L'eredità di Gerda Taro - Riflessioni intorno al libro di Irme Schaber "Gerda Taro - Una fotografa R

L’iniziativa di pubblicare in italiano la biografia di Gerda Taro (al secolo Gerta Pohorylle) va collocata in un più ampio riconoscimento internazionale e istituzionale della sua autrice Irme Schaber. Da questo libro è scaturita ad esempio l’iniziativa della recente mostra all’ International Center of Photography di New York, curata dalla stessa Schaber assieme a Richard Whelan (biografo di Robert Capa e curatore del Capa Archive dello ICP, nonché storico della fotografia).

L’interesse per: la biografia di Gerda Taro è senza dubbio trasversale e si intreccia con uno dei periodi più intensi della storia del Novecento in Europa. E’ una storia al femminile (nella tradizione quindi della storia di genere), affronta l’identità ebraica (un’ulteriore peculiarità e qualità, nel confronto con l’antisemitismo, tra destini collettivi e scelte individuali), la militanza antifascista e, infine, il mondo del nascente fotogiornalismo a Parigi, che si confronterà con la Guerra Civile Spagnola, la prima guerra a forte impatto mediatico. Il racconto plausibile della sua vita la sottrae all’oblio o alla strumentalizzazione subita come donna/moglie di Capa da un lato, o martire del Partito Comunista francese dall’altro. Guidata dalle poche tracce rimaste e armata di una forte riflessione metodologica, la Schaber ha condotto una vera e propria indagine, scoprendo e utilizzando in modo articolato fonti differenti e spesso inedite, comprese quelle orali, testimonianze che risultano ancora più preziose oggi, dato che molti degli intervistati sono nel frattempo morti per raggiunti limiti d’età. Delimitando “il caso Taro” nell’ambito della fotografia, ecco a seguire alcuni spunti di riflessione guidati dalla prospettiva del mio mestiere di giornalista photo-editor.

Parigi, dove Taro imposta la sua professione di fotografa, nel primo Novecento e in particolare degli anni Venti-Trenta vede la presenza di diverse figure femminili impegnate nella fotografia. Tra queste ricordo la fotogiornalista Germane Krull: la sua militanza comunista la porterà prima a Berlino, poi in Olanda e quindi a Parigi, dove lavorerà come fotografa fino al 1937. In seguito (via Rio de Janeiro, riconosciuta meta dell’emigrazione antinazista), si sposterà a Brazzaville, nell’Africa equatoriale, dove sarà responsabile del servizio fotografico della Francia Libera, e nel dopoguerra lavorerà in Asia fin quasi alla fine della sua vita. A differenza di Taro le sue tracce non sono andate perdute, sia per la sua longevità (morirà nel 1985) e produttività quindi, sia per aver scritto un’autobiografia, tradotta in Italia da Giunti nel 1992. Se guardiamo alle donne presenti nella manualistica della storia della fotografia, notiamo quanto l’attenzione sia sposti più sull’elemento biografico che sulla produzione fotografica. A questo proposito, intrecci e similitudini rintracciabili nel confronto tra le biografie di Gerda Taro e di Tina Modotti (emigrazione, bellezza, il fotografo/amante che le introduce al mezzo, passione politica e amori militanti, presenza nella guerra civile spagnola, morte improvvisa) potrebbero rinforzare ovvii stereotipi e nell’ipotesi, non verificabile ma plausibile che si siano incontrate in Spagna, dare per scontato che avrebbero simpatizzato. Invece va tenuto presente che Tina Modotti una volta in Europa aveva abbandonato la fotografia per la militanza, secondo la Schaber in quanto artista: le sue fotografie dei contadini messicani, delle donne e dei bambini, come pure gli still-life più “militanti” (la falce e la cartucciera, la macchina da scrivere), sono innanzitutto esempi di grazia formale, sensibilità umana e qualità fotografica all’interno di un processo artistico, prima ancora che di comunicazione. Non parlerei invece di opera artistica per le immagini prodotte da Gerda Taro. Artistico è piuttosto il percorso della sua esistenza, nella ricerca della propria identità e dell’espressione della propria visione politica. Se con la frequentazione dei circoli del Quartiere Latino e le discussioni maturerà ulteriormente la propria consapevolezza politica, sarà l’incontro con Andrè Friedmann (il futuro Robert Capa) a permetterle di esprimere, attraverso la fotografia, quelle qualità che le consentiranno di emergere in un ambito fortemente maschile, contribuendo in modo determinante e conseguente a far emergere anche il suo compagno.

