Somalia, quarta volta

Sono le due del pomeriggio quando il vecchio Iliushin 17, un quadrielica russo noleggiato dalla Daallo, l’unica compagnia aerea somala, inizia la discesa verso l’aeroporto di Mogadiscio. E’ la terza volta che atterro in citta’ ed e’il mio quarto viaggio in questa devastata capitale. Sono di nuovo in Somalia.

La mia esperienza somala e’ iniziata nel novembre del 2006 lavorando una decina di giorni in una Mogadiscio sotto il controllo delle Corti Islamiche, un gruppo islamista formato da politici e signori della Guerra. Le Corti son riuscite a controllare gran parte del paese per diversi mesi, finquando la comunita’ internazionale ha deciso di rimuoverle, sguinzagliando decine di migliaia di truppe Etiopiche in un invasione del paese passata completamente inosservata dalla comunita’ internazionale.

Il giorno di Natale del 2006 ero in macchina di ritorno con la mia fidanzata ed un’altra coppia di amici, da un tranquillo week end in un parco nazionale etipico, paese in cui vivo, quando dalla radio accesa, tra due canzoni di musica tradizionale, il primo ministro del paese, Meles Zenawi ha dichiarato che la notte precedente la sua aeronautica militare aveva iniziato a bombardare l’aeroporto di Mogadiscio.

Tutti noi giornalisti ed umanitari ci aspettavamo che gli etiopici prima o poi invadessero la Somalia, ma di certo non alla vigilia di Natale.

Forse tutti abbiam peccato di naivite’. Forse ci saremmo dovuti aspettare che gli etiopici usassero le stesse tecniche e la stessa retorica del loro piu caro alleato all’estero, gli americani. Quale miglior momento per iniziare una guerra se non l’unico giorno dell’anno in cui tutti gli occidentali sono troppo impegnati a festeggiare con amici e familiari per preoccuparsi di tragedie africane.

Appena finite le parole del primo ministro etiopico sono rimasto un attimo in silenzio, a contemplare per qualche istante quella pace che sapevo essere gia svanita.

Nella mia mente potevo gia’ immaginare i campi di battaglia in Somalia, gli attacchi aerei con elicotteri da combattimento russi, resi tristemente celebri nella campagna contro l’Afghanistan, ed acquistati dagli etiopici in grandi quantita’.

Gia’ potevo sentire nella mia testa I colpi d’artiglieria sparati in mercati e zone altamente popolate da civili. Gia’ potevo vedere i carri armati etiopici puntare i loro impauriti cannoni mirando ad un’insurrezione incontrollabile, risulato di un affrettata campagnia militare per eradicare I soliti “terroristi”. Mi sembrava gia’ di vivere la crisi umanitaria che inevitabilmente avrebbe prodotto la guerra, di ascoltare I pianti delle donne, le urla dei bambini, e migliaia di faccie impaurite e disperate.

Due giorni dopo, il 27 di dicembre, alle 530 del mattino mi trovavo, macchine fotografiche alla mano, ad una base dell’aeronautica etiopica per prendere un volo militare con un gruppo di giornalisti diretti a Baidoa, la capitale politica del paese.

A Baidoa, giusto due giorni prima, gli etiopici avevano combatutto una delle piu’ cruente battaglie della campagnia militare, contro migliaia di miliziani lanciati all’attacco dalla leadership delle corti Islamiche, gia in fuga da Mogadiscio, certe di una ovvia ed immediata sconfitta.

Mi ricordo di aver cenato, giusto qualche mese prima con Inda Adde, il leader militare delle Corti. Mentre finiva tutto da solo, con spedite forchettate, quello che doveva essere un piatto per tre di aragostine, acquistate a prezzi esorbitanti da me ed il giornalista con cui lavoravo per il nostro ospite, ci raccontava di come le sue milizie avrebbero fermato l’invasore etiopico se mai si fosse azzardato ad entrare nel paese. Di come tutto fosse gia organizzato.

Durante l’invasione etiopica Inda Adde era alla Mecca in pellegrinaggio. Strana coincienza.

