Appunti su guerra giornali fotoreporter

Se fare informazione su un conflitto in corso è difficile di per sè, per i fotoreporter italiani sembra impresa quasi impossibile: la guerra amplifica quelli che sono i maggiori problemi del fotogiornalismo nostrano. Difficile riuscire ad andare sul posto Nessuna testata italiana, come tristemente noto, utilizza il fotografo-inviato. la Repubblica, ad esempio, ha addirittura due cronisti inviati ad ogni fronte (Bernardo Valli e Renato Caprile da Baghdad, Carlo Bonini e Giuseppe Davanzo da Bassora), ma di fotoreporter neanche l'ombra. In una recente intervista apparsa proprio su la Repubblica di Domenica 30 Marzo 2003, Arthur Ochs Sulzberger Jr, editore del New York Times, ha dichiarato che il suo giornale ha inviato a Baghdad un cronista (John Burns) e un fotoreporter (Tyler Hicks); nonostante i rischi per i fotogiornalisti siano maggiori che per i cronisti, nonostante la censura statunitense sulle immagini, nonostante i rischi per un fotoreporter della nazione nemica di quella che lo ospita crescano esponenzialmente ad ogni giorno di permanenza. Un esempio di ottima mentalità giornalistica che i quotidiani italiani ignorano e che farebbero bene ad imitare. Difficile scattare le foto I conflitti contemporanei sono condotti con missili, bombe, computer, pulsanti, aerei invisibili, quindi sono oggettivamente difficili da far vedere. Quello che si dovrebbe mostrare sono le conseguenze di un intervento armato, gli effetti di un bombardamento, lo stravolgimento di un paesaggio o di un tessuto sociale. Ci si riesce? Poco, qualcosa arriva, ma molto rimane dov'è, invisibile o reso tale. La solita doppia censura delle due parti in conflitto rende difficoltosa qualsiasi ripresa che non sia rigidamente controllata. Siamo in un periodo in cui autorizzazione significa controllo. I cosiddetti "embedded photographers" (coloro che sono al seguito delle truppe anglo-americane) hanno una posizione privilegiata ma facilmente controllabile, visto che la loro permanenza al fronte dipende dalla firma di un documento di due pagine e cinquanta articoli in cui è scritto che il sì alla pubblicazione è solo del comando operativo militare ( vedi il documento pubblicato da Fotografia&Informazione ). Certo, siamo fiduciosi nella professionalità dei fotogiornalisti e sappiamo che le nuove tecnologie digitali rendono più difficoltoso il controllo sulle immagini, ma ci resta comunque il sospetto che l'operato dei fotoreporter sia inevitabilmente e incosciamente influenzabile dalla convivenza con le forze armate. Coloro che invece stazionano sul fronte iracheno sono costretti a brevi visite di gruppo, organizzate e guidate da qualche funzionario del ministero dell'informazione che sceglie i luoghi più significativi dove cronisti, fotoreporter e operatori tv possono documentare solo in comitiva e solo lì. Andarsene in giro da soli, senza autorizzazione, sarebbe una grave leggerezza (come quella commessa da Molly Bingham, fotogiornalista free-lance arrestata e poi espulsa dall'Iraq perchè entrata con un semplice visto turistico: una pianificazione del lavoro ai limiti del dilettantesco e altamente criticabile). Difficile gestire l'utilizzo delle immagini Le poche fotografie che giungono alle redazioni subiscono ulteriori maltrattamenti: il malcostume più diffuso è quello dello stravolgimento della didascalia ( vedi l'osservatorio di Fotografia&Informazione in proposito ), inesattezze e modifiche sono all'ordine del giorno; segue a ruota la mancata indicazione dell'autore della foto, significativo in tal senso è il cattivo esempio de la Repubblica che dall'inizio del conflitto non ha mai inserito nemmeno la provenienza di un'immagine; ci sono poi le immagini utilizzate come illustrazioni o tappabuchi, e qui si sprecano tagli e squartamenti in totale mancanza di rispetto per il lettore e, ci si consenta, per il lavoro del fotoreporter; infine, novità, ecco spuntare l'utilizzo delle immagini come piccoli loghi: a corredo di una breve notizia o di un trafiletto, la foto, publicata in formato ridottissimo, diventa simile ad uno dei tanti "pulsanti" che vediamo sulle pagine web, finita lì per averne la stessa funzione di richiamo. Informare con le immagini sembra un'utopia, utile ad un sistema mediatico italiano che riesce così a poltrire su una comoda propaganda preconfezionata: contenti loro! Noi molto meno: come lettori e come operatori dell'informazione siamo costretti a ricostruire un mosaico fatto da tanti tasselli di informazione che dobbiamo con fatica andarci a cercare quotidianamente.
Leonardo Brogioni
Se fare informazione su un conflitto in corso è difficile di per sè, per i fotoreporter italiani sembra impresa quasi impossibile: la guerra amplifica quelli che sono i maggiori problemi del fotogiornalismo nostrano. Difficile riuscire ad andare sul posto Nessuna testata italiana, come tristemente noto, utilizza il fotografo-inviato. la Repubblica, ad esempio, ha addirittura due cronisti inviati ad ogni fronte (Bernardo Valli e Renato Caprile da Baghdad, Carlo Bonini e Giuseppe Davanzo da Bassora), ma di fotoreporter neanche l'ombra. In una recente intervista apparsa proprio su la Repubblica di Domenica 30 Marzo 2003, Arthur Ochs Sulzberger Jr, editore del New York Times, ha dichiarato che il suo giornale ha inviato a Baghdad un cronista (John Burns) e un fotoreporter (Tyler Hicks); nonostante i rischi per i fotogiornalisti siano maggiori che per i cronisti, nonostante la censura statunitense sulle immagini, nonostante i rischi per un fotoreporter della nazione nemica di quella che lo ospita crescano esponenzialmente ad ogni giorno di permanenza. Un esempio di ottima mentalità giornalistica che i quotidiani italiani ignorano e che farebbero bene ad imitare. Difficile scattare le foto I conflitti contemporanei sono condotti con missili, bombe, computer, pulsanti, aerei invisibili, quindi sono oggettivamente difficili da far vedere. Quello che si dovrebbe mostrare sono le conseguenze di un intervento armato, gli effetti di un bombardamento, lo stravolgimento di un paesaggio o di un tessuto sociale. Ci si riesce? Poco, qualcosa arriva, ma molto rimane dov'è, invisibile o reso tale. La solita doppia censura delle due parti in conflitto rende difficoltosa qualsiasi ripresa che non sia rigidamente controllata. Siamo in un periodo in cui autorizzazione significa controllo. I cosiddetti "embedded photographers" (coloro che sono al seguito delle truppe anglo-americane) hanno una posizione privilegiata ma facilmente controllabile, visto che la loro permanenza al fronte dipende dalla firma di un documento di due pagine e cinquanta articoli in cui è scritto che il sì alla pubblicazione è solo del comando operativo militare ( vedi il documento pubblicato da Fotografia&Informazione ). Certo, siamo fiduciosi nella professionalità dei fotogiornalisti e sappiamo che le nuove tecnologie digitali rendono più difficoltoso il controllo sulle immagini, ma ci resta comunque il sospetto che l'operato dei fotoreporter sia inevitabilmente e incosciamente influenzabile dalla convivenza con le forze armate. Coloro che invece stazionano sul fronte iracheno sono costretti a brevi visite di gruppo, organizzate e guidate da qualche funzionario del ministero dell'informazione che sceglie i luoghi più significativi dove cronisti, fotoreporter e operatori tv possono documentare solo in comitiva e solo lì. Andarsene in giro da soli, senza autorizzazione, sarebbe una grave leggerezza (come quella commessa da Molly Bingham, fotogiornalista free-lance arrestata e poi espulsa dall'Iraq perchè entrata con un semplice visto turistico: una pianificazione del lavoro ai limiti del dilettantesco e altamente criticabile). Difficile gestire l'utilizzo delle immagini Le poche fotografie che giungono alle redazioni subiscono ulteriori maltrattamenti: il malcostume più diffuso è quello dello stravolgimento della didascalia ( vedi l'osservatorio di Fotografia&Informazione in proposito ), inesattezze e modifiche sono all'ordine del giorno; segue a ruota la mancata indicazione dell'autore della foto, significativo in tal senso è il cattivo esempio de la Repubblica che dall'inizio del conflitto non ha mai inserito nemmeno la provenienza di un'immagine; ci sono poi le immagini utilizzate come illustrazioni o tappabuchi, e qui si sprecano tagli e squartamenti in totale mancanza di rispetto per il lettore e, ci si consenta, per il lavoro del fotoreporter; infine, novità, ecco spuntare l'utilizzo delle immagini come piccoli loghi: a corredo di una breve notizia o di un trafiletto, la foto, publicata in formato ridottissimo, diventa simile ad uno dei tanti "pulsanti" che vediamo sulle pagine web, finita lì per averne la stessa funzione di richiamo. Informare con le immagini sembra un'utopia, utile ad un sistema mediatico italiano che riesce così a poltrire su una comoda propaganda preconfezionata: contenti loro! Noi molto meno: come lettori e come operatori dell'informazione siamo costretti a ricostruire un mosaico fatto da tanti tasselli di informazione che dobbiamo con fatica andarci a cercare quotidianamente.
Leonardo Brogioni

