oppure anche lavorare su progetti più a lunga scadenza. Questi ultimi sono progetti dei quali il pubblico vede il risultato sotto forma di libro, mostra o articolo giornalistico magari dopo tre anni che il lavoro è stato fatto. Non necessariamente il fotogiornalismo è la documentazione di ciò che avviene oggi e che va in stampa questa sera. Scusi, allora questa è una possibile definizione di fotogiornalismo? Che in un certo senso raggruppa tutte le branche della fotografia? MC - In che senso?! Nella fotografia c’è anche chi fa la fotografia industriale, d’arte, di documenti, di beni artistici. In che senso? Il fotogiornalismo è una delle tante, chiamiamole, specializzazioni, ammesso che abbia senso, però ognuna con dei travasi, incroci tra una e l’altra… CC – Rispetto alla realtà itliana è abbastanza difficile dare una definizione secca di fotogiornalismo; nella definizione della professione si intersecano diversi aspetti: Ordine dei giornalisti, le leggi sulla stampa, le questioni fiscali, più il lavoro che materialmente uno fa. Forse è meglio tralasciare la questione Ordine dei giornalisti e leggi fiscali e guardare le immagini che compaiono sui giornali. Il nostro collega Amedeo Vergani da una definizione genericamente estensiva del fotogiornalismo e dice che anche chi fa la foto del lavoro all’uncinetto che compare su un giornale è un fotogiornalista, perché in fondo dà informazioni su come fare il lavoro all’uncinetto. Guarda cioè alla fotografia per i suoi contenuti informativi. MV - E’ un’accezione eccessivamente datata… MC - No, non è eccessivamente datata, è l’estremo. MV - Io queste foto preferisco chiamarle più di illustrazione. CC - Credo che sia in linea il testo del collega della AP, Stinellis (sul sito di fotoinfo). All’inizio del testo lui dà un’ottima definizione teorica del nostro lavoro in ordine strettamente giornalistico - informativo (testo Arti visive e Nuovi Linguaggi). Altra cosa è la realtà italiana fatta anche di leggi contraddittorie. MC - però se posso aggiungere una cosa a quello che dicevano Carlo Cerchioli e Marco Vacca, se voi pensate qual è il lavoro giornalistico è chiaro che una persona che sta dentro alla redazione di "Tutto uncinetto" e sta scrivendo un testo, si definisce comunque giornalista. Quindi non si vede perché la foto descrittiva, illustrativa che accompagna quel testo non debba essere giornalistica. Certo non è intesa come andare a prendere una notizia, è una cosa diversa. Del resto neanche Sebastiao Salgado che va in giro a fotografare dei bambini diseredati di mezzo mondo sta prendendo una notizia. Dov’è la notizia? E’ un reportage sociale di cose che spesso sono lontane dalla notizia. MV - Questa mattina l’art director del Sole24Ore lamentava il fatto che ieri sera non fosse riuscito a trovare fotografie che documentassero l’incontro del Presidente della Repubblica con i rappresentanti dei sindacati. Per lui era una notizia molto forte, molto importante e si lamentava del fatto che non ci fosse niente che la documentasse. E io gli facevo semplicemente notare che una foto non avrebbe in questo caso aggiunto ulteriore informazione alla notizia. Non avrebbe visto più che una stretta di mano, qualora ci fossero stati dei lanci dell’ANSA e dell’AP. Capisci bene come il concetto di informazione sui giornali spesso è relegato a questa miseria. Non aggiunge informazione questo uso della fotografia. MC - Non avrebbe aggiunto come non aggiunge la maggior parte delle foto che vediamo stampate. Perché non so se siete mai stati presenti a una stretta di mano in pubblico: è la cosa più lunga del mondo… MV - Questa cosa è abbastanza emblematica della concezione tutto sommato molto illustrativa che i giornali hanno dell’uso… CC - Però questo tipo di immagine è considerato un lavoro fotogiornalistico classico. MV - Sì. È considerato un lavoro