Le notizie non sono merce e nessuno è un mito

  • didascalia: In un ospizio per anziani, Mostar (Bosnia-Erzegovina), 1992
  • firma: Uliano Lucas
  • fonte: Archivio Uliano Lucas

Il testo che segue è la trascrizione di un intervento “a braccio” di Uliano Lucas dal titolo «Il fotografo e il sociale» tenuto il 30 novembre 2012 nel corso del XIX Seminario di formazione per giornalisti a partire dai temi del disagio e delle marginalità, tradizionale incontro annuale sul giornalismo sociale presso la Comunità di Capodarco di Fermo.
Il testo riprende, con qualche modifica richiesta dall'autore, l’articolo già pubblicato nel numero di Gennaio-Febbraio 2013 del periodico Tabloid, edito dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, che ringraziamo per aver concesso la ripubblicazione.

 

 

Ho iniziato a respirare aria di libertà e fotografia a Brera, al Bar Giamaica. C’era un’atmosfera bohémienne, capacità di ascoltare, la possibilità di parlare, ragionare con personaggi straordinari che arrivavano soprattutto dalla provincia. Era quell’emigrazione intellettuale che ha fatto grande Milano. Al Giamaica, ogni tanto, si apriva la porta ed entrava qualcuno, con la valigia di chi è appena arrivato. Poteva essere un poeta che arrivava dalla Sicilia o uno scrittore che arrivava da Bari. Milano è diventata grande per questo. Si discuteva e si giocava a carte - senza farne retorica - con Carlo Gramsci (il fratello di Antonio) con Lucio Fontana o con il mio amico Piero Manzoni, con Castellani. Io ero il più giovane. Ho cominciato a frequentare questo luogo mitico a 16 anni e sono stato subito accettato. Devo dire che in tutta la mia vita ho avuto la fortuna di fare formidabili, grandi incontri. Al Giamaica ho fatto il liceo e l’Università, nel senso che lì ho scoperto Beckett, Ionesco, il cinema americano, e attraverso Fortini, Bertold Brecht, il Surrealismo, il Dadaismo. Ogni sera si poteva fare una discussione incredibile con gente che arrivava da diverse parti del mondo. È in quel contesto che ho scelto cosa fare nella vita.
Il giornalismo degli anni Sessanta in Italia, ahimé, era quasi tutto un giornalismo di “cialtroni”. Andate a sfogliare i rotocalchi degli anni 50-60, che arrivavano a vendere 20 milioni di copie, con un pubblico paragonabile a quello televisivo di oggi: c’erano articoli e argomenti “surreali” su Padre Pio, Sua Maestà, le maggiorate fisiche, i cantanti. Sulla realtà del Paese che era fatta dal miracolo economico, dall’emigrazione di milioni di persone dal Sud al Nord, sul cambiamento delle città, sulle periferie, sui problemi delle donne che entravano nel mondo del lavoro … niente. Assolutamente niente. E soprattutto non si pubblicavano fotografie che documentavano la realtà. C’era una sorta di autocensura. In pratica, non c’era libertà.

  • didascalia: La bonifica dalla diossina, Seveso, 20 febbraio 1977
  • firma: Uliano Lucas
  • fonte: Archivio Uliano Lucas

