Philip Gefter

Photography after Frank

Tutti i giorni alle 4,30 del pomeriggio, al quarto piano di un grattacielo sulla 43esima strada di Manhattan, si incontrano una ventina dei migliori giornalisti al mondo. Quelli che decidono l'agenda delle notizie che domineranno il dibattito culturale e politico a livello globale nei giorni seguenti. Si tratta del Page One Meeting del New York Times. Accanto ai caporedattori delle principali sezioni, c'è, o meglio c'era, avendo da poco lasciato il suo ruolo di scrittore e picture editor, anche Philip Gefter, Picture Editor della prima pagina.

Philip Gefter è anche critico e autore della raccolta di articoli riuniti sotto il significativo titolo “Photography after Frank”, che già introduce la tesi principale da cui muove la sua riflessione: l'opera del fotografo svizzero ha segnato uno spartiacque, che consente di individuare un prima e un dopo nella storia della fotografia. In questo “dopo”, gran parte delle barriere di genere e di utilizzo sono definitivamente cadute e la fotografia può senza imbarazzo nè remore essere documento neutro, espressione personale, reportage umanista, arte, giornalismo e comunicazione.

Il libro è diviso in capitoli aperti da introduzioni che permettono ai lettori di orientarsi nei diversi ambienti in cui Philip Gefter ci introduce, alla scoperta di autori emergenti o celebrati, dei meccanismi della comunicazione, del collezionismo e dell'arte.

Nell'introduzione vengono individuate le tendenze che da quella rivoluzione hanno preso le mosse, dal documentario, che ha nei Becher e negli allievi della scuola di Düsseldorf come Thomas Ruff e Andreas Gurski i suoi principali e contemporanei epigoni. Accanto a questi è sempre vivo il documentario sociale che da Garry Winogrand arriva all'opera di Martin Parr. Documentario che spesso si è interessato ai margini, alla cultura underground, come nelle opere di Bruce Davidson e Danny Lyon, Diane Arbus e Larry Clark, per giungere agli esiti diaristici e di narrazione in prima persona, in cui sfumano i confini tra vita e arte, con Nan Goldin, Wolfgang Tillmans e Ryan McGinley. Racconto in prima persona che ha rivolto la propria attenzione verso la famiglia, con Emmet Gowin, Larry Sultan, Richard Billingham. Gefter infine individua un'ultima area di indagine, in cui si trovano le opere che hanno messo al centro della rappresentazione il ritratto e il corpo umano, da Avedon a Peter Hujar, Rineke Dijkstra, Katy Grannan.

Il capitolo dedicato al documentario analizza il lavoro di star dell'arte contemporanea, come i coniugi Becher, autori fondamentali per la storia della fotografia non solo americana, come Lee Friedlander, con cui si apre il libro, Joel Sternfeld, Richard Misrach e Stephen Shore, infine giovani emergenti come Ryan McGinley, ovvero documentaristi meno noti, come William Christenberry, con la sua documentazione dell'architettura popolare americana. Un capitolo a parte viene dedicato al cosiddetto documentario costruito, che analizza le opere che combinano intenti documentari e costruzione degli scenari, svelando le ambiguità del mezzo e della sua rappresentazione.

Il centro del libro, anche da un punto di vista fisico, è proprio l'intervista – dialogo dell'autore con Véronique Vienne, in cui viene analizzato il lavoro del photo editor di un quotidiano importante come il New York Times. Un lavoro affascinante, complesso e raffinato quello di Philip Gefter, che precisa l'obiettivo ultimo del proprio lavoro con poche e chiare parole: “Vorrei che chi nel futuro si trovasse tra le mani una copia del New York Times di questi anni possa comprendere come è la vita oggi”. Questa dichiarazione di intenti viene vissuta come una responsabilità, nei confronti della pubblica opinione e dei lettori. Il criterio non è evidentemente solo estetico e le considerazioni necessarie alla pubblicazione di un'immagine muovono sempre dall'importanza dell'evento e dalla pubblicabilità, che tiene conto della linea editoriale del giornale, nonchè dei possibili riflessi sulla scena politica nazionale e internazionale. Come responsabile della fotografia per la prima pagina, Gefter deve ovviamente conoscere le notizie e le immagini prodotte dalle grandi agenzie come Reuters, AFP e AP, e dai fotografi di staff in assignment per conto delle diverse sezioni, da quella esteri a quella metropolitana. Il criterio di base è, anche per le foto, il rispetto delle 5W del giornalismo classico, anche se l'obbiettivo è quello di usare una fotografia che non sia semplicemente illustrativa, ma che sia in grado di illuminare la pagina grazie alla propria forza, offrendo un punto di vista e una chiave di lettura inedita e sorprendente. La differenza, forse ovvia, ma spesso non pienamente compresa dagli esperti del linguaggio scritto, è che se la parola agisce a un livello cerebrale, l'immagine ha prima di tutto un impatto emotivo sullo spettatore, che deve successivamente razionalizzare e contestualizzare questa prima sensazione.

Con questa intervista a fare da premessa, Gefter analizza il mondo del fotogiornalismo, dall'opera di singoli autori, al significato stesso e alla missione della professione di fotogiornalista o di photo editor. Il punto fondamentale, da cui è impossibile prescindere per definire un'opera fotografica anche giornalistica, è la determinazione del contesto, necessario per ancorare un'immagine al suo significato più profondo rispetto a quello meramente simbolico. La differenza tra giornalismo e arte comincia infatti già nelle intenzioni, laddove l'arte scaturisce dalla contemplazione delle idee, il giornalismo comincia dai fatti e dagli eventi.

Dopo questi sentiti capitoli, in cui è evidente l'autobiografia e l'esperienza diretta, Gefter passa ad analizzare il lavoro di tanti ritrattisti, con una critica particolarmente acuta e poco tenera rivolta all'opera di Annie Leibovitz e significativamente intitolata “A photographer's lie”. Infine due capitoli portano il lettore ad esplorare i mondi del collezionismo e del mercato. Nel primo si segnala l'importanza storica e culturale delle collezioni pubbliche e private per la conservazione, lo studio e la trasmissione del patrimonio visivo e della storia delle civiltà, sottolineando il ruolo svolto da musei, curatori, collezionisti privati, evidenziando mode ed episodi curiosi. Nel secondo invece si analizzano le caratteristiche che determinano il prezzo di una fotografia: dall'importanza dell'autore a quella dello scatto all'interno dell'opera personale e della storia della fotografia, dalle condizioni della stampa alla collezione in cui è inserita o il mercante che la commercializza, dalla rarità e alla presenza della firma dell'autore. Gefter non nasconde il ruolo determinante esercitato dai gusti personali di eccentrici milionari o abili speculatori, a proprio agio in un mercato che non ha nulla da invidiare all'alta finanza e che segue, con qualche zero in meno, le medesime regole del più vasto e generale mercato dell'arte, di cui la fotografia fa, finalmente, pienamente parte.