fotogiornalistico classico. La ricerca di quella immagine che più si avvicina ad un concetto di realismo socialista che nei giornali impera. Insomma, un accoppiamento di significato e significante?! Non lo so, Saussure si rigirerebbe nella tomba. Però se c’è lo sciopero dei benzinai, i giornali, cioè il photo editor o chi per lui preposto al riempimento dei buchi, va a cercare la foto “chiuso per sciopero”. Io faccio il fotoreporter. Per la mia agenzia mi capita di dover coprire le news, gli eventi importanti perché comunque su certe cose bisogna essere presenti. Quando seguo le news cerco di raccontare qualcosa che possa diventare una storia e non una fotonotizia. Il lavoro che mi è capitato di fare a New York dopo l’11 settembre era ovviamente legato alle news, però piuttosto che cercare le foto da prima pagina per i giornali, cerchi di raccontare una storia, di stare sui contorni.in quel caso, di raccogliere gli umori di una cittadinanza sbalordita. Non puoi pensare di fare la guerra alle grosse agenzie perché su eventi di questo genere i giornali si attaccano alla AP, alla Reuters. La frenesia con cui viene costruito un giornale non permette tempo e poi c’è da dire onestamente che la copertura delle grandi agenzie fotografiche è assolutamente impeccabile. Sono professionisti, grandi fotografi che sanno esattamente che cosa serve al giornale. Spesso sanno esattamente che cosa serve in Gran Bretagna o in USA: quindi conoscono la mentalità e l’impianto del “New York Times” piuttosto che dell’Independent o del “Corriere della sera”. E quindi si muovono di conseguenza Lei per quale agenzia lavora? MV Io lavoro per un’agenzia che si chiama Emblema, è un’agenzia giovane bella e agguerrita, atipica rispetto al panorama generale perché è un’agenzia che progetta. Che cerca di emergere tra i due transatlantici italiani che sono Contrasto e Grazia Neri. Mi trovo abbastanza bene, sono libero di tenere in piedi i miei progetti… CC - Io faccio il fotoreporter a tempo pieno da una ventina d’anni. Ho seguito molto l’attualità negli anni ottanta, poi ho seguito altrettanto bene l’attualità economica e adesso ho lasciato un po’ queste cose dell’economia per ritornare un po’ all’attualità più generale. Però tutto è molto legato all’andamento del mercato perché ho scelto a un certo punto di seguire le cose dove più facilmente potevo guadagnare dei soldi con l’idea di fare altre cose a più ampio respiro (meno legate alla stretta attualità), ma poi alla fine non ci riesco quasi mai perché se si segue con una certa attenzione un settore alla fine ti assorbe tutto il tempo e non hai spazio per fare altro, e a guardare il panorama della stampa italiana ti passa anche la voglia. Lavoro come freelance, ho collaborato con varie testate e da sempre collaboro con l’agenzia Grazia Neri. Ho avuto un’esperienza sindacale per 4-5 anni, nel senso che sono stato eletto nel direttivo dell’Associazione lombarda dei giornalisti e per qualche anno ho partecipato al lavoro del sindacato; dal 2001 anche per questioni di tempo a disposizione il mio impegno è diminuito, seguo soltanto le vicende e cerco di intervenire sui temi della categoria fotogiornalisti. Sono giornalista pubblicista dal ’77. Ho detto che faccio questo lavoro da 20 anni, anche se il primo servizio che ho venduto era stato fatto del ’73, ma non facevo questo lavoro a tempo pieno. Tutto è stato abbastanza casuale, fortunoso… Cos’è “fotografia e informazione” e che ruolo svolge nel mondo del fotogiornalismo? CC - Fotografia & Informazione è un’associazione culturale. E’ nata alla fine del 1994. Mani Pulite è stato un periodo in cui con moltissimi colleghi ci si trovava tutti i giorni al Palazzo di Giustizia di Milano. Nelle lunghe attese si parlava dei nostri problemi: quelli per lavorare a Palazzo di Giustizia, i problemi della categoria, della professione. Alle