Il gruppo di fotografi che si ritrovava al Giamaica viveva dei proventi dei servizi di fotografia per i grandi giornali europei. Anch’io ho vissuto per molti anni con i soldi che mi davano alcuni giornali europei. Andavo a Parigi, in Germania e vendevo le mie fotografie. In Italia non si vendevano, non si pubblicavano, perché nei giornali c’era grande conformismo. Poi la borghesia progressista ha fondato l’Espresso e con il Mondo e l’Europeo è cambiato qualcosa. Io e i miei amici abbiamo trovato la nostra collocazione e abbiamo lavorato a lungo con questi giornali. Ho scelto di fare il freelance in un Paese come il nostro dove non c’è cultura della comunicazione visiva. Il nostro è un Paese che è analfabeta sulle fotografie. I giornalisti negli Stati Uniti, in Germania e in Francia escono dall’università. Da noi la fotografia non si insegna nell’università, non si insegna nei licei, non si insegna nelle scuole di giornalismo. La fotografia è ancora controllata dal direttore. Allora io ho fatto un calcolo semplicissimo quando ero ragazzo. Ho detto io voglio vivere con poco e libero. Negli anni 70 e 80, anni di grandi conquiste civili, finalmente si è potuto fare del giornalismo libero, perché in quel momento storico la società era in fermento e anche noi fotografi potevamo partecipare a questo cambiamento. Ci sono stati periodi in cui ho lavorato intensamente per i quotidiani, alternati a periodi in cui non lavoravo, facevo libri, facevo mostre. Facevo l’agitatore, senza miti. Perché il Giamaica e tutto quel mondo mi ha insegnato a non avere miti, né nella fotografia né nel giornalismo. Viaggiavo molto (viaggi di 15-20 giorni, a volte di mesi) con grandi giornalisti, di cui sono stato compagno di stanza. L’obiettivo comune era raccontare la realtà, i fenomeni sociali. Oggi si viaggia per produrre merce.

  • didascalia: Alcune immagini tratte dal Calendario Pirelli 2013
  • firma: Steve McCurry
  • fonte: http://www.pirellical.com/2013/

Faccio un esempio. C’è un calendario, il Calendario Pirelli, di cui si fanno mille copie con nudi straordinari fatti da fotografi di grande talento e capacità. Evidentemente il nudo non tira più e Pirelli ha deciso di fare un altro tipo di calendario fotografando donne brasiliane impegnate nel sociale. È stato chiamato un fotografo del National Geographic. Un fotografo che va per la maggiore, tra l’altro molto conosciuto anche in Italia. Ha fatto un reportage. Ma questo è un fotografo che produce e non fa informazione. Produce della merce. Io ho visto queste foto: sono bellissime signore brasiliane fotografate anche nelle favelas. Ma non sono la realtà. Eppure su tutti i giornali italiani ci sono state intere pagine scritte da giornalisti che hanno raccontato di essere stati invitati a Rio de Janeiro, ospiti del Calendario Pirelli per scrivere del Calendario Pirelli, non delle favelas. Praticamente un viaggio premio, non un reportage sulla realtà sociale del luogo. Ci sarebbe da vergognarsi. Chi è stato nel Terzo Mondo come me, sa che sarebbe impossibile per un fotografo fare una campagna pubblicitaria per una nota marca di caffè senza considerare le centinaia di bambini costretti a lavorare per terra in ambienti malsani in India, in Africa o in Sud America. E invece ci sono anche grandi fotografi che fanno campagne pubblicitarie con bellissime donne indiane che raccolgono chicchi di caffè. Allora vuol dire che c’è qualcosa che non funziona.

  • didascalia: Stabilimento dell'industria Alfa Romeo, Arese, 1978
  • firma: Uliano Lucas
  • fonte: Archivio Uliano Lucas