Nel nostro paese non esiste una teoria o regola generale compiutamente espressa e articolata sulla fotografia giornalistica. Il manuale del giornalista ne parla incidentalmente, descrivendo l’uso delle fotografie nel giornale televisivo ma senza dare qualche elementare regola di base così come ci si potrebbe aspettare (4). Altri hanno parlato dei fotogiornalisti, del loro operare, piuttosto che della struttura del racconto per immagini ma senza analizzare o indicare i compiti che nelle redazioni dovrebbero essere assolti per mantere il valore informativo delle fotografie (5). Tutti comunque consci che la stampa italiana “crede poco nell’uso della fotografia e vi fa ricorso quasi solo per la documentazione immediata e per il repertorio” (6).

Per condurre la nostra analisi, in alcuni casi, siamo quindi ricorsi al confronto con testate straniere, andando oltre le incidentali similitudini incontrate, per far meglio risaltare i pressappochismi nostrani. Si parlerà di Le Monde e di El Pais. Non stupisca, Le Monde pubblica fotografie dal 1974 ed è il più attento fra i maggiori quotidiani esteri alle problematiche del fotogiornalismo (7). Il quotidiano spagnolo è invece importante per noi perché si è dotato di un preciso manuale che detta le regole ai redattori per la stesura degli articoli e titoli, per la messa in pagina dei grafici e delle fotografie ed è allo stesso tempo una guida per il comune lettore del giornale. Il Libro de estilo è stato pubblicato su sollecitazione degli stessi lettori del quotidiano nella convinzione che “la difesa della libertà di espressione passa per l’instaurazione di meccanismi di trasparenza nell’esercizio della professione giornalistica, perché non vada perduto l’unico patrimonio della nostra professione: la credibilità” (8).

Dopo due settimane dall’inizio dei bombardamenti il settimanale Panorama pubblica cinque fotografie di un massacro. Cadaveri allineati e parzialmente coperti da lenzuola bianche; i volti tumefatti, mascherati con una striscia grigia sugli occhi. Nonostante vengano presentate come documento a tutti gli effetti, non c’è una didascalia che espliciti il luogo e la data dove sono state riprese le immagini; in un sommarietto si precisa che le fotografie “sono arrivate in redazione il 6 aprile. Le ha portate un’agenzia fotografica per conto di un uomo che è riuscito a documentare il genocidio in Kosovo voluto da Slobodan Milosevic”. Nel pezzo di “news analysis”, Enzo Bettiza affermando che sono state scattate 48 ore prima dell’inizio dei bombardamenti, le porta a sostegno della tesi di “uno sterminio etnico progettato ben prima che i bombardieri Nato entrassero in azione” (9).

