L’Afghanistan visto con gli occhi degli afgani: l’esperienza di Aïna Photo

  • didascalia: Employees of Afghanistan’s Joint Electoral Management Body make piles of ballot papers at the Kabul counting centre after the country’s first direct presidential election, on October 9, 2004. They must be counted to ensure they tally with the number of voting slips recorded in the “Polling Centre General Return".
  • firma: Najibullah Musafer/Aïna Photo
  • fonte: http://www.ainaphoto.org
  • titolo articolo: Afghanistan's historic presidential election

L’Afghanistan visto con gli occhi degli afgani. Questo l’ideale ispiratore della Aïna Photo Agency di Kabul. Nata da un'idea del celebre fotoreporter iraniano Reza insieme al fratello Manoocher Deghati, la "prima agenzia fotografica indipendente" dell'Afghanistan post-talebano mira a dare una formazione specializzata agli operatori locali, per favorire anche attraverso i media il cammino della società afgana verso la democratizzazione.
Reza Degnati, che si firma con il solo nome di battesimo per il suo passato ruolo da dissidente in patria, ha iniziato la sua carriera di fotoreporter per Agence France Presse. Ha lavorato per Newsweek, Time, Life, Paris Match, Stern, National Geographic. La sua vocazione all’insegnamento e alla diffusione del fotogiornalismo come strumento di riscatto sociale lo ha accompagnato per tutta la sua carriera. Il suo primo corso di tecniche di reportage fotografico risale al 1983, sempre in Afghanistan. Esperienza ripetuta nell’85 in Sudafrica, con i primi fotoreporter di colore.
La sua ultima fatica, la scuola-agenzia il cui nome in persiano significa “specchio”, è nata nell'ottobre del 2002 da una costola della già esistente Aïna, Organizzazione Non Governativa per la promozione della libertà di informazione. Nell’agosto del 2001 Reza aveva infatti già dato vita a questa rete mirante a ripristinare la libertà di espressione sui media in Afghanistan. Finora, Aïna ha costruito otto centri in varie province del Paese, che forniscono supporto alle principali pubblicazioni, alla produzione video e alla formazione di nuovi operatori. Attualmente impiega 25 volontari e professionisti dei media, dà lavoro a 250 afgani e forma 300 giornalisti e studenti.
Le testate sostenute da Aïna raggiungono un pubblico di più di 250 mila lettori.

  • didascalia: Third Celebration with Afghan officials in the Kabul Stadium of the Afghan National Hero Ahmad Shah Massoud, died in a crime on September 9, 2001, by two Arabic fake journalists. Kabul, Afghanistan 2004
  • firma: Gulbuddin Elham / Aïna Photo
  • fonte: http://www.ainaphoto.org
  • titolo articolo: Ahmad Shah Massoud

Tra 400 candidati al corso di fotoreportage, nella capitale sono stati selezionati inizialmente una ventina di studenti, dai 13 ai 40 anni. In una sede ricavata da una ex prigione talebana gli aspiranti fotoreporter hanno seguito una serie di corsi intensivi: nozioni di base di giornalismo, utilizzo di internet, inglese, e ovviamente tecnica fotografica. Sono partiti con le tradizionali "scatole" utilizzate dai ritrattisti per le strade di Kabul, e per poi passare alla 35 millimetri e infine approdare alla digitale. Hanno imparato a sviluppare e stampare le immagini in camera oscura e a ritoccare con Photoshop. I risultati si vedono [www.ainaphoto.org]: volti e scene di vita quotidiana, e le donne, alcune velate, altre senza burqa, nei tradizionali abiti da festa dai colori intensi.
Gran parte degli alunni della Aïna vedono nella fotografia un potente strumento di progresso, oltre che un modo di denunciare le ingiustizie e soprusi che continuano ad attraversare il Paese. Tra i primi partecipanti al corso ci sono anche due donne. Come Farzana Wahidi, 21 anni, cresciuta durante il regime talebano con l'ambizione a diventare giornalista e "raccontare la verità". Sogno che sembrava irraggiungibile: ora invece Wahidi lavora per la Afp e guadagna più della maggior parte degli uomini che conosce.
Il rischio di questo mestiere rimane considerevole, in un Paese dove i mezzi di comunicazione di massa sono ancora nel mirino dei poteri forti. Risale a qualche settimana fa l’omicidio di una giovane giornalista dell’emittente Tolo Tv, accusata di vestire e comportarsi in maniera troppo disinvolta e “all’occidentale”. Najibullah Musafer, che a 40 anni è il più anziano del gruppo di Aïna Photo, in prigione c'è rimasto sette mesi, proprio a causa delle sue fotografie. Musafer ha anche girato un film-documentario sul regime talebano nell'area Hazara. Se fosse stato scoperto, sarebbe stato sicuramente condannato a morte.