prime assemblee eravamo una quarantina, tutti milanesi e abbiamo deciso di fondare questa associazione che non si occupa di sindacato, anche se forse il grosso dei nostri problemi potrebbero essere risolti attraverso un’azione sindacale. Sottolineo il forse perché siamo in un mondo – quello sindacale - estremamente complicato, sia dal punto di vista delle leggi che lo regolano, che delle persone che vi operano. Di conseguenza entrare nel sindacato e dall’oggi al domani ottenere dei risultati reali, utili alla categoria, è molto difficile. Quindi noi abbiamo scelto di fare un’associazione culturale perché, cosa fondamentale, riteniamo che tre quarti dei nostri problemi vengano dall’inesistenza di una cultura fotografica in Italia. C’è nei giornali qualche rara eccezione ma, in linea di massima, pochissimi dei nostri interlocutori sanno cos’è un’immagine d’informazione, come si legge, che significati può avere anche da un punto di vista giornalistico. Insomma, siamo alla tabula rasa o quasi. Questa constatazione nasce dal confronto con le situazioni estere con cui veniamo in cantatto. Quando ci capita di lavorare all’estero o con committenti esteri vediamo che comunque il nostro lavoro è tenuto in un’altra considerazione, totalmente diversa, a dei livelli molto più alti; da noi si è sempre o quasi considerati come l’ultima ruota del carro. Anche se in Italia ognuno ha i suoi rapporti personali e gode la stima di questo o di quell’altro giornalista con cui si è lavorato, con cui si lavora più spesso. Ma in linea di massima siamo considerati carne da cannone. Semplicemente delle persone che forniscono un prodotto. MV - Magari fossimo carne da cannone, vale molto di più il rapporto personale che non la valorizzazione e l’importanza del lavoro che tu fai. CC - Per me indicativo di questa poca cultura che c’è nelle redazioni rispetto alla fotografia giornalistica è il fatto che spessissimo in Italia si pubblicano le stesse foto dei giornali esteri. Anche se non è che non ci siano altre foto, atri materiali a disposizione. Recentemente in agenzia mi parlavano di un servizio, ancora prima della guerra in Afghanistan, di qualche problema di politica internazionale. Sono state fornite al giornale italiano 40 immagini e il giornale ne ha scelte 3. Esattamente le stesse 3 che aveva pubblicato “Newsweek”. É l’ennesima conferma dell’insicurezza, incertezza, mancanza di cultura, mancanza di parametri per valutare il tuo lavoro. Succede altrettanto spesso che i servizi rifiutati in Italia siano venduti all’estero. Una volta comparsi sulla testata straniera, e solo allora, sono richiesti anche in Italia. Anche all’estero la situazione non è eccelsa perché succede la stessa cosa con il festival del fotogiornalismo che c’è a Perpignan (Visa pour l’image). Giusto l’anno scorso il direttore diceva: “ Non si capisce perché tutte le foto che vengono messe in mostra qui abbiano già girato tutti i giornali e nessuno le abbia pubblicate. Da quando vanno in mostra, i giornali iniziano a richiederle e le vogliono pubblicare”. Anche se poi qui ci sono altre questioni; i temi dei reportage in mostra sono sempre molto particolari o violenti, o sono foto un po’ anomale rispetto alla maggioranza della produzione del fotogiornalismo. In ogni caso è sempre una questione di parametri di valutazione dei lavori; semmai all’estero si lamentano ma ad altri livelli, più alti dei nostri. Noi ci lamentiamo perché anche la foto di cronaca che è, dal nostro punto di vista, soltanto un poco più rappresentativa, che ha un qualche significato in più del semplice cadavere sulla strada, viene cassata dalle redazioni dei giornali. Cosa ne pensa del fatto che i giornali non riescano a differenziarsi attraverso il fotogiornalismo? MV - Non è che non riescono, non vogliono, non ne hanno la cultura, lo spessore. Faccio un esempio. I