La sera prima dell’uscita di Panorama nelle edicole, nel sito Internet de L’Espresso compare un breve pezzo sotto il titolo “Sviste giornalistiche” in cui si smentisce lo scoop del settimanale concorrente. “Si tratta invece di un servizio fotografico pubblicato per la prima volta da Koha Ditore, un giornale di lingua albanese, ai primi di marzo del 1998. Le stesse immagini circolarono immediatamente su Internet. L'Espresso ne pubblicò alcune nel numero del 19 marzo 1998. Altre foto scattate nella stessa occasione e nello stesso luogo (Serbica) furono distribuite anche dalle grandi agenzie fotografiche internazionali. Si trattò di una delle più gravi stragi avvenute nel Kosovo: vennero trovati 52 cadaveri di albanesi. Tra cui 11 donne e 11 bambini. Un servizio analogo a quello di Panorama [sempre con le didascalie sbagliate n.d.a.] è stato offerto in Italia in questi giorni anche ad altri organi di stampa, come un inedito risalente al gennaio del 1999”(10).

Nella stessa serata Roberto Briglia, direttore di Panorama, ammette di aver dato credito ad una agenzia fotografica e a una serie di garanzie ma crede che “conti di più l’orrore che l’errore”; ne darà conto ai suoi lettori con un breve editoriale sul numero successivo del suo settimanale sottolineando però che “le foto sono autentiche, le vittime sono kosovare e i carnefici serbi”(11).

Il servizio da cui sono state estratte le fotografie pubblicate da Panorama era composto da 58 scatti; è stato offerto a L’Espresso, che non l’ha acquistato perché aveva già in archivio altre fotografie dello stesso massacro (12), e alle redazioni di Liberal e del Venerdì di Repubblica. Soltanto Liberal ne pubblicherà alcune, con le didascalie corrette, in un supplemento al giornale dove vengono ripercorsi gli ultimi dieci anni di storia dei Balcani (13). Il servizio fotografico è stato offerto prima a 160 milioni di lire, poi a 30 milioni ed infine l’agenzia Coms che lo distribuiva a Roma, ha incassato 2 milioni per la vendita di alcune fotografie.

Il 27 aprile il Ministro della Difesa tedesco Rudolf Sharping, diffonde alcune fotografie, presentandole come inedite, relative ad un eccidio serbo nel villaggio di Rogova. Paolo Vittone, giornalista di Radio Popolare di Milano, dichiara a Michele Santoro di riconoscere in quei cadaveri privati degli arti una scena a cui aveva assistito, in gennaio nella stessa zona, insieme al fotoreporter Livio Senigaliesi. “Si tratta di un finto scoop. Sono immagini già pubblicate da tutti i quotidiani e settimanali, tra cui Stern e Diario. Mi meraviglia vengano mostrate solo ora” (14). L’errore di Sharping è ripreso anche su Il Giornale nuovo del 29 aprile e classificato attraverso l’occhiello come “Propaganda bellica”. Nel breve trafiletto si da conto della testimonianza del fotoreporter italiano e dei giornalisti, si fornisce la versione dei Serbi e si dice che le immagini erano su Internet da tre mesi ma, inspiegabilmente, non si fornisce l’indirizzo del sito (15).

Nel pieno della guerra il Corriere della sera inizia a pubblicare le fotografie di prima pagina a colori, e a firmarle con il nome dell’agenzia di stampa da cui sono distribuite; qualche volta comparirà anche il nome del fotografo. É una novità sia la fotografia a colori in prima che la firma. Fra i quotidiani italiani, pochissimi usano firmare le fotografie; è più facile che vengano segnalati gli autori di grafici e cartine esplicative.

Le immagini del Corriere sono tutte relative alla guerra; la prima viene pubblicata il 30 marzo. É d’apertura sotto un titolo a nove colonne; non è una classica fotografia di news, come genere è più vicina al reportage, un uomo gioca con il suo cane sullo sfondo delle rovine ancora fumanti della città di Pristina. E più che il colore della fotografia - dovrebbe essere la novità - colpisce l’equilibrio grafico della pagina. L’occhio del lettore non è costretto a fare salti, aggiustamenti proporzionali passando dalla lettura dei testi a quella delle immagini; tutto si legge in modo piano senza sincopi. Le proporzioni fra i corpi dei caratteri tipografici, la fotografia, la vignetta di Giannelli, formano una perfetta immagine totale. Il lettore sembra trovarsi finalmente di fronte un giornale equilibrato, con uno stile proprio.

Una bella prima pagina che purtroppo rimarrà la classica eccezione a conferma della regola dei giorni successivi. Si pubblicano le immagini a colori ma si mettono in pagina come prima, senza particolari attenzioni; il colore da soltanto più enfasi, aumenta un poco lo spettacolo del dramma. Dal punto di vista delle informazioni fornite per il lettore non cambia nulla. Semmai si gioca di più sull’emozione come emergerà nei giorni successivi. Il 18 aprile, sotto il titolo a 7 colonne “Invasione di profughi, Albania al collasso”, l’immagine di due bambini in primo piano, con in mano arance e banane, biondi, i capelli a caschetto, le guance arrossate dal freddo, sembrano venire da un paese del nord Europa e non dai Balcani; e forse qui sta la logica della scelta, serve ad avvicinare la guerra a noi italiani. La didascalia recita “Al campo profughi di Kukes bambini kosovari ricevono i primi aiuti” segue la firma: Pellaschiar/AFP. La fotografia cattura l’attenzione e l’emozione ben più dei titoli enfatici. L’immagine coloratissima nei rossi della giacca a vento, e nei gialli delle frutta salta letteralmente fuori dalla pagina. La didascalia ci dice che siamo al campo profughi di Kukes, che i bambini sono kosovari e ricevono i primi aiuti; non ci dice quando. La data non comparirà mai nella didascalie. Il fatto curioso di questa prima pagina del Corriere del 18 aprile è che proprio accanto alla fotografia viene impaginato uno strillo di un reportage delle pagine interne che recita “Soccorsi bloccati E i ragazzini mangiano foglie”. L’immagine dei piccoli profughi è senz’altro riferita al titolo ma il corpo tipografico dello strillo si fa leggere ben più della didascalia.

  • firma: non firmata.
  • fonte: Corriere della Sera, 14 dicembre 2000.
  • firma: non firmata.
  • fonte: Corriere della Sera, 14 dicembre 2000.
  • firma: non firmata.
  • fonte: Le Monde, 16 aprile 1999.
Nello stesso periodo anche LeMonde introduce le fotografie a colori in prima pagina e addirittura nel “sancta sanctorum della sezione internazionale”(16).

