Reality: show!
E la verità estetica di redazione.

Ovvero: realtà edulcorata ad uso commerciale.
Partendo dal presupposto che la realtà è ciò che vogliamo vedere e, di conseguenza, nella comunicazione, ciò che mostriamo, che rappresentiamo, traggo spunto da alcuni interventi della conferenza di Lunedì 6 novembre 2006, organizzata da Fotografia e Informazione e dal Grin (Gruppo Italiano Redattori Iconografici), sull’etica nel fotogiornalismo e le manipolazioni digitali, per fare diverse considerazioni riguardo la nostra professione di fotogiornalisti.
Queste sono riflessioni che scrivo a titolo personale, di cui mi assumo tutte le responsabilità.
L’informazione è a pagamento ed è un businness enorme. Da secoli ormai, chi detiene la conoscenza si fa pagare per quanto dice, o sa, e lo stesso vale per l’informazione giornalistica.
Oggi i giornali sono diventati prevalentemente dei veicoli commerciali, contenitori di inserzioni pubblicitarie, non più solo informativi (per lo meno: chi fa solo informazione oggi, in Italia, si conta sulle dita di una mano, neppure tutte). Nei paesi anglofoni è nato, ormai da anni, per definire questo tipo di giornalismo il termine “infotainment“ a rappresentare appunto questo ibrido di informazione e intrattenimento. Ed una schiera di editori ha iniziato a produrre contenitori commerciali, anche in internet, nei quali viene “sopportata”, alle volte con supponente alterigia, l’informazione giornalistica dal campo.
Assistiamo sempre più frequentemente alla fusione degli interessi di chi produce giornali, gli editori, e chi li usa come veicolo commerciale per colpire il “target” di riferimento, gli inserzionisti.
Anche la distanza tra editor and publisher (giornalista ed editore) negli ultimi anni è diminuita, gli editori sono intervenuti in maniera pesante nel tono delle pubblicazioni e i giornalisti hanno lasciato loro spazio per determinare lo stile, non solo giornalistico, della testata.
Quindi: essendoci comunione d’interessi tra i reparti di marketing degli editori e delle aziende inserzioniste e spazio concesso dalla componente redazionale ci troviamo ad avere un prodotto sempre più ibrido, dove il limite dell’utilità dell’informazione (non della forma in cui viene data) diventa sempre più esiguo.
Molti giornalisti chiamati a produrre i contenuti per questi giornali si sono trovati, e si trovano, a perorare la causa della manipolazione della realtà, poiché alcune notizie, per non parlare delle fotografie, potrebbero essere in aperto contrasto con gli interessi di comunicazione dell’editore o dell’inserzionista, creando un calo di “audience” o d’incisività commerciale.
Probabilmente molti professionisti prendono a cuore la riuscita della pubblicazione, non solo per mantenersi il posto di lavoro ma anche per portare avanti specifiche istanze politiche.
Legittimo farlo quando questi comportamenti non ledono la veracità delle informazioni diffuse ad una platea, con sempre meno tempo di prestarvi attenzione, meno accettabile quando si mente.
La vittima in questo bailamme di interessi è il lettore. Colui il quale, con l’acquisto del giornale, pagando denaro, stringe un patto per essere informato.
Ci sono poi due tipologie di lettore, molte di più se vogliamo, ma oggettivamente abbiamo: chi compra il giornale per sostenere una fazione politica e per avere delle opinioni da esprimere, sufffragate ed argomentate dal giornalismo di parte, ed il lettore che amerebbe essere informato sui fatti e non solo sulle opinioni. Al secondo dobbiamo un prodotto imparziale.
La fusione tra editor e publisher, tra giornalista ed editore, avviene ad opera di alcuni direttori o loro “collaboratori” che, prezzolati, mercificano i loro interventi dando la personale disponibilità a suffragare o supportare le istanze dei diversi interessi.
Altri giornalisti, quelli che si trovano a fare informazione, magari se fotografi vanno anche sul posto (senza la realtà, noi, non si può fare foto), sono esclusi dal processo decisionale sulle modalità di diffusione delle notizie e conseguente produzione della “realtà rappresentata”.
La “produzione d’informazione” quindi resta a noi che cerchiamo di aderire volontariamente a codici etici per garantire il lettore della verità di quanto testimoniamo, anche rischiando di nostro, ma il contenitore è prodotto da persone, editori, grafici e giornalisti, che hanno una scarsa percezione della realtà riportata perché la “verità” di redazione è tutt’altra. Ed aderisce ad esigenze, più o meno legittime e/o pressanti. Di fatto: differenti.