tre avvenimenti più grossi di questi ultimi mesi: Genova, 11/09, guerra in Afghanistan. La copertura fotografica di questi avvenimenti, due dei quali assolutamente prevedibili, non avevano nessun tipo di copertura, di assignment. Nessuno dei giornali italiani si è preoccupato di dire: questo è un evento importante, probabilmente succederanno delle cose. E anche se non fosse è pur sempre un evento che coinvolge immediatamente l’Italia. Stessa cosa per la guerra in Afghanistan. Non c’è stato nessun tipo di copertura nei giornali. Nessun giornale si è sentito in dovere di dire a fior di fotografi: “copritemi questa situazione” perché non era nella testa dei direttori MC - Scusa, anche perché c’è una discreta comodità ed economicità. Supponi di essere il direttore di un grande quotidiano, c’è da coprire un evento, hai l’abbonamento alla AP che ti costa tot milioni l’anno, ogni giorno arrivano 200 foto… MV - Così le foto sono tutte uguali. All’estero c’è ancora una specie di punta di orgoglio da questo punto di vista. Che io sia un giornale grande o piccolo, voglio la mia produzione, la mia copertura. Tanto per fare un esempio. Nel 2000 il World press photo award è stato assegnato a Claus Bjorn Larsen - danese - che lavorava per il Berlingske Tidende, che immagino non sia il Washigton Post o la Repubblica. I miei colleghi di Delo, quotidiano sloveno, e quelli di Mladina, settimanale, ambedue con un bacino di lettori sui 2 milioni di abitanti (tanti sono i cittadini sloveni) erano tutti in giro a coprire la guerra in Kosovo. Gli unici pellegrini senza assignment eravamo noi italiani. CC - All’estero il prodotto giornale è inteso nella sua totalità: i testi e le foto. Allora la differenziazione dal concorrente passa anche attraverso le fotografie. Passando attraverso le fotografie c’è la stessa attenzione per i giornalisti e per i fotografi. Cioè, nello stesso modo sono scelti i giornalisti e i fotografi. Questo fa sì che i prodotti siano sempre diversi tra loro, abbiano immagini diverse. C’è la possibilità per i fotografi con stili diversi di trovare lo spazio per raccontare in un certo modo la notizia. Perché nell’ambito della concorrenza la differenziazione per immagini è grande cosa, sia in Gran Bretagna che in Francia. Da noi i pochi rimasti sono nei quotidiani di provincia e coprono la cronaca che nessuno coprirebbe. La giustificazione data dalle persone che lavorano dentro le redazioni è che non si sente l’esigenza di un fotografo interno perché ci sono già le agenzie e i costi sarebbero troppo elevati… MV - In realtà se tu vedessi come viaggiano i corrispondenti dei vari giornali ti renderesti conto che ci sarebbero i soldi per coprire le spese. CC- E’ una questione di priorità. Se tu ritieni che avere un corrispondente scrivente di alta qualità, blasonato, sia importante rispetto ad avere delle immagini di qualità, tu mandi il corrispondente che scrive con tutte le facilitazioni, dicendogli spendi tutto quello che vuoi perché ci interessa il tuo pezzo e non quello dell’altro, non ci interessa la notizia di agenzia. Ci interessa quello che tu scrivi. Non succede lo stesso per chi fa le immagini. MV - E’ tutto qui, nella testa. CC - E’ questione di priorità. Io decido di dedicare delle risorse ai testi, mi interessa che siano personalizzati, voglio che il corrispondente del “Corriere” non sia il corrispondente della “Repubblica”. MV - Le fotografie sono sul giornale solo per rendere la lettura più semplice. In realtà torniamo al concetto precedente. E’ semplicemente la confezione che fa sì che ci sia una sobrietà grafica e che in questa ci si infilino delle fotografie. Non è certo per cultura fotografica. La maggior parte dei direttori dei giornali sono una manica di ignoranti da questo punto di vista. Dei grandi giornalisti, ma quanto a fotografia sono dei veri analfabeti. Il