E’ cosi’ che mi si sbobbina in testa la mia esperienza somala. Incontri con potenti di turno, che si sa prima o poi, se gli americani non li fanno fuori con qualche missile Cruise, tornano in citta’ ad alzar la voce. Lunghe ore in quattro per quattro dai vetri oscurati, tenendo un occhio per una possible foto, un altro per qualcosa di inusuale, segnale della tipica “imboscata somala” in cui gia’ troppi giornalisti sono caduti vittima.

I Somali se han deciso di farti fuori, almeno finora, non ti vengono a prendere in albergo con passa montagna brandendo armi automatiche. Non sequestrano la gente e dopo qualche ora mandano alle televisioni un video di propaganda con il sequestrato che legge qualche comunicato. I Somali mettono in scena una vera e propria “operazione di improvvisazione teatrale” in mezzo al traffico. Gli autisti che mi hanno sempre accompagnato ne sono molto coscenti, avendo spesso lavorato per vari Signori della Guerra costantemente sotto il mirino di oppositori.

Quando sei obbligato a rallentare perche’ un carretto ti spunta davanti, e dopo un istante una donna anziana inizia lentamente ad attraversare ed un camioncino appare dal nulla bloccando tutto, allora inizi a pensare che da un momento all’altro tizi spuntati dal nulla iniziano a spararti raffiche di mitra in macchina. Il driver inizia a clacsonare all’impazzata, brandendo la solita pistola e cercando di muoversi dall’ingorgo. Di solito e’ solo il traffico e la scorta armata, dopo qualche istante d’allerta con le sicure abbassate, si rilassa e ti guarda con un sorriso di conforto come per dire, “stavolta non ci hanno fatto fuori”.

Arrivati a Baidoa, pochi giorni prima del capodanno 2007, dopo qualche giorno passato a far foto per l’Associated Press, agenzia con la quale collaboravo occasionalmente in passato, mi ha raggiunto un amico giornalista collaboratore per il magazine L’Espresso. Immediatamente abbiamo messo insieme una crew per andare giu’ a Mogadishu.

A cose del genere siamo tutti abituati. Trovare un tipo di cui ti puoi fidare, il quale trova un driver con macchina di cui ci si puo’ fidare ed una scorta armata relativamente seria. Il tutto in un paio d’ore, a volte anche meno. E via per strada.

Una strada che al momento credo si potesse definire tra le piu pericolose al mondo. Membri del TFG, il governo provvisorio somalo supportato dagli etiopici, ci avevan piacevolmete informato che tratti erano stati minati non si sa da chi. Le corti islamiche avavano non si sa quante milizie in giro sul territorio e gli etiopici stavano chiudendo su Mogadishu con intere divisioni corazzate e di fanteria. Come al solito, in mezzo a tutta sta roba, c’era un fuori strada grigio con due giornalisti sottopagati, al momento piu preoccupati di coordinare la storia con Roma e Milano che delle mine, i carri armati, il fuoco amico e nemico, che tanto e’ uguale, ed orde di ladri che sparano alle macchine per appropriarsene ovviamente facendo fuori tutti gli occupanti.

Tempo che la macchina e la crew e’ pronta si fa pomeriggio e finiamo per spendere diverse ore viaggiando di notte. Verso le 2230 siamo a 40 km da Mogadiscio, con le truppe etiopiche alle nostre spalle. Il giornalista ed io ci guardiamo e consultando il nostro fixer ed il resto della squadra decidiamo di entrare in citta’.

Non si vede un’anima in giro. C’e’ da dire che i Somali purtroppo sono molto abituati a vivere in condizioni di guerra costante. Si sanno muovere, sono fantastici a prevedere dove e’ il pericolo ed a raccogliere informazioni essenziali alla loro sopravivenza.

Arriviamo al solito Sahafi Hotel ( in arabo sahafi vuol dire giornalista ) al KM 4 di Mogadiscio e ci accoglie il solito staff che gia conosciamo bene. Da li in poi, solite cose di Mogadiscio.