Sono fotografie di attualità, fornite dall’agenzia di stampa Reuters, vengono preselezionate dalla direzione artistica, termine questo che per LeMonde era inimmaginabile solo fino a qualche anno fa, e scelte poi in funzione della sequenza delle pagine internazionali (17).

La prima fotografia significativa a colori ‘à la une’ compare su due colonne, il 16 aprile, e ruba un poco di spazio alla tradizionale centralità della vignetta di Plantu che riunisce i due temi del giorno scelti dalla redazione, il candidato unico alle elezioni presidenziali in Algeria e i bombardamenti della Nato sulla ex Jugoslava. La dimensione della fotografia è ottimale per quella leggibilità piana che nel Corriere del 30 marzo abbiamo visto come eccezione e che invece sul quotidiano francese sarà norma. Sotto il titolo “I morti della guerra” l’immagine ci ridà, in notturna, la fila di profughi fra cui si distinguono i volti di due bambini, uno in lacrime l’altro sulle spalle di una donna. La didascalia parla “degli scampati della colonna di rifugiati bombardati mercoledì 14 aprile in attesa alla frontiera albanese”. Sotto la fotografia quattro titoli che rimandano alle pagine interne; il primo si riferisce indirettamente alla fotografia e precisa ulteriormente l’informazione: “Rifugiati bombardati sulla strada a Djakovica: la Nato non esclude di esserne responsabile”. All’interno, a pagina 5, altre tre fotografie, una verticale e le altre orizzontali, impaginate una sotto l’altra, tutte su base tre colonne, messe in sequenza temporale, titolate “Vicino a Djakovica, mercoledì 14 aprile”. Il luogo del bombardamento con le vittime in primo piano, fotografato da “fonte serba”, precisa la didascalia, e gli scampati sotto choc accompagnati al campo di Kukes (18).

Nel quotidiano francese la cura nella scelta delle fotografie, nella stesura delle didascalie e nella contestualizzazione è estrema. La fotografia della stretta di mano fra il leader pacifista albanese Ibrahim Rugova e Slobodan Milosevic ripresa dalla televisione serba e diffusa da tutte le agenzie di stampa il primo di aprile è rimasta sui tavoli della redazione di Le Monde più di dieci giorni. É stata pubblicata soltanto il 13 aprile, nelle pagine ‘Horizons’, accompagnata da un lungo articolo che ricostruiva il contesto della situazione. L’autrice del pezzo è Renate Flottau, una giornalista tedesca che era stata ospite in casa di Rugova nei giorni precedenti e successivi all’incontro ufficiale (19). L’incontro Milosevic Rugova è stato palesemente una mossa propagandistica della Serbia per accreditare una volontà di pace con i kosovari di origine albanese ma è stata pubblicata da tutti; i giornali erano tesi più a registrare semplicemente l’avvenimento che intenzionati a spiegarne l’origine e a valutarne quindi la sua reale portata.

Le didascalie, raramente stringate o retoriche, sono redatte con la stessa cura con cui si scrive un articolo. Per esempio del treno bombardato per sbaglio dalle forze della Nato il 12 aprile a Grdelicka sappiamo dalla didascalia che era il convoglio 393 proveniente da Belgrado con a bordo - secondo il portavoce del ministero degli esteri ellenico - alcuni giornalisti greci; sappiamo che è stato bombardato poco prima delle 10 al kilometro 300; che il conducente è morto; che secondo il responsabile dell’ospedale sono stati rinvenuti 10 cadaveri, fra cui il corpo di un bambino di 10 anni; infine che è la quarta volta che la Nato riconosce di aver provocato vittime civili e ancora, seguono le date, gli obbiettivi dei bombardamenti e il numero delle vittime (20).

Le Monde per sopperire alla spesso lamentata mancanza di corrispondenti e inviati in Serbia (i giornalisti del quotidiano sono stati prima espulsi e successivamente è stato negato loro il visto d’ingresso) ricorre alle fotografie. La festa per la Pasqua ortodossa a Belgrado è proposta con 5 diverse immagini che ridanno le cerimonie religiose, le manifestazioni contro i bombardamenti Nato e il ritratto di Slavko Curuvija, uno “dei più coraggiosi giornalisti jugoslavi” assassinato l’undici aprile in pieno centro di Belgrado (21).

Un ultima osservazione: non ci sono confusioni di generi nella messa in pagina, le fotografie di news compaiono sempre nella sezione dell'attualità, i reportage nelle pagine dedicate alle inchieste e alle analisi. Allo stesso modo le immagini rimango autonome, forniscono informazioni in più: “la fotografia è un altro sguardo che si aggiunge a quello del reporter” (22).

Alla fine del mese di aprile l’operazione “ferro di cavallo” organizzata da Milosevic per allontanare tutte le popolazioni di origine albanese dal Kosovo è un fatto ormai certo. Nello stesso periodo l’agenzia Cantact(23) mette in distribuzione sul mercato dell’informazione internazionale un eccezionale servizio fotografico. Afrim Harjullahu ,un fotoreporter kosovaro di origine albanese, profugo lui stesso, è riuscito a documentare la pulizia etnica messa in atto a Pristina il 31 marzo. Sono le prime immagini senza censura che giungono dal Kosovo. Va ricordato infatti che le fotografie e i filmati ripresi in territorio controllato dai Serbi sono soggetti a censura. “Tutto il materiale stampa - testi, fotografie, riprese audio e video - prima di essere trasmesso deve essere sottoposto al vaglio del competente funzionario del Centro Stampa” (24).

Le immagini di Afrim sono una testimonianza visiva che si affianca alle numerose testimonianze raccolte fra i profughi giunti ai confini del Kosovo. E sono un documento. Il settimanale francese Paris Match pubblicherà queste immagini per primo, seguito il 29 aprile, dal quotidiano spagnolo El Pais. In Italia il servizio, distribuito dall’agenzia Grazia Neri, viene sostanzialmente snobbato da tutti i settimanali d’informazione e dai magazine dei quotidiani a cui è stato proposto e verrà acquistato da la Repubblica per essere pubblicato il 1 maggio.

