Da Bagdad . Franco Pagetti ci racconta

Pubblichiamo qui di seguito una istruttiva ed esclusiva descrizione delle delle difficoltà che un fotoreporter incontra in quel di Bagdad. Abbiamo infatti chiesto A Franco Pagetti di raccontarci come in quelle condizioni estreme si riesce pur tuttavia a lavorare. Franco, reporter di lunga e provata esperienza in zone di guerra, è probabilmente l'unico fotoreporter, e forse anche l'unico giornalista Italiano presente in Iraq. lavora per la rivista TIME.

Baghdad 14/12/2005

Fare il nostro lavoro oggi in Iraq è sicuramente molto difficile, ma non impossibile.
Le cause dei problemi sono da ricercare nei pericoli sempre esistenti in un paese in guerra (non una guerra dichiarata ma una guerriglia vera e propria, che gli americani continuano a chiamare terrorismo) e - come prima conseguenza di ciò - nelle difficoltà di spostamento (lo si può fare sotto scorta ma non sempre funziona).

Quando si è embedded, bisogna dirlo, l'esercito americano ti lascia libertà assoluta. Questa può sembrare una contraddizione, ma in Iraq, se sei con loro, puoi fotografare quello che vuoi, e mai in tre anni che sono qui mi hanno chiesto di controllare un file o di sapere quello che scrivevo.
Se si è embedded il fatto di lavorare per un giornale americano aiuta. Non sono ben visti i fotografi indipendenti: alla parola free lance i militari americani storcono il naso, e iniziano a richiedere mille scartoffie. Anche al loro seguito i pericoli non diminuiscono, ma in un certo senso accrescono essendo loro il bersaglio principale della guerriglia.

Lavorare in Iraq è impossibile se non appartieni ad un network che ha un'organizzazione logistica adeguata alla situazione. Lavorando per TIME quando ci spostiamo dobbiamo seguire delle regole ferree che non posso spiegare per motivi di sicurezza: posso dire che siamo scortati e che non ci fermiamo mai troppo nello stesso posto. Viviamo in una casa a Baghdad, con altri giornalisti come vicini: è una casa normale, ma le finestre al posto dei vetri hanno pannelli di plastica e tutto intorno ci sono muri di cemento armato nonchè guardie armate sui tetti e agli ingressi. Nessuno può uscire, entrare o avvicinarsi senza essere visto. Le guardie sono irachene, non ci sono stranieri: è la politica del bureau chief e fino ad ora è risultata vincente. Un mese fa due autobombe sono state lanciate contro le protezioni di cemento armato: la casa ha resistito, ovviamente subendo danni ma tutti riparabili.
L'organizzazione logistica prevede che giornalisti e fotoreporter abbiano sempre la scorta e un walkie talkie tramite il quale ogni 15 minuti comunicare la propria posizione.
E' ovvio che lavorando così il nostro raggio d'azione risulta molto limitato, i contatti con i locali sono difficili e richiedono prudenza: ad esempio non riveliamo mai l'ora di un appuntamento e arriviamo sempre all'improvviso.

Bisogna poi considerare il pericolo corso dagli iracheni che rilasciano interviste: per alcuni gruppi oltranzisti anche costoro sono considerati dei collaborazionisti.

Come si puo' immaginare abbiamo contatti con la resistenza: alcuni gruppi sono favorevoli ad incontrarci e capiscono l'importanza dei media, altri sono poco chiari e non affidabili, e anche se ci cercano li evitiamo.
Talvolta esponenti di questi gruppi contattano giornalisti ritenuti credibili e consegnano loro dei DVD che loro stessi hanno girato.

I sequestri sono un evento quotidiano per gli iracheni: ce ne sono da 20 a 30 al giorno. Gli occidentali sono appetibili, soprattutto gli italiani, perchè i rapitori sanno che le possibilità di un pagamento del riscatto sono maggiori. Autori dei sequestri non sono i vari gruppi di insorti, ma generalmente è la malavita comune che poi vende l'ostaggio al miglior offerente.

Non so esattamente quanti giornalisti italiani siano oggi in Iraq, ma se ci sono se ne stanno chiusi all'hotel Palestine. Lo facevano anche prima che la situazione cambiasse, e cioè nel settembre 2003: mi ricordo le volte in cui i nostri bravi inviati mi fermavano nella hall dell'albergo per avere notizie di prima mano su quello che succedeva in giro e poi leggevo la mia testimonianza il giorno dopo sui giornali, in bella copia.
C'è un modo diverso di intendere il giornalismo nei paesi anglosassoni: il pool non esiste, non fanno comunella, si incontrano, si scambiano anche informazioni, ma non parlano mai di quello a cui stanno lavorando. Così facendo eventuali sequestratori ne possono rapire al massimo uno e non dodici tutti insieme su un pulmino, come successe nell'aprile del 2003, quando i giornalisti invece che inviati sembravano una scolaresca in gita.

Tutti sanno poi quanto i giornalisti americani siano rigorosi in quanto a informazioni: vogliono il nome esatto dell'informatore, anche se non lo pubblicheranno, il telefono o un recapito per rintracciarlo. Nelle didascalie delle foto la
precisione è fondamentale, se non si è meticolosi il rischio è di essere sbattuti fuori dal giornale in meno che non si dica.

Tutte le immagini realizzate sono digitali e tutta l'attrezzatura per trasmetterle viene fornita dal giornale, solo le macchine fotografiche sono di proprietà del fotografo, ma nel caso succeda qualcosa il giornale le sostituisce rapidamente e senza troppe domande. E' un rapporto basato sulla fiducia, ma si sa che chi sgarra paga.

I giornalisti di Time presenti in Iraq variano da due a 4, noi fotografi siamo in due e ci alterniamo dandoci il cambio. Io, ad esempio, seguirò le elezioni del 15 dicembre e poi rientrerò in Italia per due settimane. Sarò di nuovo in Iraq il 5 Gennaio 2006 fino a fine febbraio.