Personalità femminile complessa dunque, alimentata da una forte voglia di riscatto e senza dubbio dotata di un’immagine di sé moderna, consapevole delle proprie capacità seduttive, Taro utilizzerà armi femminili come la bellezza e l’estroversione (viene ricordata da più testimoni come una donna estremamente divertente) certo, ma saranno la sua capacità di muoversi nel nuovo mondo della stampa francese affidandosi al proprio intuito, accanto a rapidità di comprensione, fortissima determinazione e volontà di testimoniare (come dimostrerà durante la guerra civile spagnola), a farla emergere tra gli altri. Qualità importanti ancora oggi nell’esercitare il mestiere di fotogiornalista, e la sensibilità di Gerda Taro è principalmente giornalistica, anzi con una particolare attitudine verso gli strumenti della comunicazione. Basti pensare all’espediente -di grande successo- dei nomi d’arte “Robert Capa” e “Gerda Taro” da lei inventati, e al fatto che la sua produzione fotografica, dove potrà esprimere la sua militanza tanto quanto se stessa, sarà appunto al servizio della propaganda politica.

Il capitolo sulla coppia Taro-Capa non indulge sul rapporto amoroso, piuttosto verifica attraverso numerose e diversificate fonti quanto Taro sia stata l’artefice del personaggio Capa e quale influenza abbia avuto sul futuro grande reporter, che la ricorderà sempre come il grande amore della sua vita. E ancora come lei lo abbia utilizzato per affermarsi in quel mondo dell’informazione in parte a lei già noto: promuovere i reportages fotografici del compagno, farne l’editing, e imparare al tempo stesso a stare dietro la macchina fotografica è senza dubbio prova di grande carattere. In modo fertile utilizzerà le informazioni ricavate dal lavoro di assistente svolto nell’agenzia Alliance Photo (procuratogli da Capa) per capire il mercato, cercando con molti sforzi di mantenere una propria autonomia. Il 18 luglio il golpe militare in Spagna darà inizio alla guerra civile e Gerda partirà con Capa verso il fronte come corrispondente accreditata.

E’ questo delle donne corrispondenti di guerra un ambito della fotografia che recentemente incontra forte interesse. La sua storia comincia lontano, negli Stati Uniti a cavallo del Novecento quando il movimento delle suffragette aveva aperto la strada alla presenza femminile anche nel mondo dell’informazione e a questo riguuardo è interessante il dato rilevato dalla Library of Congress in occasione della mostra Women come to the Front: “Per le donne giornaliste la seconda guerra mondiale offrì nuove opportunità professionali: almeno 127 donne americane vennero accreditate come corrispondenti di guerra, se non addirittura per assignments sul fronte”, tra queste Dorothea Lange e Lee Miller. Spostandoci sul contemporaneo, la presenza femminile nel particolare settore del fotogiornalismo di guerra è andata confermandosi attraverso il lavoro di tante reporters e ricordiamo: Susan Meiselas e il suo lavoro sulla rivoluzione nicaraguese nel 1978-79; Carol Guzy, corrispondente del Washington Post e vincitrice, tra altri premi, del World Press Photo per le sue immagini della crisi di Haiti del 1995; gli approfondimenti nella ex-Yugoslavia, in Iraq e soprattutto in Palestina di Alexandra Boulat, co-fondatrice di VII , che faceva anche parte del gruppo War Photo Limited, nato per sensibilizzare soprattutto i giovani delle scuole e delle università attraverso il dibattito provocato dalle loro proposte di mostre, tra le quali Women War Photographers, appunto. Le numerose interviste disponibili in rete inducono a riflettere su quanto ancora oggi decidere di fare questo particolare mestiere sia per le donne anzitutto una scelta di vita, spesso in conflitto con la maternità e la famiglia, anche se Dyana Smith (vincitrice del WPP 1999, foto dell’anno di un funerale in Kosovo) ritiene che i suoi lavori migliori siano successivi alla nascita dei figli “per una maggiore sensibilità e pietà, anche se questo mi ha resa meno temeraria”. Allo stesso tempo emerge, nel particolare ambito della fotografia di guerra, l’interesse per l’aspetto umanitario e le ricadute dei conflitti sulla popolazione civile e viene spesso sottolineato dalle intervistate quanto la propria sensibilità ed emotività sia al servizio della professione. Segnaliamo infine come ancor oggi, nel 2008, la gran parte delle domande a loro rivolte riguardino il rapporto con questo “mestiere da uomini”, segno inequivocabile della differenza!