Durante la conferenza sulla manipolazione delle immagini da parte dei fotografi, citata in apertura, per esempio, alcuni oratori (di cui non facciamo il nome) hanno fatto “outing” di manipolazione foto.
All’interno della loro redazione modificano e manipolano le immagini dei fotografi, anche dei circuiti internazionali, per farle aderire alle esigenze editoriali di comunicazione.
Strumentalizzando la testimonianza del fotografo, che è d’obbligo presumere aderente alla realtà, per le loro necessità retoriche, politiche, ideologiche o economiche.
Mettendosi al servizio della testata di riferimento.
Svilendo, per sempre, il valore informativo delle fotografie scattate e, di conseguenza, ledendo il rapporto fiduciario che negli anni un certo fotogiornalismo è riuscito a guadagnarsi con il lettore.
Diffamando implicitamente tutta la nostra professione.
Lasciando all’etica del grafico o di chi impagina le immagini l’opportunità di rifutare l’intervento di manipolazione (ma se il Direttore ordina: il grafico può opporsi?).
La realtà in questo tipo di giornali non è reale: è edulcorata, interpretata e addolcita ad uso e consumo degli spazi commerciali della rivista e delle necessità editoriali.
Per permetterci di fare fotogiornalismo ci chiedono di rappresentare il mondo in maniera che possa soggiacere ai diversi interessi in gioco.
Quando siamo fortunati ci viene chiesto di rappresentare la parte meno reale del reale, e, mostrando sempre le stesse immagini, ormai retoriche per alcuni soggetti, si evita di affrontare fattivamente i problemi che esse rappresentano. Arrivando addirittura a modificare l’immagine (che ripeto: ha un titolare, unico proprietario: l’autore) e di conseguenza la realtà percepita dal lettore producendo di fatto una menzogna editorale e, essendo strumenti di comunicazione di massa, sociale.
Non credo valga la pena insistere per spiegare quanto devastante sia un atteggiamento del genere nei confronti di tutti: editori, inserzionisti, giornalisti, grafici, fotogiornalisti e lettori.
Che il fotogiornalismo debba cambiare approccio nei confronti del soggetto forse è anche vero, abbiamo la tendenza a drammatizzare tutto e a mostrare alcuni soggetti sempre nella stessa maniera, senza nemmeno provare ad uscire dagli stereotipi indotti da una certa abitudine, o facilità rappresentativa attraverso codici riconosciuti. Fin qui tutto bene.
Ma ritengo assolutamente devastante manipolare le foto in redazione “fottendosi” tutta un’intera categoria di professionisti, che è disposta anche a rischiare la vita per dare un’informazione di verità.
Credo questi siano spunti importanti per cominciare a riflettere sul delirio di onnipotenza redazionale (da Photoshop) e porvi attenzione e, ove possibile, rimedio.
Mi pare sia ormai conclamata la dicotomia esistente tra chi è sul campo e chi è nelle redazioni (che nel giornalismo di cronaca si amava chiamare “Culo di Pietra”), e credo questa distanza abbia superato il limite gestibile con l’avvicinamento, quando non coincidenza, tra le figure di editor e publisher.
Sempre dello stesso relatore è l’idea di riesumare Henri Cartier Bresson per mandarlo a fotografare le loro conferenze (non troppo scure, perché il direttore si “lamenta”).
Credo gli serva, oltre ad una presa d’aria efficace per ossigenare le idee, una fontana zen, nel giardino zen, di fianco alla pianta zen, sulla scrivania.
La leggerezza con cui si chiamano in causa professionalità non necessarie, aderendo all’eco del “brand” (ormai HBC si può considerare tale, come pochi altri professionisti), per esprimere delle esigenze di reinterpretazione di un volto “paleoveneto” o “calabromagnon”, in conferenza, ci regala la cifra del distaccamento dalla realtà che vivono certi personaggi.
Come se i loro problemi quotidiani con la tessera a punti del supermercato fossero diffusi in tutto il mondo, e la realtà fosse solo il suolo su cui poggiano i loro piedi.
Qualcuno si lamentava anche, sempre nella summenzionata conferenza, che quei pelandroni dei fotoreporter, i “free lance”, non sono andati a fare delle belle foto di Kandahar com’è oggi.
