Troppe fotografie

Tutti i quotidiani italiani di sabato 4 settembre per raccontare i fatti di Beslan, in Ossezia, hanno pubblicato un numero di fotografie nettamente superiore alla media. La quantità di immagini fornite dalle agenzie di stampa nella giornata del massacro è stata considerevole e di buona qualità. Nelle redazioni ci deve essere stato l’imbarazzo della scelta.

Ho sempre sostenuto che la fotografia giornalistica nella stampa può offrire uno sguardo in più sulla stessa realtà raccontata dai giornalisti, e le fotografie di Beslan oltre a testimoniare alcuni attimi degli accadimenti, ci raccontano meglio di molte parole - se prese singolarmente - la sofferenza e lo smarrimento dei bambini, o la solidarietà, la tensione, il dolore e tutta quella gamma di sentimenti riconoscibili attraverso i gesti e l’espressione dei volti. Il problema nasce quando - nell’impaginazione - la rappresentazione visiva di questi sentimenti è reiterata non soltanto nell’arco di pagine che ospitano la copertura dell’avvenimento ma nelle singole pagine. Si scatena un effetto di rigetto nel lettore: si fugge soltanto la cruenta immediatezza delle immagini e si smette di leggere, di informarsi.
Si è colpiti dall’emozione e si tende a passare oltre, a cambiare argomento senza essere stimolati a capire – realmente - quello che è successo a Beslan il 3 settembre. Si leggono i titoli, si scorrono le foto e si va oltre. Dal punto di vista della missione informativa di un quotidiano è controproducente.
Il lettore diventa lui stesso ostaggio quando invece dovrebbe essere messo in grado di mantenere quel minimo equilibrio emotivo che gli permetta la lettura delle cronache e dei commenti; perché possa scoprire dove sta l’Ossezia, che rapporti ha con la Cecenia, perché c’erano gli alunni con tutte le famiglie in quella scuola, chi sono gli spetznaz, eccetera eccetera e alla fine possa costruirsi – per quanto possibile – un prorprio giudizio.

La Repubblica di sabato 4 settembre, apre in prima con una fotografia di "Un soccorritore che porta via un bimbo dall’inferno di Beslan dopo il bliz delle forze speciali" (dida), e guardandola mi manca già un poco il respiro come fossi partecipe dell’affanno di quest’uomo che regge fra le braccia il corpo quasi nudo di un bambino. Nelle successive 11 pagine del giornale vengono pubblicate altre 8 fotografie dello stesso soggetto - soccorritore con bambino seminudo - in cui a variare, di poco, sono solo le espressioni dei volti tutte ugualmente emotivamente forti. E ancora, per la tematizzazione "Storie", alle pagine 6 e 7, sotto al titolo "La morte, la rabbia, il dolore" sono pubblicate due foto di cadaveri allineati e 4 immagini di gesti d’amore verso i bambini morti. Va da se che la Repubblica non firma – come d’abitudine - nessuna delle fotografie pubblicate.
Il Corriere della sera metta in prima – d’apertura, base 8 colonne su 9 - una foto dei cadaveri dei bambini allineati sulle barelle con tre figure adulte prostrate dal dolore; il titolo "Il massacro dei bambini di Beslan" è a tutta pagina ed è una sorta di grande didascalia della foto (firmata AP/Sergey Ponomarv). A centro pagina un’altra foto (Ansa) di un militare che porta in braccio una bambina in slip con il viso insanguinato. Anche nel quotidiano di via Solferino seguono altre 10 pagine sulla "Battaglia della scuola", più attente a scansire la cronaca degli avvenimenti e meno ridondandanti di gesti e tematiche ma pur sempre angosciose. La doppia pagina 5/6 con tutte le fotografie a colori ha una impaginazione impeccabile anche se rimane un pugno nello stomaco del lettore. Il paradosso è che i due articoli di commento a queste pagine, del critico televisivo Aldo Grasso e della scrittrice Melania Mazzucco, sono racconti sul filo della memoria delle immagini televisive.

Che le immagini in questa vicenda avrebbero giocato un ruolo portante nell’informazione era prevedibile e previsto. Il Corriere giovedì 2 settembre pubblicava in prima un pezzo di Gianni Riotta "Le scarpette bianche di Beslan" sotto l’occhiello "Una foto un simbolo" e la Repubblica rispondeva il giorno dopo - sempre in prima - con "Le immagini della ferocia" di Giorgio Bocca. Entrambi i pezzi parlavano delle immagini, come "carattere peculiare di questa vicenda" Bocca, come "Il video di Beslan conferma l’obbligo di capire" Riotta. Perché allora se capire è d’obbligo non cercare di limitare le emozioni?

Il sostegno teorico a questa riflessione è facilmente riscontrabile ne Il messaggio fotografico di Roland Barthes (in L’ovvio e l’ottuso, 1982) quando definisce le foto scioccanti e ne descrive i significati una volta inserite nelle pagine del giornale. La voglia di scriverla mi è venuta leggendo Riccardo Chiaberge, Ma le immagini fanno riflettere? (Il Sole 24 ore 5 settembre 2004) dove si parla di Emilio Fede che manda in onda il video degli ostaggi nepalesi trucidati in Irak ma anche delle fotografie dell’Ossezia : "Le immagini, soprattutto questo tipo di immagini, non aiutano a riflettere. Tutt’al più sono loro a riflettere noi. Riflettono le nostre angosce, le nostre paure, i nostri pregiudizi. Smuovono le viscere, ma non fanno lavorare gli organi soprastanti, attivano le peristalsi invece delle sinapsi cerebrali".

Carlo Cerchioli