Senz’altro il reportage di Afrim è maggiormente valorizzato come documento dal quotidiano spagnolo che sceglie di aprire la prima pagina con la fotografia della fila di Albanesi ripresa dalla finestra di casa attraverso la fessura delle persiane. Potrebbe sembrare una classica fotonotizia ma è impaginata a cinque colonne, direttamente sotto la testata, come fosse un titolo; è considerata come la notizia del giorno o la testimonianza del giorno. Normalmente la prima del El Pais prevede le fotografie su tre, quattro colonne, sotto un titolo o accanto al titolo. Il risalto all’immagine viene conferito proprio attraverso la posizione; più la fotografia “sale” nella pagina, maggiore è il suo contenuto informativo. Nel nostro caso la fotografia guadagna il massimo dell’importanza e della visibilità. Impeccabili sono la didascalia, l’occhiello e il titolo; in particolare il corpo dei caratteri del titolo favorisce quella lettura piana della pagina di cui parlavamo poco sopra a proposito di Le Monde. Le altre fotografie che compongono il reportage sono pubblicate, nelle pagine 4 e 5 sempre con grande risalto e accompagnate dall’intervista al fotoreporter raccolta dall’inviata a Skopje, Yolanda Monge. Qui però avremmo preferito leggere anche le didascalie che invece mancano totalmente, fatta eccezione per quella relativa alla piccola fotografia che ritrae i familiari di Afrim al campo profughi di Stankovic.

Anche La Repubblica parla di “documento”; questo è infatti l’occhiello del riquadro di prima pagina con fotografia a tre colonne della massa di profughi per le strade di Pristina. “Così i serbi hanno ripulito Pristina” recita il titolo posto immediatamente sotto l’immagine. Un breve testo sulla “sconvolgente testimonianza” delle fotografie scattate dal fotografo “poco prima che venisse deportato” rimandano alle pagine 12 e 13. Per il quotidiano italiano la notizia d’apertura del giorno è la richiesta dell’ergastolo ad Andreotti per l’omicidio Pecorelli. Su cinque colonne, un “Milosevic non cede” fa da catenaccio includendo il riquadro sul nostro documento. La gerarchia delle notizie ha privilegiato una vicenda italiana pur mantenendo la guerra ancora in prima; siamo a quasi trenta giorni dall’inizio dei bombardamenti.

Come di costume La Repubblica non firma le sue fotografie ma il nome del fotoreporter compare nel testo del riquadro. Non poteva essere altrimenti. Nelle pagine interne vengono pubblicate altre cinque fotografie; fa da apertura la stessa fotografia usata da El Pais in prima ma viene fatta correre come una testata sulle due pagine, per sette colonne. Le didascalie, fatto eccezionale per il quotidiano di piazza Indipendenza, sono particolarmente esaurienti e raccontano, per ogni singola immagine, le fasi della fuga di Afrim e della sua famiglia. In coda ad una di queste didascalie compare anche la firma per esteso del servizio “Copyright Afrim Harjullahu/Pahos/Contact/GraziaNeri(25).

Un’ultima osservazione. Entrambi i quotidiani hanno privilegiato nelle scelte d’impaginazione di mostrare con maggior evidenza la massa delle donne, degli uomini e dei bambini in fuga, lasciando in secondo piano una bella fotografia ripresa dall’interno dello scompartimento del treno di profughi alla stazione di Pristina. Ci chiediamo perché non è stata valorizzata maggiormente visto che le fotografie di masse umane in movimento erano ormai quotidiane. Ma, sebbene fosse ormai da una settimana che le corrispondenze parlassero dei treni carichi di profughi provenienti dall’interno del Kosovo, non se ne avevano immagini.

La televisione francese Canal+ ha mandato in o nda durante il conflitto un’inchiesta, curata da Patrick Chauvel - fotoreporter - e Antoine Novat, intitolata “Rapporteurs de guerre” (26). Nel corso della lavorazione durata due anni, Chauvel ha raccolto, in una serie di interviste fra “l'élite” dei suoi colleghi, dialoghi e pareri sulle ragioni che spingono i fotografi a coprire i conflitti nel mondo. Ne esce un quadro contraddittorio, sospeso fra riflessioni, scelte, dubbi, convinzioni, riconducibile almeno in parte alla crisi di quel ruolo di testimoni, quel ruolo di denuncia che per molti anni ha mosso una parte della professione. Centrando il discorso su un ’élite, il panorama della professione rimane privo di un’analisi sulla quotidianità del lavoro dei fotoreporter; abbiamo un’analisi intorno al mito, scontato quindi che molti aspetti della realtà rimangano nascosti. Dagli schermi francesi è arrivato il ritratto di una “missione” più che di una professione.

Patrick Chauvel inizia a girare questa inchiesta/riflessione, quando la sua agenzia - Sygma - gli chiede di essere “redditizio”, “di fare delle fotografie di showbusiness” e non più reportage di guerra; perché gli orrori delle guerre non fanno aumentare le vendite dei giornali.

Sul ruolo del fotoreporter, James Natchwey della agenzia Magnum dice che le fotografie della guerra in Vietnam hanno influenzato l’opinione pubblica; la “piccola voce”, come la definiva Eugene Smith - celebre fotoreporter di Life - la fotografia che muove alla prese di coscienza, ha assolto in questo caso la sua funzione.

Sul senso della professione Luc Delahaye, anche lui di Magnum, parlando del genonicidio perpetrato in Ruanda si chiede a cosa servono le sue fotografie se il male è già stato fatto; servono per la storia ? ma per la storia di chi, se le fotografie vengono prodotte per il mercato americano ed europeo.

Per combattere la concorrenza delle televisioni a Time chiedono immagini eccezionali, scattate con uno stile molto personale. Ma si rischia facilmente di cadere nella violenza estetizzata.

Dopo la Guerra del Golfo, con i controlli e le censure messe in atto dai militari, i fotoreporter sono ridotti a riprendere i preparativi prima della guerra o i profughi del dopo guerra. É difficile in queste condizioni non essere strumento della propaganda.

Chris Morris, dell’agenzia Black Star, ha ripreso durante la rivolta del 1994 a Pourt-au-Price, l’uccisone di un haitiano. Un braccio teso in primo piano, pistola in pugno, sbuca dal lato destro dell’immagine, puntato contro un uomo a terra, semirannicchiato in un gesto di vana di protezione. La fotografia, pubblicata dal settimanale Time, suscita le critiche dei lettori che accusano il fotoreporter per non essere intervenuto per impedire l’assassinio. Morris ha deciso da allora di non tenere più in conto l’opinione dei lettori. Per chi fotografare allora? Morris non sa rispondere, dice soltanto: “è una buona domanda”.

