Il quotidiano inglese The Guardian partendo dalle fotografie del soldato israeliano che tenta di arrestare un ragazzo con un braccio ingessato fa il punto sulla la situazione del conflitto israelo-palestinese. Analizzando i soggetti che compaiono nelle immagini - le parti in causa - ricostruisce il contesto del fatto fornendo al pubblico strumenti per formarsi un’opinione.
Pochi giorni fa, il 2 settembre, mi è capitato di guardare l’edizione UK, per il Regno Unito, del Guardian. A pagina 20, nella sezione International - come dire gli Esteri di un quotidiano italiano - quattro drammatiche fotografie ben impaginate sovrastano un titolo che al contrario delle immagini non grida e propone spiegazioni: Le immagini virali della West Bank offrono una finestra sulla complessità del conflitto.
La fotografia principale, è quella di un soldato israeliano accovacciato che tiene bloccato con le gambe un ragazzino mentre è assalito e strattonato da un uomo, due donne e una ragazza.
Avevo già visto questa situazione in un video, qualche giorno prima, era il 29 agosto, sul sito de la Repubblica.it preceduto dall’avvertenza “le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità”; titolo Cisgiordania, video shock: il soldato e il ragazzino. Accanto, in circa 900 battute, una specie di lunga didascalia raccontava i fatti. Il giorno dopo l’edizione cartacea - sezione Mondo - pubblicava due foto del fatto accompagnate da un breve testo non firmato intitolato Il soldato e la lotta con il ragazzino sul web la rabbia dei palestinesi. Anche qui si fa la cronaca del fatto; in un inciso del discorso si dice che il video è diventato virale ma senza spiegare “la rabbia sul web”.
La tradizione italiana vuole che nelle pagine di Esteri le notizie che meritano di essere pubblicate siano solo quelle in cui sono coinvolti connazionali. Il 31 agosto la Stampa pubblica a pagina 14, in Estero, la foto del soldato che immobilizza il ragazzo insieme all’immagine dell’arresto di un attivista, Vittorio Fera, italiano appunto. Per il portavoce del Movimento di Solidarietà Internazionale, organizzazione in cui milita Fera, il nostro «tentava di documentare l’attacco ad un ragazzino palestinese». Il pezzo, del corrispondente da Gerusalemme Maurizio Molinari, è peraltro ben documentato. Storicizza la vicenda del villaggio di Nabi Saleh segnalando che il New York Times ne ha parlato da tempo come possibile origine di una nuova Intifada; riporta le versioni contrastanti delle parti, per raccontare infine che il connazionale “potrebbe essere espulso nelle prossime ore”.
Il Guardian inizia il suo articolo con un breve sommarietto “Un ragazzo è arrestato, una ragazza morde un soldato, e via social-media l’incidente diventa un avvenimento globale, scrive Peter Beaumont”; poi nel pezzo sottolinea che “Nelle 24 ore successive, le fotografie e il video del tafferuglio ripreso da un altro membro della famiglia diventano virali, spingendo al commento sia media israeliani che internazionali come i siti pro israeliani e quelli pro palestinesi.” La domanda centrale che si pone Beaumont è “cosa hanno mostrato le immagini?”. Quello che colpisce rispetto ai costumi della stampa nostrana è che il punto di partenza è la notizia della diffusione virale del video: non altro. Nell’analisi si parte quindi dalle fotografie del fatto e dal loro contenuto informativo - esplicito ed implicito - per arrivare al perché della diffusione virale.
I soggetti delle fotografie sono i protagonisti della storia: la famiglia palestinese Tamimi che vive nel villaggio di Nabi Saleh e che è di fatto la promotrice della “protesta contro il furto della loro terra e dell’acqua da parte degli israeliani che vivono negli insediamenti di Halamish”; la Forza di Difesa di Israele (IDF) che descrive il fatto “come un violento attacco al militare”; le “manifestazione del venerdì nella West Bank (…)[che] Seguono lo stesso schema, spesso finiscono con lanci di sassi da un lato e l’esercito israeliano che risponde con i gas lacrimogeni, arresti e proiettili di plastica o anche veri.”
Che le manifestazioni seguano sempre uno schema fisso lo dice anche il fotoreporter della AFP Abbas Momani, autore delle tre fotografie che fanno da contorno a quella principale di Mohannad Darabee. Il Guardian non le ha firmate probabilmente perché sono state tutte tagliate per aumentarne la drammaticità. Nella pagina del sito dell’agenzia di stampa dedicata al dietro la notizia Making-of/les coulisse de l’info il fotoreporter che lavora da Ramallah usa praticamente le stesse parole del giornalista aggiungendo però l’espressione “il gioco del gatto con il topo” riferita a IDF e palestinesi.