reportage e il fotogiornalismo sono destinati a morire? MV - Sì sono destinati a morire. E da un bel pezzo è morto sulle pagine dei nostri quotidiani, ha preso altre strade: della ricerca, del finanziamento, del libro, della mostra. Delle borse di studio. Rientra dalla finestra quello che è stato un po’ buttato fuori dalla porta. MC - In realtà, “D di Repubblica” li pubblica i reportage. Solo che sono impaginati tenendo presente che una fetta grossa del giornale, che viene venduto a 700 lire, evidentemente è pagata dalle pagine pubblicitarie, con tutte le limitazioni che questo comporta. Vi faccio un altro esempio. Tempo fa ho portato un reportage fatto di immagini molto orizzontali, difficili da impaginare, ad un mensile dove la direttrice mi ha detto: “belle, ma io posso pubblicare solo una doppia pagina”. Stavamo parlando del numero di novembre che è un numero solitamente molto pieno di pubblicità e quindi esisteva un vincolo oggettivo che costringeva ad alternare una pagina di contenuti redazionali e una di pubblicità. Quindi di doppie pagine ne poteva mettere una sola. Questa è una difficoltà. Ce n'è poi un'altra: quando si prendono contatti ufficiali con istituzioni, c'è quasi sempre la loro richiesta di rito: per quale testata lavora? E la risposta è necessariamente: “Sono un fotografo indipendente. Realizzo il servizio fotogiornalistico in maniera autonoma e poi lo vado a proporre alle redazioni. Deciderò al termine del lavoro a quale testata proporlo". In assenza di committenze da parte delle testate, i fotografi sono indipendenti perché non c’è altra alternativa. CC - Io spero che non muoia il fotogiornalismo. Io credo che chi riuscirà a fare fotogiornalismo saranno i colleghi che collaborano con le agenzie di stampa, tipo AP o Reuters o AFP. Che sono in questo momento le tre agenzie che stanno fornendo al mercato tutti i materiali di attualità. Adesso nelle agenzie fotografiche si sono create delle concentrazioni. Le agenzie sono grosso modo divise in tre mani a livello internazionale: Corbis di Bill Gates, Getty Images di Getty e la terza è Hachette, un editore francese. Corbis ha rastrellato tutto il rastrellabile sul mercato delle agenzie, comprando colossi e piccole agenzie molto dinamiche anche nate da pochissimo. Col tempo sta venendo fuori sempre di più che Corbis non ha nessun interesse a mantenere in funzione le redazioni giornalistiche, quelle che producono reportage d’attualità, e le sta smantellando. Così come sta licenziando i vari fotografi e li accetta soltanto come freelance. Corbis fondamentalmente vuole vendere le foto soltanto via Internet e quindi la sua unica preoccupazione in termini di costi è mettere le foto in archivio. Poi un cliente qualsiasi visita il sito di Corbis, sceglie le fotografie che gli interessano, si scarica le foto che vuole, paga con la carta di credito; il cliente fa tutto da solo e a Corbis non costa niente. E con questo sistema Corbis guadagna più soldi, almeno in teoria vende più foto e ha costi fissi minimi. Non è obbligata a mantenere le strutture delle redazioni di news, o a pagare i fotografi anche nei periodi di tempo in cui non hanno nulla da fare. Comunque questa grossa divaricazione che c’è , tra le queste concentrazioni (Corbis, Getti Images, Hachette) da una parte e 3 agenzie dall’altra (AP, AFP, Reuters), fa sì che oggettivamente chi fa questa professione o finirà a fare l’attualità stretta e fotogiornalismo di attualità, diciamo quello puro (tra virgolette perché abbiamo visto prima che una definizione precisa non si può dare) e se no gli altri potranno fare dei progetti a lungo termine che venderanno direttamente alle singole testate e poi si ritroveranno a dovere comunque dare il loro materiale a questi mega archivi per cercare di vendere ulteriormente il proprio lavoro. Quindi non è una morte ma una situazione con