Quanto sono belli i server di Google

  • didascalia: Il data center di Google a Pryor, in Oklahoma: secondo le rivelazioni Nsa e Fbi avrebbero accesso diretto ai server dei colossi del web
  • firma: foto non firmata
  • fonte: La Stampa 08 06 2013 - prima pagina

A margine della lettura del recente volume “La mia fotografia” di Grazia Neri (Feltrinelli, 2013), vorrei ritornare sulla questione dei cosiddetti “crediti fotografici”, questione già più volte trattata in questo sito, anche in comparazione con quanto avviene all'estero, e anche in relazione a petizioni da noi sostenute e che anche nel volume citato viene rapidamente affrontata a pagina 268. Grazia Neri, che si appoggia nel suo commento anche alla lunga citazione di un articolo di Laura Leonelli apparso sul Sole24ore, riassume così le motivazioni che stanno alla radice del motivo per cui secondo lei le fotografie sui mezzi di informazione dovrebbero sempre riportare il nome del fotografo:

“Poveri fotografi, privati dell’unica cosa che può dare loro un’identità. Perché la firma accanto a una fotografia pubblicata? Per far conoscere la propria evoluzione professionale ai photo editor che possono procurare lavoro (non dimentichiamo che un fotografo è un free-lance), per rendere disponibile l’origine della fotografia per altri usi (il fotografo vive di fotografie ripubblicate), per la soddisfazione personale come premio della sua fatica, per renderci uguali agli altri paesi del mondo.”

Dunque, per Grazia Neri, tutto ruota intorno alla sopravvivenza materiale, all’esigenza di pubblicità, alle aspirazioni di carriera e alle gratificazioni del fotografo. Oltre che per fare come fanno gli altri media nei paesi più civili. Stop.
Così facendo, però, a mio avviso si rischia di cogliere solo uno degli aspetti connessi con l'opportunità - e anzi la necessità - di conoscere i nomi e cognomi dei fotogiornalisti autori delle foto pubblicate, assieme al nome dell’agenzia che eventualmente li distribuisce. Infatti nei nostri precedenti interventi su questo sito abbiamo sempre sottolineato un altro, e a nostro avviso almeno altrettanto - se non ancor più importante - motivo per far conoscere al lettore chi ha scattato una determinata fotografia. Partendo dall’osservazione che una fotografia è una testimonianza di prima mano da parte di chi è stato in un determinato luogo, dove ha potuto guardare attentamente gli eventi e ne ha saputo trarre delle immagini “significative”, l’esigenza di chi  intende ricavare utili informazioni dall’analisi di quelle immagini – il lettore, appunto - è di sapere chi abbia operato quegli inevitabilmente parziali “prelievi visivi” e abbia optato per quelle, in certa misura personali, trascrizioni bidimensionali.
Due quotidiani italiani nei giorni scorsi, quasi a supporto involontario di questa tesi, hanno fornito due esempi quasi da manuale di quanto qui sostenuto.

Primo esempio.
Sulla prima pagina de La Stampa dell’8 giugno 2013 appare in taglio medio un’ampia immagine (su quattro colonne) che, ci spiega la didascalia, è stata fatta al “data center di Google a Pryor, in Oklahoma”. Il titolo dell’articolo che la foto è chiamata ad illustrare è “Spiati web e carte di credito” e riprende le rivelazioni del giorno precedente da parte del Guardian e del Washington Post sul cosiddetto “Datagate”e sul programma denominato Prism della National Security Agency statunitense per raccogliere, analizzare e schedare le comunicazioni planetarie e i dati personali dei cittadini con la attiva collaborazione di Microsoft, Yahoo, Google, Facebook, Pal-Talk, Aol, Skype, Youtube e Apple. La scelta de La Stampa è dunque stata quella di scegliere tra i nove colossi della rete internet, uno dei più “longevi”, appunto Google, e suggerire l’argomento di cui si sta parlando attraverso l’anonimo, futuribile e un po’ inquietante scorcio di una “server farm”.

