Photoshop or not Photoshop?

  • didascalia: Frankenstein's monster (Boris Karloff)
  • fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Frankenstein%27s_monster_(Boris_Karloff).jpg
  • nota: Quest'opera è nel pubblico dominio perché pubblicata negli Stati Uniti fra il 1923 e il 1977, inclusi, senza un avviso di copyright.
C'era una volta una camera oscura nel seminterrato d'una villetta di Ann Arbor nel Michigan: se l'era allestita Glenn Knoll, professore e fotoamatore. Ma dai primi anni ottanta, era suo figlio Thomas, fotoamatore pure lui, a starsene sempre chiuso là sotto a stamparsi le foto nella "dad's darkroom". Nel 1984 il professor Knoll si comprò uno dei primi Apple 2° plus , e subito l'altro suo figlio John, appassionato d'informatica, ne prese possesso. Era potente il nuovo "dad's personal", aveva ben 64k di ram, ma non era in grado di visualizzare e gestire la scala dei grigi: qui ci serve una subroutine, pensò John, cioè un supplemento al programma di base. Non basta, pensò Thomas: qui si tratta di simulare e sostituire uno ad uno tutti gli strumenti di camera oscura: sviluppi bacinelle ingranditore marginatore filtri viraggi taglierine smaltatrici eccetera. Bisogna buttare via tutto, anche il pennellino per spuntinare: via! E bisogna fare presto, perché altri, in California, sono sulla stessa strada. Un anno dopo, un prototipo chiamato "display" era pronto. Nel febbraio del 1990 Photoshop1.0. era in vendita.

Thomas Knoll ha continuato ad occuparsi dei successivi aggiornamenti del programma; il fratello John è andato a Hollywood, consulente informatico per Mission Impossible, Star Trek, Star Wars, The Fantom Menace eccetera; il professor Knoll ha sgomberato il seminterrato della sua villetta in Michigan e ha continuato a fare il professore.
Nei vent'anni trascorsi da quel febbraio del 1990 il marchio Photoshop s'è caricato di significati estranei al mondo lindo e asettico dei software grafici, fino a imparentarsi con un altro nome famoso, sinonimo di manipolazione innaturale: il nome del dottor Frankestein, o se preferite come lo pronunciava Gene Wilder nel film di Mel Brooks, Frankenstine.
Mary Shelley aveva 19 anni e si trovava in Svizzera, presso Ginevra, la notte d'estate del 1816 in cui vide, come poi rievocò lei stessa: "a occhi chiusi ma con una percezione mentale acuta, il pallido studioso di arti profane inginocchiato accanto alla cosa che aveva messo insieme" …un'orrenda sagoma, quasi vitale, composta con pezzi di cadaveri dissotterrati: una cosa terrificante… "perché terrificante sarebbe stato il risultato di un qualsiasi tentativo umano di imitare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo."

Le atmosfere gotiche si sono dissolte al sole della Silicon Valley, eppure proprio da quelle parti Photoshop è stato soprannominato "killer app", applicazione assassina e l'immagine digitale che essa gestisce è stata ribattezzata "immagine ogm", modernissimo sinonimo di "arte profana" da satanista blasfemo. Forse ce lo siamo scordato, ma l'avvento dell'immagine numerica fu accolto con toni millenaristici: “Il passaggio al numerico istituisce una frattura nel principio (della fotografia) equivalente all’arma atomica nella storia degli armamenti o alla manipolazione genetica in biologia” scrisse Debray nel 1992. E Fontcuberta nel 1996: l'immagine digitale “è un cavallo di Troia: si infiltra dietro le mura della credibilità per assegnare alla fotografia il colpo decisivo”. Queste e altre profezie apocalittiche sono state scovate da Michele Smargiassi e inserite nel suo libro "Una perfetta bugia" (Contrasto Editore), in cui dimostra, con numerosi esempi, che la fotografia non ha mai conosciuto un'età dell'innocenza e della pura verità, nemmeno prima della rivoluzione digitale. Ha conosciuto, questa si, un'età della buona reputazione, in gran parte immeritata e abusiva, perché già allora la fotografia sapeva mentire e lo faceva con disinvoltura. La tecnica analogica certo non impediva ritocchi, ritagli, aggiustamenti e fusioni equivalenti a quelle poi facilitate e legittimate dalle palette. Non era l'età dell'innocenza quella analogica; era l'età dell'ipocrisia, perfettamente espressa da questa frase di Lewis Hine: "la fotografia non sa mentire, ma i bugiardi hanno imparato a fotografare." Era l'inizio del novecento e se la foto allora mentiva, lo faceva ancora con discrezione e bon ton, per non turbare la credulità dei gonzi. Al loro sguardo acritico e ingenuo le foto dovevano apparire come specchi o finestre.