fortissime limitazioni. Io credo che le altre strade che sono venute fuori si allontanino un po’ dal giornalismo. Già moltissimi fotografi oggi per riuscire a fare un servizio, in Afghanistan piuttosto che in Africa o da qualsiasi altra parte, si appoggiano alle ONG per risparmiare sulle spese. Però di fatto quello che fai in queste condizioni è l’ufficio stampa della ONG e giornalisticamente ,da un punto di vista etico, questa cosa lascia un po’ perplessi. Però teniamo presente che tutta l’informazione scritta sull’Africa viene da un’agenzia che è dei Comboniani e credo che ci sia solo Reuters che ha un ufficio di corrispondenza mi pare in Sud Africa o in un altro stato nel sud dell’Africa. Quindi anche il discorso etico lascia un po’ il tempo che trova. Di fatto i servizi fatti al seguito di una organizzazione piuttosto che un'altra, sono condizionati da quello che volenti o nolenti è pur sempre un committente a cui bisogna rispondere. Possono essere anche organizzazioni dell’ONU: per esempio Franco Zecchin ha fatto un lavoro sugli zingari pagato dall’ONU anche perché è un lavoro molto grosso, c’è da viaggiare e lì i costi lievitano e allora se uno vuole fare certe cose deve appoggiarsi ad un' organizzazione perché non c’è nessun giornale che pagherebbe un progetto del genere. Il giornale già così compra il servizio ad una cifra ridicola rispetto ai costi di produzione reali. Con le cifre pagate dai giornali un fotoreporter, spesso, non riesce a pagare nemmeno il materiale. L’uso del digitale ha qualche colpa nella situazione che si è venuta a creare? CC - Io non colpevolizzo la tecnologia. La situazione di divaricazione tra le grosse agenzie (Corbis, Getty Images, Hachette) e le agenzie di stampa deriva fondamentalmente da questo. Perché tutto il fare arrivare la foto in redazione è diventata l’ennesima gara di velocità. C’era anche prima però, bene o male da un Paese dell’Africa si trattava di portare i rulli all’aeroporto, aspettare una hostess o un pilota che arrivasse fino a Parigi o a Roma e poi lì c’era uno dell’agenzia a ricevere i rulli, sviluppavano, stampavano, distribuivano; ed erano sempre un paio di giorni. Adesso con i telefoni satellitari, il computer, le macchine digitali… fai la foto, attacchi la spina, scarichi e mandi via la foto. La puoi mandare a chiunque, meglio se a una struttura centralizzata che si occupa della distribuzione. Perché dall’Afghanistan tutti hanno scritto e detto che ci mettevano le nottate a mandare le foto all’agenzia, puoi immaginarti quanto ci avrebbero messo a trasmetterla a ogni singola testata. Poi devi variare le caratteristiche tecniche delle immagini perché a una testata quotidiana la mandi con una definizione più bassa, a una testata periodica con una definizione più alta, didascalie diverse, ecc. Insomma è più facile mandare le foto alla tua agenzia. E così funziona per tutti. I costi tecnologici sono molto più alti di prima; occorrono investimenti sostanziosi a fronte di rientri altrettanto sostaziosi. Non è così facile far quadrare i bilanci. Il problema comunque è sempre lo stesso: le tre agenzie di stampa, in particolare AP, non hanno problemi di bilancio. Infatti la AP ha un sacco di soci che ripianano il bilancio ogni anno. Quindi loro continuano a studiare, sperimentare e sono sempre i più avanti di tutti. Infatti la storia della tecnica passa attraverso la AP, soprattutto per quanto riguarda la trasmissione e il digitale in cui loro sono stati i primi. La tecnologia indubbiamente ha cambiato il sistema di lavoro. Non è particolarmente negativo, è un’evoluzione che c’è stata. All’inizio del secolo si lavorava con le lastre, c’era qualcuno che aveva la macchinetta a ripetizione, oggi diremmo con il “motore”, nel senso che potevi cambiare la lastra senza fermarti e metterti nella sacca nera. Era più rapido e faceva 4 pose in