Tornando al Guardian, l’articolo, dopo aver elencato equamente posizione filo-palestinesi e filo-israeliane, conclude sottolineando come le immagini siano “efficaci, perché illustrano il lungo dramma dell'occupazione. Parlano dell’asimmetria del conflitto. E parlano anche di Israele che sta gradualmente perdendo la battaglia globale della narrazione dell'occupazione sotto la spinta dei social media che possono trasformare un unico incidente in uno scandalo internazionale.”
Come logico rispetto ai tempi di lavoro di una redazione il 1 settembre sul sito del giornale inglese era già uscita con il titolo Le immagini di Nabi Saleh illustrano l'asimmetrico cambiamento del conflitto israelo-palestinese, una versione lunga dell’articolo, sempre a firma Beaumont. Il pezzo è arricchito ovviamente dei link e grazie allo spazio a disposizione, di alcuni elementi - anche fotografici - sui protagonisti.
Mentre il titolo recita “Le immagini di Nabi Salih illustrano il cambiamento asimmetrico del conflitto israelo-palestinese”, il sommario anticipa la tesi finale del pezzo “Foto e video della famiglia alle prese con il soldato che cerca di arrestare il loro figlio mostrano come il potere dei social media sta sfidando la forza militare”.
Anche nella sezione Opinioni, sempre sul Guardian, messa online il 3 settembre, Ori Nir, ex corrispondente dal West Bank per il giornale israeliano Haaretz e oggi membro dell’organizzazione americana Peace Now, scrive nel suo sommario che “Il video virale del soldato israeliano che cerca di arrestare un dodicenne con il braccio ingessato è un esempio di come la tecnologia stia guidando il cambiamento dell’opinione pubblica”.
Le fotografie sono state scelte tagliate e impaginate sopra il titolo a formare una piccola, drammatica, sequenza che racchiude il fatto di cronaca; lanciano un allarme al lettore a cui però segue un’analisi circostanziata che abbraccia i protagonisti e il loro campo d’azione - la famiglia Tamimi e la IDF - insieme al nuovo potere assunto dalle immagini attraverso i social-media.
Credo che al Guardian ci sia la consapevolezza del proprio ruolo nella formazione dell’opinione pubblica, concetto comune nella cultura anglosassone e da sempre al centro del mondo giornalistico insieme a quello, complementare, di cane da guardia. Di recente si è aggiunta un’altra consapevolezza: quella di essere ormai “affiancati” dai social-media. Gli studiosi di comunicazioni di massa sostengono infatti già da qualche anno che il frame di riferimento, la cornice attraverso cui il pubblico interpreta la realtà e quindi si forma un’opinione, non è più costituita soltanto dall’accumulo delle informazioni fornite dai cosiddetti media mainstream, ma anche dai social-media che spesso hanno una funzione di controinformazione, come nel caso del soldato israeliano e del ragazzo palestinese. Ovvero, ognuno di noi costruisce la propria opinione su un fatto di cronaca, un avvenimento attraverso le informazioni - scritte o per immagini - che ottiene non solo dai giornali e dalle televisioni ma anche da internet.
La consapevolezza di questi cambiamenti si traduce nella pratica, nel nostro caso, nella diversa modulazione di titoli e sommari di articoli composti per l’edizione online rispetto a quella cartacea. Nella prima il sommario parla esplicitamente del potere dei social media che stanno sfidando la forza militare mentre nella seconda si citano le immagini virali per arrivare solo in conclusione di articolo a parlare della loro efficacia nella “narrazione dell’occupazione”. Si tiene conto in sostanza anche di quel pubblico che usufruisce solo del web per formarsi e quindi si riprendono le fila, arrivando il giorno dopo, di quello che i social media hanno già ampiamente diffuso fornendo in più una approfondita contestualizzazione.
Nelle redazioni italiane queste consapevolezze sembrano del tutto assenti. Così il lettore de la Stampa avrà la consolazione di sapere che il connazionale attivista sarà probabilmente soltanto espulso da Israele, mentre quello de la Repubblica online troverà conferme alla sua posizione filopalestinese nella drammaticità di un filmato che forse, peraltro, potrebbe aver già visto su Facebook e quello dell’edizione cartacea troverà una scarna cronaca del fatto che aggiungerà ben poco al suo bagaglio informativo.