La foto ha una didascalia, ma non ha un autore (a proposito, gentile direttore Mario Calabresi, il suo lodevole impegno a pubblicare i crediti delle foto solennemente annunciato lo scorso anno presso la Fondazione Forma per la Fotografia, che fine ha fatto?). Incusiositi, cerchiamo tra le pagine degli altri principali quotidiani. Il Corriere della Sera, che pure dedica ampio spazio al tema, non utilizza immagini, con l’eccezione di un paio di ritratti del presidente degli USA Obama, di Glenn Greenwald, autore dello scoop sul Guardian e di Evgeny Mozorov, studioso degli effetti sociali dell’uso delle nuove tecnologie.

  • firma: Foto: ANSA
  • fonte: Repubblica 08 06 2013 - pag 4

La Repubblica, invece, dedica al tema le pagine 2, 3 e 4. A pagina 4 troviamo la stessa immagine pubblicata dalla Stampa in prima pagina, ma la foto, che, stranamente per Repubblica, è firmata (si fa per dire, c’è scritto soltanto FOTO: ANSA) non ha invece alcuna didascalia. O meglio, in sovrimpressione sull’immagine su un fondino colorato con il titoletto “La Polemica”, c’è il seguente testo: “L’amministrazione Obama è sotto accusa per aver “spiato” email, telefonate, spese della carta di credito dei cittadini.” Non è una didascalia, è un sommarietto, che poco ha a che fare con il contenuto visibile dell’immagine.
Quindi, ricapitolando, La Stampa ci dice cosa rappresenta la fotografia ma non chi l’ha fatta. La Repubblica non ci dice che cosa stiamo vedendo, ma ci dice che l’agenzia che la distribuisce è l’ANSA. Non ci vuole molto a scoprire che in realtà la fotografia, assieme a molte altre scattate all’interno di vari Data Center di Google in giro per il mondo, è liberamente scaricabile dal sito di Google, nelle pagine dedicate ai data center e in particolare, per l’immagine pubblicata, dal sito dedicato alla descrizione del centro della Contea di Mayes, in Oklahoma.

Quindi, a essere precisi, scrivere che la fonte è ANSA non solo significa non fornire alcuna informazione utile, ma addirittura rischia di far credere al lettore che un qualche  fotografo dell’agenzia sia stato mandato a fotografare un qualche luogo dove si trovano delle misteriose macchine, che forse solo gli esperti sono in grado di riconoscere come batterie di computer.

La scelta dei due quotidiani è dunque una scelta di scarsa trasparenza, perché non fornendo i nomi degli autori delle immagini, o fornendoli sbagliati o incompleti, e non dicendo - in un caso - di cosa si tratti, pone il lettore nella spiacevole situazione di non sapere esattamente cosa abbia di fronte e che livello di attendibilità abbia quella testimonianza visiva. Scrivere invece nella didascalia “immagine distribuita gratuitamente da Google, tratta dal sito tal dei tali” avrebbe chiarito al lettore molti dubbi, avrebbe arricchito l’informazione disponibile e avrebbe dato un segnale – controcorrente - che nei giornali le immagini sono trattate con la stessa attenzione, cura e anche cautela che normalmente viene riservata alle parole. Avrebbe anche svelato che la scelta è stata fatta a partire da una valutazione molto comune nei giornali italiani: spendere per le immagini il meno possibile, idealmente nulla. In questo caso, trattandosi di immagini dell’ufficio stampa di Google, il costo è stato, appunto, pari a zero. (Avendo l'abbonamento ad ANSA la cosa non cambia, ovviamente, essendo il contratto a forfait). Ma una scelta di questo tipo non è una scelta neutra e imparziale. Tra i nove colossi della rete citati negli articoli e ricordati sopra, è stato scelto certamente uno dei più grossi e rappresentativi, Google, ma non certo l’unico. Perché infatti non scegliere fotografie dei server di Facebook, che immaginiamo non meno imponenti, dato il flusso planetario di dati che deve quotidianamente gestire o anche di Microsoft, che pure non avrà più il suo quartier generale nel garage dal quale Bill Gates iniziò la sua avventura, potendo oggi contare su qualcosa di più sofisticato del PDP-11 della Digital Equipment Corporation su cui smanettava nel 1968. La risposta è, ancora una volta, tanto semplice quanto disarmante: si è scelto di pubblicare le immagini più facili e meno costose. In questo caso immagini anche gradevoli dal punto di vista visivo.