più e di fatto poteva avere una documentazione migliore di quello che doveva cambiare la lastra con le mani dentro la sacca nera. E anche oggi la tempestività con cui tu arrivi ai giornali fa sì che il prodotto sia vincente, perché sull’Afghanistan magari c’è qualcuno che ha fatto le foto più belle di questo mondo, ma se è ancora lì e sta cercando il passaggio aereo per tornare indietro, quelle foto non avranno grande futuro. Si tratta di raggiungere il maggior numero di clienti possibili, perché tutti viaggiano sulla velocità. Noi avevamo letto un articolo, sul vostro, sito, che parlava della “rivoluzione del reportage”. Diceva che negli anni ’80 si era rivalutato, nei ’90 sembrava che stesse di nuovo scomparendo e adesso con 11/09 abbiamo visto numerosi reportage sui giornali. E’ un fenomeno momentaneo oppure una cosa che si sta riprendendo? CC - Quello che dicevo io era riferito al fatto che con la nascita dei magazine, ci sarebbe stato, si supponeva, si sperava, un incremento delle fotografie di reportage, di racconto per immagini. Poi in realtà il modo di assemblare i magazine ha dato spazio, per un certo periodo, ai reportage, ma poi la logica del profitto e della pubblicità (che è un problema serio, reale) ha fatto tornare tutto indietro. Sul fatto che adesso di 11/09 e di Afghanistan abbiamo visto tanti reportage, non vuol dire niente. E’ semplicemente perché su 11/09 c’era una marea di fotografi. New York è una delle piazze più grosse del fotogiornalismo, moltissimi fotoreporter fanno base a New York. Se pensate poi che Magnum ha fatto un libro un mese dopo, mentre normalmente prima di fare un libro ci mette due anni fra la decisione di farlo e la sua pubblicazione, si capisce che siamo di fronte ad un evento eccezionale. Un evento come l’attentato alle torri gemelle non si era mai visto. Lo choc anche degli americani è stato forte. Pensate che il “New York Times” va avanti ancora oggi a pubblicare i ritratti di tutti quelli che sono morti; ho ricevuto una e-mail di aggiornamento che dice che adesso hanno quasi finito e tutto rimarrà on line per sempre. Tutte le vittime dell’11/09. Questo dà anche la misura di quale è stata la situazione del tutto anomala e particolarissima: tutti i fotoreporter hanno lavorato e pubblicato. Andando anche a cercare tutte le storie di ogni singola vittima; in genere se cade un aereo di queste storie se ne cercano una o due e solitamente nei Paesi di origine delle vittime. Nessuno lo fa di tutti e 500, non esiste nessun evento paragonabile. MV - Sì, ma gli americani hanno un concetto ben diverso. In realtà sono 10 anni che l’Italia vive delle situazioni particolarissime. Siamo la linea del fronte di guerre iniziate nel 1990. Tutto questo non ha dato impulso, spazio al fotogiornalismo e ti dà l’idea del ritardo mentale delle redazioni dei giornali su questa cosa. Se c’è bisogno che crollino le Twin Towers per accorgersi che forse c’è bisogno di una maggiore consapevolezza sul fotogiornalismo, allora dieci anni di guerre balcaniche evidentemente non sono servite a niente in Italia. In realtà, tornando alla realtà più dura e crudele, il nostro “D di Repubblica” ieri è uscito con una foliazione di massimo 50 pagine. Ed era la settimana della moda. Normalmente in questo periodo quel giornale esce con almeno 400 pagine. Allora se tu leghi l’esistenza di un prodotto alla sola fonte pubblicitaria è chiaro che da questa dipendi e quando i tuoi inserzionisti, in periodi di crisi, intendono risparmiare sulla pubblicità, si contrae anche lo spazio per le storie. Non dico che questo meccanismo valga solo in Italia. Vale in tutto il mondo, però se ti leghi semplicemente a quell’introito, concepisci il prodotto soltanto come un mero contenitore di pubblicità e tutto il resto è surplus. Ecco qui cosa ne consegue. In realtà, a parte “Panorama” e “l’Espresso”, che