Le prime fotografie di immigrati in Italia le ho fatte nel 1969 a Mazara del Vallo. A Mazara c’era già una forte colonia di emigrati tunisini. L’ho raccontato, (nel 1977 poi ho fatto un libro per Einaudi). Quando si andava a fotografare lo sciopero della Fiat, non si fotografava il corteo e basta, si andava alla Fiat per cercare di capire da dove arrivavano i 50-60.000 operai, come arrivavano, i lucani, i calabresi come era cambiata la città, i loro gruppi, i loro clan, la formazione politica, dove vivevano, in che tipo di periferia, Nichelino e altri posti simili. Si fotografavano le donne della Fiat, le donne operaie. Erano inchieste fatte da dentro una realtà sociale, vivendo dentro quella realtà. Questo l’ho fatto anche negli ospedali psichiatrici con Basaglia, l’ho fatto con i bambini down, con le persone con disagio sociale, vivendo con loro. E per fare questi servizi occorreva del tempo, lunghi viaggi, magari vivendo in pensioni, da amici e viaggiando in seconda classe, aiutati dalla solidarietà degli altri. Per cui l’unico reportage ancora vivo, reale, di documentazione dell’Ilva di Taranto è quello che ho fatto io nell’82, quando sono riuscito ad entrare nella fabbrica e ci sono stato una settimana. E allora c’era già tutto il disastro di oggi. Bastava solo scegliere le foto. Perché il problema è anche questo: do le mie immagini agli altri ma solo se le controllo. Quando lavoravo all’Europeo, sempre da freelance, controllavo di fianco all’impaginatore la messa in pagina delle mie foto. Non vendevo le foto come le agenzie, come la maggioranza dei fotografi oggi. Come merce. La fotografia che faccio non è merce è parte della mia storia. Per raccontare gli ospedali psichiatrici, le fabbriche, gli immigrati, bisogna vivere con loro e dentro i loro luoghi, anche se sono luoghi chiusi per antonomasia. I miei reportage nascono sempre dal dialogo. Se vivo con l’operaio divento suo amico. Non basta la foto dell’operaio sporco con la tuta. Devo andare a casa sua, conoscere la moglie, figli, le loro storie. E poi bisogna tornarci, anche dopo il servizio. In tutti i miei racconti, reportage, storie, sono sempre tornato nel corso degli anni sui miei passi.

  • didascalia: Miliziani del Paigc (Partito africano per l'indipendenza della Guinea e di Capo Verde) nella foresta, nelle zone liberate della Guinea-Bissau, 1970
  • firma: Uliano Lucas
  • fonte: Archivio Uliano Lucas

Io sono sempre stato convinto che per capire una fotografia ferma (al contrario di quella in movimento che è la TV) bisogna essere colti, non colti perché si è fatto l’università ma colti perché una fotografia ti dà tanti riferimenti. Ti rimanda al cinema, alla poesia, alla pittura. Più la guardi più ti si apre la mente, ti rimanda a storie diverse. Perché la fotografia ha una costruzione, un alfabeto. Per questo alcune fotografie diventano delle icone. La fotografia dei soldati sovietici che mettono la bandiera sul Reichstag diventa la fine del nazismo. O la foto del Che Guevara disteso su un tavolo. Sono delle foto potenti. Ma perché potenti? Perché rimandano a quello che abbiamo in mente, alla grande pittura del ‘300, del ‘500 e ‘600. Le foto del Vietnam sono un altro esempio di questo. L’esodo dal Kossovo preso dall’alto da un fotografo americano, da una collina, con i profughi che arrivano a migliaia. Perché ha avuto fortuna? Sembrava la grande storia di Ben Hur del cinema, l’esodo degli ebrei. Una buona fotografia ti fa fare dei “rimandi” ad altre storie che abbiamo già dentro. Un tipo di fotografia così bruciante che ti rimanda alle case popolari, mafia, storia di Palermo o altro, oggi nessun giornale le pubblica. Se ne guardano bene perché dentro hai la notizia cruda ma reale, dentro hai una storia. Questo è il potere, la forza dell’immagine. E di questo potere si ha paura. Ma per raccontare una notizia bisogna viverci dentro.

  • didascalia: Maifestazione nazionale contro il razzismo, Roma, 7 ottobre 1989
  • firma: Uliano Lucas
  • fonte: Archivio Uliano Lucas