  • didascalia: In Toofan Beauty Parlor in Kabul City, Najeela looks at her sister-in-law as she helps her wear churis, a traditional form of bracelets worn by women in the middle east and Asia. She's wearing an Indian dress, especially brought from India that can cost upto 200 U.S. dollars.
  • firma: Ferishta Kohistani / Aïna Photo
  • fonte: http://www.ainaphoto.org
  • titolo articolo: Afghan Beauty
Il progetto di Reza gode del sostegno di numerosi enti, istituzioni e organi di informazione: tra i principali partner internazionali ci sono l’UNESCO e il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), ma anche la Commissione europea e l'Ong statunitense USAID. Vi sono poi una serie di associazioni per la libertà di stampa nel mondo, come Reporters sans frontières, la National Geographic Society e l'olandese Free Voice.
Come recita il “portfolio” della giovane agenzia, le immagini di Aïna sono state già state utilizzate ad illustrare servizi su Gente, Le Monde 2, National Geographic, La vie, Days Japan. E il suo panorama è destinato ad ampliarsi, visto che di recente sono state utilizzate anche dal Corriere della Sera e da altri quotidiani nell’illustrare servizi sull’Afghanistan.
  • didascalia: Gazan (Afghanistan) - Amina, 26 anni, ha commesso adulterio. Secondo le usanze del luogo, un mese fa il padre (il primo a destra) e altri 16 uomini del villaggio l'hanno lapidata. Ora gli assassini sono agli arresti.
  • firma: Gulbuddin Elham / Aina Photo
  • fonte: Corriere della Sera, 11 maggio 2005
  • titolo articolo: I diciassette lapidatori di Amina, c'è anche il padre

Non solo, l'agenzia è riuscita ad attirare l'attenzione di una serie di professionisti del reportage, come il free-lance francese Dimitri Beck, ora caporedattore. Contattato da Reza, il trentaduenne free lance, esperto di reportage sociali nelle repubbliche ex sovietiche, si è immediatamente dichiarato entusiasta, mosso dalla convinzione che "non si può avere completa democrazia senza media indipendenti".
Cospicuo è stato anche l'apporto di materiale e strumentazione all'avanguardia, frutto di una serie di donazioni. Aspetto non secondario, questo, vista l'importanza di garantire un'adeguata competitività alle immagini, che devono eguagliare gli standard delle più grandi agenzie internazionali.
Il sito-vetrina dell’agenzia, attraverso il quale vengono mostrati e commercializzati i prodotti dei fotografi afgani, è supportato dalla tecnologia di Digital Railroad [www.digitalrailroad.net], che consente di creare il proprio archivio fotografico online, minimizzando i costi e le difficoltà tecniche di trasmissione delle immagini digitali. Le immagini vengono classificate in un database SQL ad alto tasso di sicurezza che consente l’accesso al servizio on line in qualunque momento da qualsiasi Pc connesso a internet. Consente di creare i propri “lightbox” con le immagini prescelte, e di attivare una casella RSS photo-feed, per ricevere costanti aggiornamenti sulle novità in archivio. Digital Railroad semplifica il percorso fra chi scatta la fotografia e chi ne usufruisce, che sia un’agenzia, una testata o un privato. Il sito-vetrina di Aïna Photo consente di accedere rapidamente all’archivio dell’agenzia e di registrarsi, per ottenere informazioni sui prezzi e sui credits delle singole immagini.
I collaboratori di Aïna oggi sono sparsi nei centri principali del Paese. Il nucleo è costituito proprio dai primi alunni che diedero vita al progetto tre anni fa. "Per tutti noi - conclude Beck, - è solo l'inizio di quella che promette di essere una grande avventura".

Francesca Micheletti

Fonti:

www.digitaljournalist.org
http://www.digitalrailroad.net/corpsite/services.html
www.ainaworld.org
www.ainaphoto.org
http://magma.nationalgeographic.com/

  • didascalia: The 17 prisoners arrested in the case of Amina's death, in the jail of Argou village, Badkhashan.
  • firma: Gulbuddin Elham / Aina Photo
  • fonte: http://www.ainaphoto.org
  • titolo articolo: Badakhshan, an Afghan woman killed for alleged adultary

