Questo articolo parte da una serie di accadimenti personali e autobiografici
su un tema che in realtà ho in mente già da qualche tempo.
Quanto è cambiata la nostra sensibilità espressiva al cospetto delle tecnologie digitali applicate alla fotografia ? Quanto ne ha risentito ( in meglio ) la metrica del racconto ? In fin dei conti : quanti elementi estetici in più abbiamo per la nostra narrativa ?
Il primo pensiero corre alla pittura, al disegno e per spiegare questo di solito mi corre comodo fare un esempio: se per dipingere hai a disposizione una scatola di 30 matite colorate e finalmente
te ne regalano una di 100 che fai, la snobbi ?
Vengo al caso di specie Qualche settimana fa mi viene in mente che sono già “GIA” passati dieci anni dall'attentato alle twin towers e decido di tirar fuori i miei negativi per dargli un occhiata:
è stato uno degli ultimi lavori complessi realizzati con la pellicola in negativo, poi, piano piano a fasi alterne e zoppicando ( non tanto per colpa nostra ma dei primi modelli usciti sul mercato) ci siamo instradati tutti verso il nuovo mondo: niente più carichi di pellicole, niente più diatribe negli aeroporti, niente più spedizioni forsennate con i mezzi più improbabili.
Comincio a guardare i file digitalizzati e mi rendo conto che quei colori, quella grana, quella consistenza fotografica non fa più parte della mia metrica narrativa. Sono passati soltanto dieci anni eppure sembrano secoli . Non sono mai stato un sostenitore forsennato della modernità per il semplice fatto che è inutile contrastarla: mi sono semplicemente adeguato alle novità tenendo la barra dritta verso il racconto, verso le cose che avevo da dire e non dando molta importanza al mezzo con il quale cercavo di esprimerle: per questo ho sempre ritenuto tediosa ed inutile la diatriba digitale vs analogico che, parafrasando potrebbe essere ridicolizzata attraverso l'altro dualismo lettera 22 vs pc portatile:: dimenticando spesso il fine ed esaltando il mezzo, L'atto di....
Guardavo quelle fotografie e quasi quasi non mi riconoscevo più nei suoi colori, mi dicevo che, lasciando pressoché intatta l'inquadratura facevo molta fatica a riconoscermi nella cromia e nell'uso espressivo che se ne può fare. Provo ad aprire le immagini nel mio browser e cerco di dare una sistemata a questa antica congerie di colori, cerco di mascherare alcune zone che vorrei più limpide ( o più sottotono), ma mi accorgo che sto facendo i conti si, con un file, ma che originando da un analogico non ha l'estensione che ha un file Raw: il primo è un elastico che non si estende più di tanto e le cui conseguenze sono sotto i miei occhi . A tirarlo si slabbra, si corruga, comincia a mostrare le crepe. Non ama farsi portare agli estremi limiti (ben inteso al netto consentito dalla nostra etica) Quel file ti determina un campo di azione e lì ti ordina di rimanere con tutti i suoi strani colori che non si saturano come vorresti, con la sua grana che esce quando proprio non ne senti il bisogno.
E' Questa la differenza: mi sono oramai abituato ad una estetica diversa, alle possibilità quasi infinite della scatola da 100 pastelli in un lasso di tempo tutto sommato molto breve. E la cosa non mi dispiace affatto. Non mi sento un orfano. sono cresciuto in uno studio fotografico dove per illuminare un abito da sposa consumavamo dai 30.000 ai 35000 watt di luce, per lavorare inesorabilmente al 125; 56/8. esperienza indimenticabile. E fino a qualche anno fa riuscivo a leggere la luce sul palmo della mano come mi aveva insegnato in un fortunato incontro Marcello Gatti ( la battaglia di Algeri)
Provo a fare qualche esempio: due anni orsono ho accettato un lavoro in Kenya e mi sono ritrovato
a lavorare in condizioni di luce proibitive nelle baracche di Kibera e Korogocho. Il mio occhio impiegava un bel pò di tempo ad abituarsi alle condizioni di luce da
f2,8 un quindicesimo e gli asa tirati spesso a 3200/6400 . Quel lavoro in pellicola sarebbe stato pressoché impossibile ( a meno di portarsi dietro luci ed ammennicoli vari) a condizione quindi di eliminare di netto la spontaneità e l'adattabilità che la reflex ti permette. Allora mi chiedevo, che cosa è importante: l'ortodossia della professione o quello che hai da dire ? Ritornando alla capziosa diatriba di cui sopra, avrei dovuto rinunciare al racconto ? Colleghi mi raccontano dei portenti di alcune macchine fotografiche che sopportano Asa dell 'ordine dei 64000 e più. Che facciamo ? per ortodossia ci diamo un limite e decidiamo che oltre i 6400 non è più fotografia ?