Una nitida memoria che ho della citta’, e che come moltre altre mi accompagneranno per sempre, risale alla mia prima passeggiata nel Vecchio Porto, un quartiere distrutto dalle varie battaglie che si sono susseguite dopo la caduta del regime di Siad Barre nel 1991. Il livello di distruzione e’ spaventoso. Non c’e’ un metro quadrato di facciate dei palazzi che non siano state trivellate da proiettili di vario calibro e da colpi d’artiglieria della marina Americana. Ad un certo punto mi son trovato in una piazza circondata da alti edifici per lo piu’ tenuti insieme dai pochi pilastri rimasti. Camminavo sui detriti delle facciate. Dopo qualche centinaio di metri sono entrato in uno dei palazzi. Il nostro fixer mi racconta con molta nostalgia, che in passato il posto era una famosa discoteca. Mi affaccio e vedo il vecchio porto, oggigiorno usato da pochi pescatori. In un piccola insenatura decine di bambini si tuffano ta le macerie cercando un po di frescura nel mare. Giocano felici. Mi guardo intorno e per un attimo mi sembra una visione davvero impossibile. La gente tira avanti, vive, cerca di condurre giornate normali, fatte di spese al mercato, chiaccherate in famiglia, scuole, addirittura bagni al mare.

Era la mia prima volta a Mogadiscio. La citta’ era piena di gente. Le corti la controllavano. Abbiam passato la maggior parte del nostro tempo passeggiando, anche per il Bakara Market, tra due foto e due chiacchere.

Oggi la citta’ e’ deserta. La maggior parte della gente l’ha abbandonata di nuovo, come fece nel 92 quando Signori della Guerra cominciarono a farsi battaglia.

Adesso il Bakara Market e’ inacessibile per un giornalista europeo. Pochi mesi dopo la caduta delle corti ci e’ giunta notizia che la resistenza stava armando ragazzini con pistole con l’ordine di sparare a qualunque sospetto cercasse di avvicinarsi a quella che adesso e’ una delle roccaforti dei gruppi armati che combattono gli invasori etiopici ed il governo provvisorio somalo, loro alleato.

E’ passato un anno e mezzo da allora, e le cose sono solo peggiorate.

Son tornato da Mogadiscio a fine Aprile, dopo averci passato un po piu di una settimana, lavorando per Focus, un settimanale Tedesco, ed ospite di un organizzazione no profit che si e’ presa cura di noi, garantendocci un discreto accesso alla citta’.

Le Nazione Unite stanno dichiarando che la crisi Somala e’ la peggiore in Africa. Al momento peggiore del Darfur e l’Est Congo. Nell’est del Congo sono morte 5.4 milioni di persone, sempre secondo le Nazioni Unite, per cause dovute alla guerra che ancora sta distruggendo la regione. In Darfur sono piu’ di due milioni gli sfollati e con i combattimenti ancora in corso si parla di genocidio, una parola difficile da pronunciare per la diplomazia mondiale.

La Somalia sta li’, come la piu’ grave crisi tra le crisi Africane. Son convinto che molta gente in Europa ed America non sa nemmeno che in Somalia ci siano problemi.

Noi si va. E si continua ad andare. Lavorare in Somalia e’ difficile, ma non importa. E’ necessario andarci. Lo si deve al quarto di milione di sfollati che vive appena fuori da Mogadiscio. Lo si deve a tutta la gente vittima del “warlodismo” e dalla politica mondiale, che ha costruito il mostro somalo, ormai fuori controllo.

Le Nazioni Unite sono convinte che la situazione in Somalia continuera’ a peggiorare.

La maggior parte dei pochi giornalisti che vanno in Somalia sono daccordo.

L’anno scorso, a fine nevembre sono andato in Yemen a fare una storia sui rifugiati Somali che attraversano lo stretto di Aden in piccole barche da pesca con la speranza di lasciarsi alle spalle l’incubo somalo. Ogni mese ci provano in migliaia.