Il giornalismo italiano è sempre stato un giornalismo di élite. E fino agli anni ‘80 nessuno ragionava sulla trasformazione dell’editoria, del giornalismo. Tantomeno di fotogiornalismo. Fino al 1975 i fotoreporter non erano neppure iscritti all’Ordine dei giornalisti. Eppure all’interno delle redazioni (Domenica del Corriere, Epoca etc) c’erano decine e decine di fotoreporter che viaggiavano con il giornalista, ma con un salario da impiegati. I fotoreporter erano in stanze lontane dalla redazione. Ci fu una battaglia feroce da parte di un piccolo gruppo di fotoreporter (me compreso) tra cui grandi personaggi come Franco Pinna,  Andrea Nemiz e Maurizio Bizziccari che hanno dato battaglia e sono riusciti, tramite una sentenza della Comunità Europea, a fare entrare i fotoreporter nell’Ordine dei giornalisti. Ma ancor oggi l’Italia è un Paese che per certi versi dipende totalmente dall’informazione straniera. L’80% delle immagini pubblicate sui giornali italiani proviene delle grandi agenzie straniere, con fotografi anche bravissimi, americani e inglesi soprattutto. Ma un Paese così privo di fonti autonome e così estero-dipendente è un Paese che balbetta. Guardate la guerra dei Balcani. Sapete che a Sarajevo c’era un unico giornalista che parlava il croato? Ed era del Piccolo di Trieste. Eppure il nostro paese aveva 6 milioni di persone che andavano a fare le vacanze in Iugoslavia perché costava poco. Non si conosceva nulla della Iugoslavia di Tito, le traduzioni di scrittori iugoslavi erano pochissime, il teatro, la pittura, l’architettura non si conoscevano. Questo vi dice tutto. Quotidiani come il Corriere della Sera, la Repubblica, Il Sole 24 Ore, la Stampa non hanno un corrispondente fisso in Africa. In America Latina ci sono 3 corrispondenti mentre a New York ce ne sono una dozzina. È così che un giornale come Le Monde batte tutti gli italiani perché nell’America Latina di corrispondenti ne ha cinque ed è un giornale che tira 350mila copie. Ma è un signor giornale frutto della grande tradizione della patria di Cartesio. In Italia no. In Italia, è noto, non abbiamo l’editore puro. Qui gli editori hanno altri interessi. Non siamo un Paese con una storia editoriale come in Francia, Germania, Inghilterra, Svezia. Come editori di quotidiani abbiamo sempre avuto costruttori, finanzieri, la Fiat, le banche che intendono i giornali in funzione di qualcosa d’altro. Con alcune fortunate eccezioni, come la nascita del Giorno e della Repubblica che hanno rotto il monopolio di allora. Ma, alla fine, i problemi sono rimasti. In Italia c’è bisogno di voci nuove, di sguardi nuovi. E anche di nuovi reporter.

  • didascalia: Il pozzo "cantante" di Dubluk, Etiopia, 2007
  • firma: Uliano Lucas
  • fonte: Archivio Uliano Lucas

Prendiamo come esempio la guerra in Siria. Lì c’è un’agenzia come la Reuters che manda un fotografo e investe su di lui. Le sue foto, dopo pochi minuti, sono nella sede di Londra e da Londra si scelgono 3 o 4 foto delle 10 ricevute, e vengono immesse in rete. Quelle foto andranno su 800 quotidiani nel mondo, quotidiani che si possono permettere l’abbonamento alla Reuters o France Presse. In Italia se lo possono pagare solo 4 quotidiani, i 4 più ricchi. Il Giornale di Siracusa o la Gazzetta del Mezzogiorno o il Giornale di Palermo hanno solo l’Ansa e basta. Bisogna aver presente queste cose quando si parla di giornalismo, bisogna conoscere l’ingranaggio della comunicazione. Altro esempio: Sarajevo. Era una città assediata perché l’Europa l’aveva abbandonata. C’è stato un assedio da Medioevo e il sangue era quello che volevano i giornali. La guerra del golfo del ‘92, invece, è andata male ai grandi giornali perché non c’è sangue. Il sangue, la retorica del bambino. Pensate all’Africa che è raffigurata sempre con i bambini con la pancia gonfia. Nessuno fa un reportage sull’Università di Dar es Salaam in Tanzania che è una delle migliori università africane. Nessuno va nel Senegal a Dakar dove c’è un’altra Università, con 10.000 studenti, che è straordinaria. A Dar es Salaam c’è una scuola di giornalismo notevole. Nessuno racconta della nuova borghesia africana delle nuove case che trovi da Maputo in Costa d’Avorio. Oggi c’è anche un’altra Africa, della borghesia, di scrittori, di poeti, di cinema, di fotografi. Io ho fondato una scuola di giornalismo a Maputo negli anni 80, dopo le guerre di liberazione. È una scuola che funziona ancora. Perché l’ho fatto? Mi sono sempre domandato perché l’informazione in Africa la fa la Reuters e non la fanno le agenzie africane. Perché l’informazione dell’America Latina la fa France Presse e non la fa la Presse Latina ? Perché sono fuori dal mercato per cui l’avvenimento in Nicaragua è un avvenimento fotografato da un fotografo americano inserito nel circuito della comunicazione mondiale.