Altra considerazione: la fotografia con la quale il povero Tim Hetherigton ha vinto il wpp nel 2008:
guardatela bene: l'espressione devastata dalla stanchezza e forse dallo sconforto del soldato Americano appartenente al secondo plotone della Compagnia Battle del 503 reggimento di fanteria ( come recita la didascalia) la sua mano che copre parte del viso, la bocca aperta, l'altra mano che sorregge il suo elmetto. la luce fioca e quei toni scuri, polverosi, come da trincea. Sono quasi sicuro che una pellicola non avrebbe risposto allo stesso modo e non ci avrebbe restituito esattamente lo stesso racconto. Sarebbe stata un'altra fotografia, una frase diversa. più dura probabilmente. Eccola qui la dinamica narrativa della scatola da 100 pastelli in tutta la sua potenza. Siamo semplicemente più ricchi, o forse ricchi in modo diverso. Ricchi di raccontare, capaci di sottigliezze narrative che prima erano molto più complicate, quando non impossibili se non attraverso lunghe sedute e estenuanti raccomandazioni al nostro stampatore esperto.
La tecnologia digitale non ha più di 10/12 anni ma è in questi ultimi periodi che comincia a farsi strada una consapevolezza, nascosta, inespressa, da esplorare, alimentata certamente da sempre migliori apparecchi. Abbiamo spostato molto più in la il fronte del buio e di converso le nostre possibilità narrative. Lo strano è che dovremmo riprendere quelle antiche abitudini che i fotografi di studio conoscono bene: la taratura del bianco, il termocolorimetro per gli esterni, la lettura della luce sul grigio medio, per avvicinarci il più possibile in fase di ripresa a quel che abbiamo immaginato e lasciare il meno possibile al caso.
Sfatare anche un bel po' il mito del file digitale che ti permette tutto e se poi quel tutto non funziona ci sono sempre i programmi di ritocco. In realtà i sensori in condizioni di luce “strana” diventato stupidi. Il maledetto flare si spande su tutto il file ed hai voglia tu a ritoccare. L'antidoto a tutto ciò è spesso una buona conoscenza della luce applicata alla pellicola ed i trucchi per addomesticarla. non è vero per esempio che con il digitale puoi lavorare a tempi più lunghi, il sensore ne risente molto di più della pellicola e certe volte mi sembra che quel che era lecito ad un 125° adesso lo è molto meno, e se poi nella foto ci trovi un bel po' mi micromosso, beh, siamo tutti diventati artisti e la licenza poetica ce lo permette. La plasticità e la profondità che ti davano gli strati della chimica te li devi andare a cercare in un altro modo: Ma alla fine l'importante è quel che hai da dire e come lo dici, e come lo dici e la chiarezza e lo stile con cui lo dici dipendono tutti dalla relazione degli elementi in quel maledetto rettangolo. Come la metrica in una poesia, come l'incedere in un romanzo.
Per concludere e tornando alle mie fotografie un po' orfane di colore di dieci anni fa e da cui originano queste considerazioni ho pensato che fosse antistorico e un po' truffaldino cercare di adattarle alla mia sensibilità acquisita nel volgere di questi anni: mi sono venute in mente le famose unità aristoteliche di spazio tempo e luogo e, in un adattamento certamente pirotecnico e poco teatrale mi sono detto che dovevano rimanere come erano: a testimonianza di un tempo “cosi lontano e così inesorabilmente vicino”.