Molti alle coste Yemenite non ci arrivano mai. I trafficanti umani, commercianti di vite, caricano le barche molto al di sopra delle loro capacita’. Bastano un paio di persone in piedi per far ribaltare la barca in mezzo al mare. Il viaggio puo durare fino a 5 giorni, in cui I trafficanti, cercando di aggirare controlli internazionali e guardia costiera yemenita. Si perdono regolarmente finendo diverse centinaia di miglia ad est. Il cibo finisce in fretta, l’acqua scarseggia dopo appena un giorno di viaggio. Chi si alza viene bastonato, a volte gettato fuori bordo.

I barcaioli decidono di scaricare il loro carico umano in Yemen quasi sempre di notte, per paura di essere arrestati dalla polizia yemenita per traffico umano. Cosi molte barche si ribaltano tra le onde a poche decine di metri dalla spiaggia, in piena notte. E’ tragedia.

Nei pochi giorni che ho passato sulle coste Yemenite ho aiutato a tirar fuori dall’acqua decine di corpi di Somali annegati in piena notte.

IL partener locale delle Nazioni Unite che si occupa della prima accoglienza dei rfugiati, ha contato 85 morti su 110 occupanti della barca arrivata quella notte.

I sopravvissuti, che aiutavano la ONG a recuperare I corpi, mi raccontavano in lacrime: “Quello e’ mio fratello, si’ ecco mia sorella. Mia madre”.

Quale deve essere il livello di disperazione per rischiare la morte per scappare dal proprio paese?

In due anni di lavoro somalo sono stato sempre fortunato a lavorare con bravissimi giornalisti per ottime pubblicazioni. Abbiam sempre pubblicato. Ci e’ sempre stato dato ampio spazio. La difficolta’ pero di sensibilizzare quelli che il fotografo freelance chiama “clienti”, che sono le riviste, pero’ e’ sempre presente.

E’ difficile creare una relazione tra il mondo in cui viviamo noi altri occidentali e situazioni come la Somalia. Troppa sofferenza, troppa disperazione e soprattutto troppo “know how” necessario per avere una minima comprensione dell’evento.

Sarebbe interessante chiederci perche’ diamo cosi’ tanta importanza a catastrofi naturali e cosi poca a crisi di interi paesi. Credo che molto riguardi la facilita’ con cui lettore, o piu’ spesso lo spettatore, visto che ormai la TV impera, riesca a relazionarsi con il ciclone o il terremoto che uccide migliaia di persone in un colpo solo piuttosto che con la crisi umanitaria che devasta un’intera regione, consequenza di intrigate vicende politiche. Guerre su guerre, colpi di stato, colonialismo del passato e dei nostri giorni, decisioni dei potenti che si ripercuotono su milioni di persone, vittime di alleanze andate male e guerre fuori controllo, di cui qualcuno trova sempre di cui beneficiare. Tutte cose davvero difficili da spiegare in 5 minuti di TG.

Guy Calafè un fotogiornalista freelance di stanza in Addis Abeba, capitale dell’Etiopia. E’ nato in Italia nel 1978. Ha passato l’infanzia tra l’Italia e gli Stati Uniti. Nel 1997 si trasferisce a Milano, dove studia e lavora fino al 2003 quando consegue la laurea in Scienze della Comunicazione con una tesi sulla semiotica della fotografia della Guerra in Vietnam. Nel 2002 segue un corso di fotografia professionale a Milano. Nel 2004 inizia a collaborare con l’agenzia WpN, realizzando servizi in Palestina, Sudan, Ciad, Sri Lanka, Etiopia, Afghanistan e Iraq. Nel 2007 termina la sua collaborazione con WpN e adesso è rappresentato da un network di agenti. Si interessa di temi sociali e di conflitti internazionali. Sta attualmente lavorando su commissione soprattutto in Africa.

Sue immagini sono pubblicate da Vanity Fair Italia, USA e Germania, L'Espresso, Le Figaro Magazine, Paris Match, National Geographic, Le Point, GQ Italia, Der Spiegel, US News & World Report, Newsweek, USA TODAY, Specchio, Max Germania, The New York Times, Time Magazine, D, Cicero e Stern.