  • didascalia: Assalto all'Università Statale occupata, Milano, 24 novembre 1971
  • firma: Uliano Lucas
  • fonte: Archivio Uliano Lucas

Io credo sempre di più che il sistema di comunicazione così come è organizzato è un grosso pericolo per la democrazia. Perché non riesci a difenderti e non sai da dove ti arriva il materiale. Per noi era più facile. Anche se le fotografie degli ospedali psichiatrici o degli operai, negli anni 70 nessuno te le pubblicava. Le prime fotografie di un interno di una casa operaia, di come viveva un operaio è del 1973 nel nostro Paese. Le pubblicò Tempo Illustrato diretto da un bravissimo giornalista, Nicola Cattedra. Life fu il primo giornale americano che pubblicò nel 1937 (anno in cui nasce) un grande reportage su una famiglia operaia americana. La fotografia oggi, in Italia, non viene utilizzata come dovrebbe, perché gli editori italiani e i giornalisti non hanno mai capito nulla della fotografia. Per formazione culturale. Il fotogiornalismo nasce in Germania negli anni Venti. Il Berliner Illustrierte aveva un supplemento nel 1925-26 che tirava 500 mila copie. Il giornalismo con la fotografia delle origini si relaziona a una cultura industriale, che noi non abbiamo avuto. Noi abbiamo avuto venti anni di fascismo e poi un potere che è stato sempre attentissimo verso la scrittura, ma soprattutto al controllo delle immagini, che continua ancora oggi.

  • didascalia: Brigate del lavoro, Albania, 1970
  • firma: Uliano Lucas
  • fonte: Archivio Uliano Lucas

E’ su questo che c’è da discutere da ragionare, oggi, tra i ragazzi che vogliono fare giornalismo. Perché se non sei alfabetizzato, se non sai interpretare quel che ti succede intorno, sei perdente. I giovani reporter che pensano di entrare nelle grandi agenzie straniere uscendo da scuole italiane dequalificate o da circoli amatoriali sono matti. Alla Columbia University si fa giornalismo fotografico e poi si viene catapultati in giro per il mondo , con una terribile selezione. Un’agenzia come la Reuters prende i migliori e gli fa fare degli altri corsi per un anno. I giovani reporter devono conoscere la complessità dell’informazione, sennò saranno sempre lì a barcamenarsi, una guerra tra poveri . Però mi domando anche: ma il caporedattore, gli inviati, gli opinionisti dei giornali di questa borghesia progressista italiana, non vedono la situazione in cui versano le nuove generazioni di giornalisti? Tu caporedattore che lavori accanto a un precario e usi il suo lavoro precario, non sei un po’ complice? Evidentemente a te caporedattore va bene un sistema così. Il sistema della comunicazione è un sistema chiuso. In questo sistema chi ci perde è la democrazia. Oggi c’è un gran bisogno di un sistema nuovo, di informazione nuova, fresca, giovane. Allora i ragazzi devono capire che questo sistema nuovo si costruisce con un po’ di utopia. Oggi i giovani reporter devono avere il coraggio di fare da soli. Costruendo, credendoci, entrando nel mercato. Oggi ci sono nuovi mezzi, nuovi sistemi. Non state ad aspettare dagli altri cose che potete fare voi. Sennò monta la rabbia e perdete di vista il ruolo principale che è quello d’informare e raccontare la realtà, che è un ruolo sociale. Questo è fare il giornalista. Non ve lo fanno fare? Allora inventatevelo! A me è andata bene e ho sempre voluto essere un uomo libero. Se ci credete, andrà bene anche a voi.

 

Uliano Lucas