L’idea di aprire una scuola di Fotogiornalismo ed un’agenzia fotografica a Kabul.
Mi sembra una delle iniziative più degne di lode e di attenzione dell’ultimo secolo.
E i motivi che mi inducono ad affermare ciò sono diversi.
Non è affatto strano che una idea del genere sia venuta in mente ad un reporter di origini non occidentali. E dunque ritengo ci sia un nesso tra questo e la rottura di una visione tutto sommato colonizzatrice (quantunque legata ad un nobile principio come quello dell’informazione fotogiornalistica) che ha visto sempre personaggi estranei all’ambiente raccontare i fatti di casa degli altri (con questo vogliamo solo fare una notazione, non certo screditare il lavoro altrui o esibirci in affermazioni autarchiche).
(un reportage “mordi e fuggi” ha un valore, un servizio pianificato nei dettagli e realizzato in mesi di lavoro ne ha senza dubbio un altro. Tanto per esemplificare: il Salgado di ”La mano dell’uomo” ha del miracoloso.Quando invece si cimenta nella foto di news, ad esser onesti rasenta la banalità).
E’ pur vero però che l’occhio di un estraneo nota cose che un occhio assuefatto all’ambiente considera normali.
I fotoreporter che vengono dal terzo mondo si possono contare sul palmo della mano. Eppure la stragrande maggioranza del materiale prodotto è da lì che genera. Territorio vergine, molto spesso. Palestra di cimento per i giovani che iniziano la professione.( avete mai sentito un giovane fotoreporter dire : “vado a Bruxelles a raccontare la vita della capitale della UE” oppure “Vado a Vienna a scoprire come vivono i giovani ?” Molto probabilmente lo avrete ascoltato dire: vado in Congo o in Sudan. Insomma lì tutto è più facile, più fotogenico, visto con gli occhi di uno che difficilmente vede crepare di fame qualcuno nella sua città. Invece ritengo interessante che a raccontare le fatiche di una società come quella Afghana siano anche coloro che a quella società appartengono e che quindi riescono a comprenderla meglio di chiunque altro .
Saranno i primi tentativi di delocalizzazione applicata all’informazione? Può essere, ma se fosse così ciò non ci spaventa, anzi. Quello che ci spaventa invece è la tendenza sempre più diffusa da parte delle grandi agenzie fotografiche ( Ap, Reuters, Getty, Corbis) di raccattare fotografi in zone difficili per poter coprire gli eventi, infischiandosene spesso e della qualità e dell’imparzialità.
Prendiamo il visibile esempio dell’Iraq. Le difficoltà sul campo impediscono grandemente la presenza di mezzi di informazione indipendenti, a meno che non si opti per la versione embedded,
che, a volere essere ottimisti, sarà sempre un po’ filtrata dall’occhio dell’esercito che ti ospita. E che ti protegge.
D’altro canto, essendo anche il campo “avverso”quasi del tutto impraticabile, diverse agenzie internazionali hanno preso la buona abitudine di arruolare sul campo qualche fotografo ben gradito al “nemico”e quindi capace di muoversi su quel fronte. ben che vada si avranno due punti di vista, non necessariamente sbagliati, certamente parziali e funzionali. Quando la libertà di circolazione viene negata certamente la verità è la prima vittima.
Questa logica non dà nessuna garanzia di obbiettività , ma sottende soltanto ad una logica di profitto. “Bisogna produrre foto”.
In un bel libro scritto a quattro mani, i fotoreporter Greg Marinovich e Joao Silva ( the Bang Bang Club; Arrows book. London) tra le altre cose belle e crudeli che ci narrano nel periodo di passaggio dall’apartheid all’elezione di Nelson Mandela si soffermano anche a raccontarci il loro fastidio al cospetto dei grandi fotografi Internazionali scesi a torme per raccontare indubbiamente un avvenimento storico di quella portata
il Sudafrica è uno dei pochi e rari esempi nei quali puoi vedere la storia di quel
paese raccontata attraverso gli occhi dei fotoreporter sudafricani: Peter Magubane, Alf Kumalo Gideon Mendel , Jody Bieber . bianchi e neri. Ma questo paese è un fenomeno a parte, con una grande tradizione giornalistica e fotografica , indubbiamente mutuata dal colonialismo.
L’informazione sarà sempre merce ma con delle caratteristiche che la rende diversa dal resto.
Per questo ci piace che Reza e suo fratello si siano messi in testa attraverso la scuola aperta a Kabul di permettere anche ad altri di avvicinarsi alla professione con il giusto bagaglio professionale.( noi che non abbiamo neanche uno straccio di scuola di fotogiornalismo!) Con la speranza di ritrovarceli quei giovani reporter un giorno anche loro Globe trotter del fotogiornalismo, a raccontare il mondo, quell’altro, con gli occhi di uno nato a Kabul.

Marco Vacca