Fra la cinquantina di fotoreporter italiani che in momenti e luoghi diversi hanno seguito la “guerra del Kosovo” nessuno fa parte de “l'élite” analizzata su Canal+(27). Ciò non toglie nulla alla loro professionalità anche se spesso risulta frustrata quando ci si limitasse a giudicare soltanto dalle fotografie comparse sulla stampa italiana. Perché un problema in più con cui si scontrano i nostri fotoreporter è il poco credito che riscuotono nelle redazioni e nelle agenzie fotografiche. Troppo spesso in Italia la scelta delle immagini è fatta da persone incerte, che non padroneggiando i parametri di valutazione giornalistici si affidano a materiali già pubblicati o comunque provenienti dalle grandi agenzie fotografiche internazionali, fotografie che hanno un imprimatur giornalistico certo. Così, è più facile trovare pubblicati i lavori di fotoreporter italiani all’estero che non sulla stampa nostrana. A titolo esemplificativo di Luca Bruno dell’AP abbiamo visto fotografie su El Pais ma poco o nulla sulla stampa italiana; di Alex Majoli di Magnum un reportage sull’ UCK per The New York Times Magazine.

Notiamo, a proposito delle fotografie con imprimatur, che Time ha pubblicato per primo la fotografia di una fila di profughi con in primo piano una giovane donna che camminando allatta il suo bambino; la settimana successiva stessa foto, stesso taglio anche per la copertina di Internazionale del 9/15 aprile 1999; Panorama del 15 aprile 1999 pubblica ancora la stessa immagine, non tagliata, su due pagine (60 e 61). Almeno, in questo caso, tutte le pubblicazioni riportano con correttezza la firma dell’autore, Damir Sagoli, e dell’agenzia Reuters.

Abbiamo quindi una problematica in più con cui fare dei conti reali ma forse una in meno. La problematica della “piccola voce” è idealistica, rimane lontano dal lavoro quotidiano di chi si muove all’interno del sistema dell’informazione. Si cerca di essere presenti sulla notizia di testimoniarla con l’immagine o di trovare la notizia valida in termini fotografici. E a questo punto sì che le esperienze coincidono. Dal dopo Guerra del Golfo gli apparati della censura sono forti, ma sarebbe meglio dire quelli della propaganda, ed è con questi che si sono misurati tutti i giornalisti, i fotoreporter, gli operatori tv, i media in generale che hanno voluto fare discorsi corretti nei confronti del pubblico. Patrick Chauvel sostiene che “il fenomeno dei rifugiati è al centro di tutte le manipolazioni” (28); Gabriele Invernizzi su L’Espresso scrive che “Adesso ci penseranno le moltitudini del Kosovo a gestire il discorso sulla guerra; giornali e televisioni hanno lo spettacolo assicurato. Col risultato che l’informazione sulla guerra finisce soffocata dagli aspetti umanitari, e le altre due facce, quella politica e quella militare, diventano sempre più evanescenti” (29). In linea di principio ci associamo in pieno a queste dichiarazioni; ma sono riflessioni che devono essere tenute presenti principalmente nelle redazioni, da chi compone il mix delle notizie. Sono osservazioni valide per l’intero sistema dei media ma non possono essere prese come principio operativo per i singoli operatori dell’informazione. L’arrivo dei profughi al confine con la Macedonia, il Montenegro, l’Albania era diventato la notizia centrale perché diretta conseguenza della pulizia etnica; ma non è da dimenticare che fu la prima situazione dove è stato possibile confrontarsi con la realtà (sebbene parziale), raccogliere ritratti e testimonianze nel tentativo di verificare ciò che fino ad allora era stato comunicato soltanto nei briefing della Nato o dai telegiornali della RTS.

Confrontarsi con il tema profughi e sfuggire alla propaganda è stato comunque arduo; qualcuno nella messa in pagina si è fatto prendere la mano dall’emozione. Sono state sottolineate le condizioni fisiche dei Kosovari di etnia albanese in fuga, la situazione dei campi profughi, in particolare l’atteggiamento dei macedoni al capo di Blace. Però una volta ai confini con il Kosovo molti colleghi, attraverso nuovi contatti, nuove fonti, hanno tentato di documentare i combattimenti dell’UCK o le distruzioni dei villaggi ad opera dell'Esercito jugoslavo o delle bande paramilitari serbe. In quella situazione è stata la capacità, l’esperienza dei singoli a fare le differenze sull’informazione fornita. Spesso chi è riuscito meglio nel proprio lavoro sono stati i giornalisti e fotoreporter freelance slegati dalle grandi strutture dell’informazione. Una, due persone si muovono più facilmente e agilmente, con costi nettamente inferiori e possono battere le grandi strutture televisive che, per quanto efficienti, hanno problemi logistici per la trasmissione quotidiana dei servizi.

I freelance italiani come il resto del mondo dell’informazione si è precipitato lungo i confini dell’Albania all’inizio dei bombardamenti perché le notizie che il mercato dell’informazione chiedeva potevano venire solo da là.

Due italiani sono entrati a Belgrado, Mauro Sioli freelance e Ettor Malanca di Sipa Press. Sioli c’è riuscito al terzo tentativo; si è fermato in città per 23 giorni prima di essere stato espulso. Della sua testimonianza colpisce il fatto che al suo presentarsi come italiano in città abbia ottenuto spesso come prima risposta la stessa lapidaria frase “Aviano fuck-off”. Per questo è stato più volte allontanato dalle situazioni che avrebbe voluto riprendere. Era spinto da curiosità umana e giornalistica per la situazione della capitale serba. Ha scelto di documentare la parte più difficile del conflitto, la vita sotto le bombe. É stato espulso per ragioni burocratiche - nonostante la regolare press card - senza aver commesso alcuna violazione del Codice di comportamento emanato dall’Esercito Jugoslavo. Il lavoro di tutti gli inviati a Belgrado era comunque strettamente controllato soprattutto dopo il bombardamento della Radio Televisione Serba il 23 aprile. Ne da chiaramente la misura il fatto che il Press Center avesse stabilito persino i luoghi dove i giornalisti delle televisioni potessero fare i loro stand-up (30).