Come se fosse dietro casa e come se tutti i giornali aspettassero quelle foto.
Come se il free lance fosse ricco di famiglia e dovesse fare questo lavoro solo per dimostrare di essere davvero un bravo bambino e usare ogni servizio per avere successo, notorietà, etc. etc. etc. Purtroppo noi fotografi (e non siamo veline, beninteso) abbiamo capito che sono tutte bufale commerciali per, alla fine, pagare meno la nostra professionalità e avere degli schiavi.
Impegnati ed orgogliosi di fare bene il loro lavoro... Faccio la velina piuttosto.
Se volete le foto di Kandahar oggi: pagate un fotografo e mandatecelo.
O pagate un HBC (o qualcuno con pari valenza umana) tanto che accetti di fotografare una conferenza.
Ma costa, vero? E allora quanto costa produrre l’informazione? Quale informazione?
E’ più comodo ed economico pescare, con attenzione e non a caso, sia mai, dall’informazione prodotta sul luogo dagli autoctoni quando aderiscono ai nostri codici etici, ovvero estetici? Ovvero attingere a banche immagini (con kit di contestualizzazione, presto qualche programma avrà il filtro: ingrossa il mare?)? Ma siamo proprio sicuri di volere questo giornalismo?
Ma siamo allora sicuri che possa ancora essere definito tale?
Prima che vi finisca la carta igenica nelle redazioni chiedete agli amministratori qual’è il “break event point” o il “return on investiment” di una operazione d’investimento nel fotogiornalismo italiano.
Ma chiedete loro anche se nel computo hanno inserito pure il danno, generazionale ormai, di questo giornalismo precotto ad uso e consumo delle inserzioni commerciali e delle esigenze editoriali.
State seduti comodi a lamentarvi delle foto che arrivano dal wire, sputando su quelle dei free lance e non investite nel fotogiornalismo di spessore culturale tanto presto saremo tutti cani di Pavlov, come già molti lo sono per certi software, come ho gia sostenuto in altri scritti di questo sito.
Professionalmente noi fotografi sappiamo che la mappa mentale che ci creiamo di una situazione, studiandola ed informandoci, spesso non aderisce a quello che poi incontriamo sul terreno.
La mappa non è il territorio. E questo vale anche per chi è chiuso nelle redazioni.
Forse siamo noi fotografi che dobbiamo alzare la testa, non per affermare che siamo bravi o eccezionali innovatori o altro, alziamo la testa perché la serva povera per cui lavoriamo ha tutte le carte in regola per diventare davvero la regina del giornalismo.
Con buonapace della fretta televisiva e del pressapochismo di certi professionisti.
Buffo è inoltre notare come nascono ancora riviste patinate, semplici contenitori per ampliare e diversificare l’offerta pubblicitaria di una testata, e qualcuno abbia ancora il coraggio di definirli giornali e non cataloghi, come di fatto sono. Nei quali si costringe il fotogiornalismo, sempre il solito, quello codificato, perché è politically correct parlare del "sud del mondo".
Per onestà intellettuale si dovrebbe ammettere quanto segue:
la realtà è sicuramente solo quello che vogliamo mostrare ma ci sono ancora diverse realtà che devono essere affrontate ed elaborate per essere capite, prima di essere plastificate ad uso e consumo della moda giornalistica del momento.
Noi fotografi non siamo più dei guitti, guasconi, mariuoli, furbacchioni che rubano le foto per far piacere al capo redattore: io lo denuncio un capo redattore se mi modifica una foto o lo insulto, come ho già fatto (fortunato quell’oratore).
Siamo persone che possono aver studiato, che sanno di avere dei diritti, dei limiti, un’intelligenza e magari anche buone curve di apprendimento, abbiamo formazioni disparate ma una cosa sostanzialmente ci differenzia dai giornalisti: noi fotografi i giorni di ferie all’anno, che sono garantiti a chi fa i giornali dal contratto nazionale, non li possiamo fare.
Noi viviamo la realtà e se non siamo sul posto non c’è la foto.
Non possiamo ripetere gli eventi col replay del telecomando, non ci arriviamo con il telefono e non vogliamo una fontana, con giardino zen, di fianco al bonsai, sulla scrivania.
Alziamo la testa per difendere la nostra professione dagli sciacalli che usano la forza probante (residua) della fotografia, abusando del nostro nome, o di quello delle agenzie, per avallare i loro comportamenti scorretti di addomesticamento della realtà.

Fabiano Avancini