sono due specie di astronavi che servono i rispettivi padroni, cos’altro hai davanti se non magazine venduti a due lire per veicolare informazione pubblicitaria? Il panorama è in generale questo e la fotografia risente di questo. Prima di questa settimanalizzazione dei quotidiani e prima che entrasse in modo così prepotente la pubblicità nei magazine in qualche modo dovevano essere tirati fuori i soldi e quindi dalle vendite. Però le vendite non mi sembra che in Italia siano mai state strepitose. Però era diverso il modo di fare fotografia. MV: No, non era diverso il modo di fare fotografia. Uliano Lucas che sta scrivendo una storia del fotogiornalismo italiano, dice che con il boom economico e la nascita della televisione c’è stato se non un azzeramento, un grosso ridimensionamento dell’impiego della foto nei giornali come mezzo per conoscere l’Italia, l’Italia che cambia. Poi c’è stato sicuramente un ritorno di fiamma negli anni ’70 legato alla concezione politica. Io non penso che sia una questione prettamente economica. Prima il giornale si faceva con la consapevolezza che la foto era uno strumento necessario e importante per fare conoscere visivamente le cose che cambiavano. Adesso la velocità con la quale la televisione entra nel vissuto della gente rende la fotografia (nella testa di chi dirige i media) purtroppo accessoria nel mondo della conoscenza e del giornalismo MC - Io vedo due meccanismi tutti e due ricevuti dalla mia esperienza personale. C’è un rapporto perverso tra pubblicità e contenuti editoriali. Una decina di anni fa avevo fatto una serie di reportage per “Airone” su alcuni villaggi sparsi in 8 nazioni europee, su come si viveva in questi villaggi perché in questi villaggi la qualità della vita era particolarmente elevata. Io li feci uno dietro l’altro e cominciarono a uscire. E avevano una media di 8 – 12 pagine. A un certo punto il villaggio della Finlandia venne portato a 16 pagine. Io pensai ingenuamente di essere veramente bravo. Niente di più falso. Molto crudamente mi riportò alla realtà uno dei responsabili del giornale dicendomi: “abbiamo avuto un aumento di pubblicità e dobbiamo aumentare il numero delle pagine della parte redazionale”. Quindi hanno stiracchiato il mio servizio, e quello che si poteva dire in 10 pagine è stato detto in 16. Altro esempio, da una testimonianza diretta della redattrice di una rivista di cucina: alcuni dei pezzi che erano stati scritti venivano sottoposti all’ufficio pubblicità prima della definitiva impaginazione. In questo modo l’ufficio pubblicità poteva mandarli in giro per vedere se questi stimolavano alcune pubblicità. Se il risultato era negativo, il servizio si cassava. Questo per dire quanto forte in un giornale che viene venduto a 700 lire sia la pubblicità. Non sto dicendo che “il Venerdì”, “D di Repubblica”, “Sette” ecc. facciano questa cosa perversa. Però è inevitabile che ci siano dei momenti in cui l’ufficio pubblicità, che in teoria dovrebbe essere staccato dalla redazione, pretende di suggerire, mettere lo zampino, proporre degli scambi non proprio limpidi. Quanto più avviene questo perverso meccanismo, tanto meno si può parlare di giornalismo indipendente. E bisogna chiedersi quanta della pubblicità sia un modo per pagare il giornale e quanta sia invece un mezzo per pilotare i contenuti del giornale. Durante una delle prime assemblee di fotografia e informazione, io alzai la mano e dissi: ” mai e poi mai l’associazione accetterà donazioni da aziende o sponsor perché questo limiterebbe la nostra libertà”. Però noi stessi stiamo ora analizzando la possibilità di ospitare sul sito un banner e il vincolo sarà che l’inserzionista non dovrà mai mettere lingua su quello che noi scriviamo. Però non tutti hanno queste idee, come dire, da puri. I giornali hanno amministratori che devono far quadrare il bilanci