Molti fotoreporter e giornalisti hanno potuto lavorare con maggior libertà nei campi meglio attrezzati ed efficienti lungo la costa albanese vicino a Durazzo, a Kavaje e Rrashbull, campi allestiti dalla Croce Rossa Internazionale e dai militari italiani. Ma anche qui, in ultima analisi, eravamo di fronte ad altra propaganda a favore della Missione Arcobaleno. Nella confusione del campo di Kukes qualcuno avrà prodotto immagini più significative o soltanto troppo crude. Ma forse, paradossalmente, anche queste immagini erano fuori mercato perché la parola d’ordine in molte redazioni è stata “servizi drammatici ma non ansiogeni”(31).

Se il lettore è stato strattonato non da meno lo sono stati gli operatori dell’informazione e non soltanto dai protagonisti del conflitto.

Panorama, al di là delle sue posizioni politiche, è scivolato sui meccanismi del mercato della fotografia d’informazione che nelle redazioni sono ben conosciuti. L’ansia dello scoop ha fatto tralasciare seri controlli e verifiche. Il Corriere della sera dopo una buona partenza ha messo in pagina più emozioni che informazioni fotografiche nel tentativo di catturare lettori all’edicola. La Repubblica ha mantenuto la suo ormai proverbiale distrazione nei confronti delle immagini; del resto il suo fondatore, Eugenio Scalfari, ha sempre sostenuto che la fotografia è soltanto “esornativa del testo scritto”.

Le fotografie dovrebbero essere trattate con cura dalle redazioni, perché possano mantenere il proprio valore informativo. E visto il panorama, anche il lettore dovrebbe leggere attentamente i suoi giornali, cercando di andare oltre l’emozione per la bella fotografia. C’è dell’altro da scoprire.

Fra propaganda esplicita o velata, durante questi 79 giorni di conflitto in cui abbiamo osservato le fotografie dei giornali, il lettore è stato spesso strattonato perché prendesse le parti di uno dei due schieramenti in conflitto. La fotografia con la sua ambiguità di fondo ha in parte favorito queste operazioni. Pensiamo alle fotografie “belle e orribili” riprese fra i profughi in fuga dal Kosovo. Il fotogiornalista ha una sola frase a disposizione per raccontare un’evento; “deve privilegiare il danno alla vita (...) deve fermare l’occhio sul punto in cui l’integrità fisica e la dignità di qualcuno viene violata perché la infinita vulnerabilità degli esseri umani è una ossessione di tutti e non può non essere l’ossessione del fotografo” (32). Certo che queste immagini non possono poi venire usate in un modo approssimativo, quasi decontestualizzate, facendo scomparire anche la semplice didascalia come accade troppo spesso nella stampa italiana.

Se il lettore è stato strattonato non da meno lo sono stati gli operatori dell’informazione e non soltanto dai protagonisti del conflitto.

Panorama, al di là delle sue posizioni politiche, è scivolato sui meccanismi del mercato della fotografia d’informazione che nelle redazioni sono ben conosciuti. L’ansia dello scoop ha fatto tralasciare seri controlli e verifiche. Il Corriere della sera dopo una buona partenza ha messo in pagina più emozioni che informazioni fotografiche nel tentativo di catturare lettori all’edicola. La Repubblica ha mantenuto la suo ormai proverbiale distrazione nei confronti delle immagini; del resto il suo fondatore, Eugenio Scalfari, ha sempre sostenuto che la fotografia è soltanto “esornativa del testo scritto”.

Le fotografie dovrebbero essere trattate con cura dalle redazioni, perché possano mantenere il proprio valore informativo. E visto il panorama, anche il lettore dovrebbe leggere attentamente i suoi giornali, cercando di andare oltre l’emozione per la bella fotografia. C’è dell’altro da scoprire.

  1. Che l’origine dell’intervento Nato possa farsi risalire al massacro di Raçak è stato da più parti affermato; bastino qui Carlo Jean, La guerra: strategia, vincoli, risultati; in AAVV, La pace e la guerra, Milano 1999; Roberto Morozzo della Rocca, La via verso la guerra, in Kosovo in guerra, Quaderni speciali di Limes supplemento al n. 1/99.

  2. Va sottolineato che alla domanda “Raçak è un vero massacro ?” molti giornalisti della stampa internazionale fanno notare che 34 delle 45 vittime sono state rinvenute in una località dove si combatteva da giorni; secondo il referto della commissione finlandese le vittime avevano sulle mani tracce di armi da fuoco, quindi molti potrebbero essere stati guerriglieri. E ancora, fra il momento del massacro e l’arrivo degli osservatori OSCE passa una notte in cui il controllo di Raçak ripassa alla guerriglia sospettata di aver mutilato orrendamente i corpi per suscitare l’orrore dell’opinione pubblica internazionale. vedi Laura Tettamanzi (a cura di) Il medium è il massacro, Ricerca e sviluppo Mediaset, edizione fuori commercio , p.57 -58.

  3. Massimo Cavallini, La guerra di Jamie Superstar, Diario 2 giugno 1999, p.104-107; sulla struttura e il modello di comunicazione Nato vedi anche Enrico Brivio, Missili e notizie, il difficile controllo, Il Sole 24ore 9 maggio 1999, p.40.

  4. Alberto Papuzzi, Manuale del giornalista, Donzelli, Roma 1996, p. 177 e seg.

  5. Furio Colombo, Ultime notizie sul giornalismo, Laterza, Roma-Bari 1995.

  6. idem p. 158.

  7. Le prime fotografie erano state timidamente introdotte nel settembre del 1974 nel supplemento Le Monde aujourd’hui e, in un lento ma costante restyling del giornale, erano arrivate progressivamente nelle sezioni interne e in prima pagina, anche se di dimensioni ridotte, usate solo come strilli. Sempre interessanti sono gli articoli, le interviste o le riflessioni di Michel Guerrin sulla fotografia in generale e sulle vicende e le problematiche del fotogiornalismo.