  • didascalia: Gente in piazza a Qusayr dopo la riconquista da parte dei governativi. La foto è dell’agenzia ufficiale di stampa siriana.
  • firma: Foto: AFP
  • fonte: Repubblica 11 06 2013 - pagina 19

Secondo esempio.
Il giorno 11 giugno 2013 l’articolo di Repubblica che si occupa dell'offensiva militare in Siria delle forze fedeli al presidente Bashar al-Assad utilizza come immagine portante, che occupa cinque colonne su sei della pagina, una foto di folla pacifica e trionfante (uomini, donne, giovani con bandiere siriane, pochi soldati, un ritratto di Assad affisso sulla facciata di un palazzo sullo sfondo) che si appoggia a questa didascalia: “Gente in piazza a Qusayr dopo la riconquista da parte dei governativi. La foto è dell’agenzia ufficiale di stampa siriana.” E, più in piccolo sull’angolo in basso a destra, il credito “Foto: AFP”.


Dunque, tradotto per i meno esperti: l’AFP non è l’agenzia ufficiale di stampa siriana. E’ invece l’agenzia France Presse, che evidentemente in questo caso ha deciso di distribuire la fotografia che la propaganda, pardon, l’ufficio relazioni esterne, del presidente Assad ha deciso di fornire ai media occidentali per testimoniare la ripresa della città di Qusayr, a pochi chilometri dal confine con il Libano. In questo caso La Repubblica fa un buon servizio al lettore, fornendogli nella didascalia l’informazione che quella foto che ha davanti agli occhi non è una testimonianza visiva indipendente, una foto di Associated Press, o di Reuters, o di un fotografo del Washington Post o di Liberation, ma la foto messa in circolazione da una parte direttamente interessata a fornire la sua versione dei fatti. Peccato che confonda poi il lettore scrivendo invece che si tratta di una foto AFP, che pure è un'agenzia di informazione indipendente.

Ritornando all’incipit dell’articolo, faccio qui un benevolo rimbrotto a Grazia Neri: quando si parla di firma delle foto, non è in ballo tanto il narcisismo del fotografo o la sua semplice visibilità e quindi anche sopravvivenza sul mercato, ma è in discussione piuttosto la trasparenza, la credibilità e la verifica delle fonti di informazione, princìpi generali che agli studenti di giornalismo vengono insistentemente inculcati, per quanto riguarda i testi scritti, fin dal primo giorno di lezione. Al contrario, per quanto riguarda le immagini, purtroppo, questo non avviene quasi mai.

In conclusione, non si può non notare come sui giornali ci sia una confusione che regna sovrana quando si tratta di pubblicare immagini giornalistiche. I parametri che determinano questo stato di cose sono sempre gli stessi: scarse risorse (economiche, professionali e umane) messe a disposizione da parte degli editori, scarsa consapevolezza dell’importanza di citare le fonti, anche nel caso delle immagini, e quindi scarsa percezione dell’importanza della didascalia e del credito, che dovrebbe sempre informare il lettore su chi è il fotografo e quale è l’agenzia che distribuisce la foto.

  • didascalia: Chicago, Stati Uniti
  • firma: Michael Wolf
  • fonte: Internazionale 14-20 giugno 2013 - pagine 34.35

Vogliamo provare ad aggiungere una nota positiva a questa ennesima lamentazione? Eccola: il settimanale Internazionale dedica il suo articolo di copertina al tema del programma Prism di cui abbiamo parlato nel nostro primo esempio. La scelta del periodico è speculare rispetto a quella di molti giornali: anziché provare a illustrare "gli spioni", prova a immaginare "gli spiati". E per fare questo utilizza da pagina 34 alcune immagini di Michael Wolf tratte dalla sua serie "The Transparent City". D'accordo, pur sempre di illustrazione si tratta, ma almeno il lettore sa esattamente cosa ha davanti agli occhi: il lavoro di un artista che ha riflettuto sulle nostre esistenze diventate permeabili allo sguardo panottico di chi controlla i flussi informativi. E poi, scusate: che immagini!

 

Marco Capovilla