Come in ogni biografia di fotografo che si rispetti, non possono mancare le problematiche relative alla gestione dei copyrights delle fotografie (in questo caso quelle prodotte dalla coppia Taro-Capa) e alla loro distribuzione internazionale, nonchè alla loro utilizzazione da parte della stampa e i problemi del loro utilizzo e didascalizzazione e il più generale tema dell’uso strumentale dell’informazione visiva ai fini della propaganda. Così come non viene trascurato il tema della veridicità del documento fotografico che coivolse lo stesso Capa con la sua foto più celebre, quella del miliziano caduto in Spagna, appunto. Solo la recentissima restituzione di una sua valigia scomparsa ai tempi e ritrovata in Messico, contenente pellicole anche in minima parte di Taro, sembrerebbe definitivamente scagionarlo.

“Se le foto non sono abbastanza buone è perché non si è abbastanza vicini”. La celebre frase di Capa viene citata nel libro per sottolineare come l’andare in Spagna sia per entrambi una scelta di solidarietà, di vicinanza morale, politica oltre che fisica, declinata anche in scelta formale: questa è la vera eredità che Gerda Taro, attraverso Capa, lascia della sua breve esperienza di fotoreporter. Lo stile fotografico di Gerda Taro evolve assieme alla guerra, quando all’entusiasmo si sostituisce il sentimento della sconfitta: le sue inquadrature si stringono sui protagonisti/vittime, privilegiando nel racconto l’individuo (come si rileva anche nella produzione del suo compagno).

Il primo gruppo di fotografie realizzate nell’estate del 1936 sono molto semplici, dilettantesche direi. Si nota una mancanza di dominio delle situazioni e dei soggetti che si presentano ammiccanti e rinvigoriti dalla presenza della giovane fotografa. Molto rapidamente però le immagini si fanno più attente sul piano formale e la forte connotazione propagandistica sembra più consapevolmente costruita e controllata. Un esempio è la fotografia scelta per la copertina del catalogo della mostra dell’ICP: una giovane repubblicana, che si esercita sulla spiaggia di Barcellona nell’agosto del 1936, viene ripresa di profilo, inginocchiata con la pistola in pugno e protesa in avanti. Unica nota femminile, assolutamente seducente: le sue scarpe con il tacco. Di certo Gerda si è riconosciuta in quella donna combattiva eppur femminile e per questo l’ha fotografata, forse mettendola in posa, intuendone la forte valenza comunicativa.

Quando la guerra entra nella sua fase più drammatica Gerda cambia sguardo e abbandona la Rolleiflex per la Leica, con la quale realizza, nel corso del 1937, le fotografie senza dubbio più inquietanti e che ebbero maggiore spazio nella stampa dell’epoca: le città distrutte, i rifugiati, il fronte, i combattimenti, le vittime e la loro resistenza. Parallelamente cresce la pressione di rispondere alle richieste della stampa di sinistra con la quale collabora e, suppongo io, per continuare a garantirsi una propria visibilità. Cresce senza dubbio il suo coraggio a sprezzo del pericolo, forse il suo esibizionismo, fino a mettere in gioco la propria vita sul fronte di Brunete. E la perderà, per un banale incidente durante una drammatica ritirata.