  8. El Pais Libro de estilo, Ediciones El Pais, Madrid 1994.

  9. Enzo Bettiza, Le prove del genocidio, Panorama n.15, 15 aprile 1999, p.34.

  10. www.espressoedit.it 8 aprile 1999. Per i non addetti ai lavori dell’informazione è bene sapere che L’Espresso è riuscito a inserire la smentita dello scoop perché, nonostante la concorrenza, le redazioni dei due settimanali si spediscono reciprocamente, prima dell’uscita in edicola, le rispettive cosiddette copie pilota.

  11. L’errore e l’orrore (editoriale), Panorama n.16, 22 aprile 1999.

  12. L’Espresso denuncia: svista di Panorama, La Repubblica del 9 aprile 1999, p.12.

  13. Le prove del genocidio, supplemento al n.59 di Liberal

  14. Il medium è il massacro, op.cit. p.59.
  15. Le foto “inedite” dei massacri erano su Internet da tre mesi; il Giornale nuovo, 29 aprile 1999.
    Si ha come l’impressione che Internet sia considerata dai giornali italiani, una fonte riservata e che il lettore non possa, volendo, consultarla; gli indirizzi web compaiono solo nelle pagine specializzate dedicate a Internet.

  16. Robert Solé, Des photos et des mots, Le Monde 19 avril 1999, p.14.

  17. Idem

  18. Prés de Djakovica, mercredi 14 avril; fotografie Reuters di Goran Tomasevic, Dylan Martinez; Le Monde 16 avril 1999, p.5.

  19. Renate Flottau, Avec Rugova otage de Milosevic a Pristina, Le Monde 13 avril 1999, © Der Spiegel. Nel corso della guerra, la direzione del quotidiano francese si è più volte rammaricata con i lettori di non aver potuto coprire gli avvenimenti interni alla ex Jugoslava a causa del ritiro dei visti ai propri inviati.

  20. Fotografie di Emil Vas/Reuters, Sud de Belgrade: un trains sous les frappes de l’Otan, Le Monde 14 avril 1999, p.4.

  21. Fotografie di Petar Kujundzic, Emil Vas, Ivan Milutinovic/Reuters; A Pâques, dans Belgrade en guerre, un Journaliste assassiné, Le Monde 13 avril 1999.

  22. Robert Solé, ibidem

  23. Contact presse images, è un’agenzia fotogiornalistica internazionale con tre sedi principali a New York, Parigi, Madrid, ha 13 uffici o agenzie in altrettanti paesi europei e del mondo attraverso cui distribuisce alla stampa e all’editoria i suoi materiali.

  24. punto 5 del Codice di comportamento per corrispondenti e inviati nella Repubblica Jugoslava in stato di guerra, redatto a cura del Centro Stampa dell’esercito jugoslavo. I comandamenti dell’armata, La Stampa, 27 aprile 1999.

  25. Pahos è un nome a noi sconosciuto, immaginiamo sia il fotografo o l’agenzia che ha fatto da tramite per far pervenire il rullo originale alla Contact; Grazia Neri è l’agenzia fotografica milanese che rappresenta la Contact in Italia.

  26. Canal + (Francia), 6 maggio h. 22.15. Noi qui, per praticità, faremo riferimento alla recensione che ne è stata data su Le Monde. Michel Guerrin, Objectif de guerre, Le Monde Television 2/3 maggio 1999, p. 4-5.

  27. Qualche collega ha detto che avremmo fatto prima a fare l’elenco di chi non è partito; il nostro censimento è quindi probabilmente parziale e ci scusiamo fin d’ora per le possibili involontarie omissioni. Per le agenzie di stampa Ansa: Giuseppe Farinacci, Carlo Ferraro; Associated Press: Luca Bruno, Andrew Medichini; Reuter: Mario La Porta; per i settimanali Famiglia Cristiana Nino Leto; Liberal Sergio Ferraris; per le agenzie fotografiche italiane AGF: Tony Gentile, Cristiano Laruffa, Stefano Carofei; Contrasto: Francesco Zizola, Eligio Paoni, Alessandro Tosatto, Stefano De Luigi, Stefano Pavesi, Tommaso Bonaventura, Massimo Sciacca; Grazia Neri: Paolo Pellegrin, Ivo Saglietti, Roberto Arcari, Pablo Balbontin, Pino Mastrullo, Luigi Baldelli; Tam Tam: Acerbis, Andrea Pagliarulo, Elio Colavolpe; Cosmos: Enrico Dagnino; Eikon studio: Gianluca Perticoni; Olympia: Nancy Motta; per le agenzie fotografiche internazionali Gamma: Antonello Nusca; Magnum: Alex Majoli; Sipa press: Ettore Malanca. Freelance: Mauro Sioli (da Belgrado), Dino Fracchia, Eugenio Barbera, Livio Senigaliesi, Alberto Ramella, Carlo Cerchioli, Claudio Vitale, Mario Boccia, Romano Cagnoni, Franz Gustincich, Massimo Sciacca, Antonello Nusca, Isabella Balena, Teresa Carreño, Paolo Siccardi, Claudio Olivato, Stefano Cavicchi, Silvia Morara, Marco Dilauro, Riccardo Venturi, Franco Paggetti, Marco Vacca.

  28. Intervista raccolta da Michel Guerrin, Patrick Chauvel; La guerre du Kosovo n’a pas encore commencé pour le photographes; Le Monde Television, 2 / 3 maggio 1999; p.5.

  29. Gabriele Invernizzi, Disinformati e contenti, L’Espresso 15 aprile 1999.

  30. Testimonianza di Anna Mingotto inviata del TG5 a Belgrado in Il medium è il massacro, op.cit. p.61. Lo stand-up è quando il giornalista racconta un avvenimento stando in piedi, sullo sfondo del luogo dove si svolge l’avvenimento.

  31. Ho personalmente ricevuto questa raccomandazione prima di partire per un reportage per i campi profughi in Albania (nda).

  32. cfr. Furio Colombo, op. cit. p.151/155.

Un doveroso ringraziamento a tutti colleghi fotoreporter e ai giornalisti che mi hanno fornito informazioni e spunti per la stesura dell’articolo. Un ringraziamento particolare agli amici dell’Associazione Fotografia&Informazione.

Articolo pubblicato da AFT, semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano, anno XIV numero 28