Oggi la situazione è diversa e Smargiassi la descrive così: “Da qualche tempo sta succedendo qualcosa, non è ancora ben chiaro cosa; un vento di perplessità scuote, facendosi pian piano convinzione di massa, il paradigma della verità automatica”. "Convinzione di massa": ecco il punto decisivo e attualissimo. Oggi lo sanno tutti che il re è nudo (che la foto è artificio), perché sono (siamo) tutti fotografi, e tutti guardiamo le immagini con sgamato cinismo: e non vediamo la verità nemmeno quando, forse, c'è.
Insomma: “la fiducia nella verità ontologica della fotografia, quella ormai è demolita per sempre” scrive Smargiassi, che poi cita la sentenza definitiva di Franco Carlini: "nell’epoca del digitale la presunzione di verità della fotografia deve finire.” Lo studioso d'informatica aveva difeso il diritto del quotidiano "Il Manifesto" a taroccare pesantemente una foto per adattarla a un pezzo d'apertura: tagliando via un personaggio quella foto diventava più semplice e chiara: più adatta all'opinione da illustrare, e certo meno rispettosa del presunto "fatto". Carlini mandò così a dire che quella, come qualsiasi altra fotografia digitale, era solo un puzzle smontabile e rimontabile a piacimento. Con l'impunito e impunibile Photoshop, ovviamente.

Ma su cosa si era fondata, in passato, quella "presunzione di verità"? Chi aveva raccontato per primo il mito della verità fotografica? Da dove era uscito quel fantasma ormai quasi evaporato? La prima traccia del mito sta, credo, in questa antica sentenza: “La contemplazione delle cose come sono, senza sostituzione o impostura, senza errore o confusione, è in sé la cosa più nobile di un’intera messe di invenzioni” : ancora lui, Francesco Bacone, con il suo citassimo slogan o profezia per i fotografi di buona volontà.
Era l’inizio del 1600, l’alba della rivoluzione scientifica, quando il filosofo inglese la scrisse. Allora egli stava osservando con metodo i fenomeni naturali per registrarne le cause sufficienti, mentre Galileo Galilei, di due anni più giovane, osservava la superficie della luna, osservava il moto del pendolo, osservava i satelliti di Giove e altro ancora. I due pionieri della rivoluzione scientifica procedevano a vista; lo sguardo era il loro strumento scientifico, e il cannocchiale ne era un prolungamento affidabile. Una macchina-che-contempla-e-registra-le-cose-come-sono sarebbe stata per loro molto utile, ma non esisteva ancora: passeranno quasi due secoli e mezzo prima che ne sia costruita una. E quando fu costruita, ci si accorse che non era uno strumento scientificamente affidabile, perché troppo soggettivo e inattendibile e, in una parola, troppo umano. Potrà servire alla ricerca della verità? ci si chiese.

Da allora, fino a oggi, di cosa si parla quando si parla di fotografia? Gira e rigira, sempre di verità si parla, in un tormentone diventato patetico nell'era di Photoshop, strumento perfetto per stendere un lucido velo di glassa sulle cose e una maschera di cerone sulle facce di chi partecipa a quella "immensa buffonata contemporanea che è l'immagine, intesa come lo sforzo da guitti di sembrare ciò che non si è e non si sarà mai" come ha scritto Michele Serra. Strumento più grottesco che colpevole di grandi menzogne, Photoshop agevola un progressivo slittamento dell'informazione verso un servile eufemismo… e poi verso un ottimismo coatto… e poi verso una beata irrealtà. Certi fotografi e certi direttori e art director e photo editor sanno bene, da uomini o donne di mondo, in quali casi convenga astenersi da Photoshop: quando la verità fotografica nuda e cruda offre già sufficienti appigli al gossip e alla diffamazione; e quando non è opportuno lasciare ai soggetti ricattabili tracce di taroccamento fotografico. Perché il gioco sporco richiede, per paradosso, assoluta limpidezza e genuinità fotografica.
Un paio di fotoreporter americani, inviati in Iraq, sono stati licenziati per abuso di Photoshop, in osservanza all'antica regola che dice punirne uno per educarne cento; una regola che non ha mai promosso la moralità, più di quanto abbia promosso la ricerca di trucchi più sofisticati per sfuggire ai moralisti. E, a parte i ritocchi finali, quante menzogne basiche ci sono nelle più veraci foto di guerra?

Alla fine del suo libro Smargiassi fa una proposta che mira a salvare il potere di testimoniare della fotografia documentaria e infine il suo ruolo sociale. In pratica, egli dice, si tratta di “trasferire l’onere della verità (del suo riconoscimento) dalle spalle deboli del medium, alla razionalità forte del fruitore, che è l’autentico costruttore del significato dell’immagine”. Funzionerà?
Il tema della verità non si dibatte solo nel ristretto mondo della fotografia, ma domina anche fuori, nel vasto mondo della politica e della filosofia. Se leggete "Addio alla verità" di Gianni Vattimo, trovate, nelle ultime pagine, che “al venir meno delle verità assolute… si dà verità solo come manifestazione di una comunità, piccola o grande che sia: la comunità locale, la comunità degli scienziati, la nostra classe politica, la classe…”, e poi che "non c’è esperienza di verità che non sia interpretativa". Ne riparleremo, forse.

Mi fermo qui. Anzi no: aggiungo come post scriptum una frase di Levi Strauss; poche parole leggere, geniali e forse vere davvero: “Noi non confondiamo le fotografie con la realtà, ma le preferiamo alla realtà, perché non sopportiamo la realtà, ma possiamo sopportare le immagini.”

Piero Raffaelli