Robert Capa, segnato dalla perdita di Gerda Taro, diventerà il più grande fotografo di guerra della sua epoca. Il titolo della sua autobiografia uscita nel 1947, Slightly out of focus, propone una chiave di lettura della sua personalità, ma è anche una dichiarazione di stile fondata su un limite tecnico, il fuori fuoco, che aggiunge un forte valore emotivo all’immagine fotografica, provocando in chi guarda una maggiore partecipazione. Uno stile di ripresa quanto mai attuale, che lo conferma punto di riferimento imprescindibile della storia del fotogiornalismo nei luoghi di crisi.

Oggi, di fronte a una platea sempre meno empatica e partecipe del “dolore degli altri” (per ricordare il bel libro di Susan Sontag) possiamo riconoscere nel fotogiornalismo attuale le tracce, dell’insegnamento di Robert Capa e quindi di Gerda Taro: la drammaticità ricercata nel mosso, nell’esposizione non corretta, nell’out of focus, nelle deformazioni grandangolari (obiettivo, il grandangolare, che peraltro non esisteva ai loro tempi). E’ un segno del nostro tempo (e della crisi della Politica) che la comunicazione della sofferenza nelle zone di conflitto avvenga attraverso una visione individualistica, esaltante delle proprie sensazioni e rispondente alla necessità essenzialmente espressiva del fotografo-testimone. Come nel caso di As I was dying, l’eloquente titolo dell’ultimo libro-progetto di Paolo Pellegrin, che raccoglie le immagini realizzate in più di dieci anni nei teatri di guerra, dal Kosovo al Medio Oriente, dall’Afghanistan all’Iraq. Proveniente da una formazione improntata su una forte attenzione ai valori estetici e formali della visione e alla loro resa in fotografia, Pellegrin esprime un approccio vincente del fotogiornalismo contemporaneo di guerra perché il suo resoconto in diretta si trasforma in una sorta di fiction (cinematografica? letteraria?), fortemente evocativa. La qualità della sua fotografia infatti, emozionale e sbilanciata nel suo controllatissimo disequilibrio in un b/n dai forti contrasti, costruito da fuori fuoco, da ombre e colpi di luce oppure adottando un punto di vista estremamente ravvicinato, al limite della sostituzione con i suoi stessi soggetti, o proponendo visioni laterali alla scena (quasi uno sguardo in fuga), pur sollevando obiezioni riguardanti appunto la strumentalizzazione del dolore degli altri riesce “a dare voce” e ottiene quindi ascolto da noi tutti. E’ l’esito di una fotografia sapiente, con un valore aggiunto: “l’odore” della tragedia vissuta e condivisa con le vittime, As I was dying , “Come stessi morendo” appunto. Ed è proprio questo essere in prima linea che Gerda Taro, in modo pionieristico e sicuramente ingenuo, ha voluto sperimentare nel 1937, settanta anni fa.

Manuela Fugenziè giornalista photo editor e ricercatrice iconografica nell’editoria libraria e periodica dalla metà degli anni Ottanta. Collabora alla progettazione di iniziative editoriali ed espositive sulla fotografia ed è tra i curatori di FotoGrafia-Festival Internazionale di Roma. Insegna storia e tecnica fotografica. Si è occupata nel tempo di fotografia e memoria storica, fotogiornalismo storico e contemporaneo, fotografia e paesaggio italiano e di fotografia sociale. Tra i temi maggiormente esplorati: l’emigrazione e l’immigrazione, il mondo femminile, il Mediterraneo.

Tra le sue pubblicazioni: Il mito del benessere, 1981-1990 (1999); Il secolo delle donne.
L’Italia del Novecento al femminile
, (2001); L’evoluzione del mezzo tecnico
in La fotografia in Italia.1945-2000, annale della Storia d’Italia (2004).