Ignacio Maria Coccia

Kosovo

“Ho attraversato in autobus Croazia, Bosnia e Serbia, teatro dei sanguinosi conflitti degli anni 90, per arrivare infine in Kosovo, dove sono terminati, per sempre si spera, gli anni dell'odio feroce che ha dilaniato i balcani occidentali. Di fronte a me ho trovato una situazione complessa, in cui non potevo, nè volevo, essere coinvolto e che ho deciso pertanto di raccontare da osservatore esterno”. Così Ignacio Maria Coccia mi introduce al suo bel libro, in cui oltre alle sue fotografie, si possono leggere i testi di Raffaele Coniglio, Renata Ferri ed Ennio Remondino, che, dopo la prefazione ufficiale dell'ambasciatore italiano a Pristina Michael L. Giffoni, introducono le immagini. Aprire con i testi bilancia la scelta radicale e potenzialmente rischiosa di usare nel corso del libro le immagini senza didascalie nè testi di accompagnamento. Di solito queste operazioni vengono definite cinematiche, per la relazione con una visione priva della mediazione della parola scritta e tipica del cinema. Potenzialmente pericolosa perchè evitando i testi si corre il rischio di non dare gli elementi di contestualizzazione spesso necessari a comprendere davvero una serie fotografica.

In realtà Ignacio Maria Coccia non è interessato alla cronaca, non riporta notizie, piuttosto suggerisce le atmosfere di un paese alla ricerca di un'identità, ancora fragile socialmente, politicamente, economicamente e culturalmente.

Sfruttando la precarietà e la semplicità del mezzo fotografico, Ignacio Maria Coccia riesce a mostrare la fragilità di un territorio in cui non sono finiti i soprusi, vittime oggi i serbi e, come sempre, come ovunque, i rom, e dove è in atto una trasformazione radicale del territorio e dell'ambiente, con terreni sottratti all'agricoltura, che ancora oggi impiega una grande parte della forza lavoro, e consegnati alla speculazione edilizia, nelle mani della criminalità organizzata dedita al riciclaggio di denaro, testimoniato dall'incongruo numero di pompe di benzina nel paese. Ignacio racconta anche del contradditorio tessuto sociale che ha trovato: “Ho incontrato da entrambe le parti persone interessate alla pace, come gruppi più attenti a rivendicare i propri diritti. Però sono fiducioso, ho conosciuto volontari che lavorano nelle zone più calde, dove la pacifica convivenza tra serbi e albanesi è davvero quotidianamente minacciata, ma dove si iniziano a vedere segnali di possibili soluzioni”.

Nelle foto si vedono persone sole o in piccoli gruppi in cammino, in transizione, come il paese intero; persone che si muovono in uno scenario in cui niente sembra finito, tutto precariamente costruito o rattoppato. Il cielo è grigio, piove o nevica, sono sempre presenti animali che vivono liberi, insieme agli uomini, senza separazioni o confini. Un paese che non trova un centro dunque, tra contadini inurbati, minoranze diffidenti e discriminate, moschee e minareti a cui si contrappongono chiese e monasteri abitati da severi pope di rito ortodosso. Uno stato che vive il paradosso storico e politico di essere in maggioranza musulmano e di avere negli Stati Uniti i principali alleati e sostenitori, contrapposto ai presunti difensori della cristianità, gli orgogliosi e nazionalisti serbi del Kosovo, increduli e risentiti per il fatto che lì l'occidente cristiano abbia preferito appoggiare dei musulmani. Un paese che nasce da una guerra e da un conflitto etnico e religioso recente e sanguinoso non può che vivere oggi una difficile stagione di ricostruzione.

L'impressione che si ricava dalle fotografie è che questa stenti a trovare un'armonia e un senso e stia avvenendo disordinatamente, dilaniata dalle lacerazioni del passato e ferita dalle contraddizioni del presente, a cui si aggiunge una realtà architettonica in cui si mescolano razionalismo socialista, fai-da-te contadino e individualista e speculazione mafiosa, a cui è difficile dare un senso e un amalgama. La fretta nella ricostruzione potrebbe far sorgere uno stato gobbo, storto, poi difficile da raddrizzare. A cui poi i politici, come diceva Andreotti, cuciranno un abito su misura, storto e gobbo anch'esso. Anche in questo caso le parole del fotografo confermano le immagini: “La questione territoriale e quella identitaria si mescolano. Il monastero di Decani ne è l'esempio più chiaro. Si tratta di un monastero ortodosso, costruito tra il 1327 e il 1335, che costituisce la prova tangibile che gli ortodossi abitano il Kosovo da secoli. Questo luogo deve essere presidiato costantemente dalle forze militari, perchè minacciato dagli albanesi kosovari, in maggioranza musulmani”. Questione territoriale, etnica, religiosa dunque, dove storia e fede vengono usate come clave nell'arena della politica, eterno pretesto per conflitti fratricidi, tra popoli che per secoli hanno vissuto a fianco.

Ma a martoriare oggi il Kosovo oggi c'è pure l'inqinamento, laddove la povertà, l'arretratezza tecnologica e la speculazione concorrono, minacciando l'equilibrio dell'ambiente. Ci spiega ancora Ignacio che “se il fenomeno più evidente è la centrale termoelettrica di Obelic, che inquina tutta Pristina, a rendere malsani in gran parte del paese l'acqua, l'aria e il suolo ci pensano le migliaia di generatori elettrici per uso domestico, necessari laddove la rete elettrica funziona a singhiozzo” .

Un'identità e una sintesi sono difficili da trovare e nelle fotografie la precarietà delle situazione, gli sguardi e le persone sfuggenti dicono quanto lavoro ci sia ancora da fare. Una soluzione è però possibile, la offre Ignacio al centro del libro in una doppia pagina con due fotografie di un'interno che una sua tranquillità l'ha certamente trovata nell'arte, nella musica. A sinistra un pianoforte accanto a una finestra, a destra un ripiano con un vaso di fiori, uno spartito incorniciato e appeso al muro e un ritratto di Johann Sebastian Bach. Il rumore delle strade, la confusione del Kosovo in costruzione sembrano spariti, qui si percepiscono il silenzio e finalmente una serena normalità. La razionale semplicità di questo appartamento, che ben si lega alla costruzione musicale di Bach è lontana da fanatismi, odii etnici e razziali, ma anche dal disordine e dal caos delle strade e dei paesaggi kosovari. La musica sinfonica rimanda direttamente a un universo culturale europeo, in cui si possono incontrare diversi di tutte le religioni e di tutte le etnie. La musica, un elemento di unione, di tolleranza e di pace. Non a caso tra i principali simboli dell'Unione c'è il suo inno, l'adattamento dell'ultimo movimento della Nona Sinfonia di Beethoven. “Nelle mie intenzioni le due immagini dovevano proprio trasmettere questo senso di pace, di tranquillità e di normalità e magari offrire una possibile via di uscita al conflitto, per mezzo della musica, dell'arte”, così conclude Ignacio la breve intervista.

A chiudere il libro invece, significativamente, un container delle contestate forze NATO della KFOR, ancora oggi necessarie a tenere insieme il paese; appollaiato sopra un uccello, forse un corvo. Federico Della Bella