Fotogiornalismo multimediale, considerazioni

 Istruzioni per l'uso

La prima edizione di questo concorso è stata molto utile per una serie di considerazioni dalle quali spero i lettori di questo articolo vorranno prendere spunto.

Trentacinque partecipanti nella prima edizione non sono molti, eppure neanche pochi, e comunque quei pochi (o molti) prodotti arrivati mi sono stati utili per capire (o confermare) cosa rende un prodotto multimediale fruibile o meno.
La prima cosa della quale ho avuto conferma è che un fotografo non può pensare, dall'oggi al domani e solo perché ha a disposizione una macchina fotografica che produce anche video, di riciclarsi come videomaker. È pura presunzione pensare all'intercambiabilità dei linguaggi, distanti quanto il sole dalla luna. Un regista può avere, anzi deve avere, un buon occhio fotografico ma un fotografo non necessariamente deve conoscere la grammatica filmica. Dai prodotti arrivati questo si evince con grande forza: al di la dei temi, è difficile scorgere una linea narrativa che amalgamasse tutti gli elementi e i linguaggi in gioco. La presunzione del fotografo ha fatto il resto.

Un buon prodotto multimediale va pensato dall'inizio: piuttosto che riciclare materiale meramente fotografico in qualcosa di diverso, giusto per l'occasione di un concorso, è più onesto farne un semplice  slideshow. Purtroppo un prodotto multimediale è fatto con una complessità di linguaggi diversi, ognuno dei quali deve avere un ruolo, dalla colonna sonora alle interviste. Pensarlo dall'inizio significa prevedere cosa ci andrà dentro, cosa serve, quali gli interpreti. Uno script, un copione. Più o meno come un film. E cosi quanti metri di pellicola (quanto girato). Un reportage fotografico può essere risolto in una trentina di fotografie, i tempi di un multimediale magari hanno bisogno di molte più immagini, non necessariamente forti e risolutive, molte anche di stacco e di contorno. È il tempo della narrazione che sottolineerà l'importanza di una immagine, molto meno dell'immagine in sé: quanto si costringe il fruitore di quel prodotto a guardare quella immagine. È un ruolo che si rovescia: il visitatore di una mostra decide quanto soffermarsi davanti ad un quadro. Sarà invece il regista (o il montatore) a decidere quanto lo spettatore starà li a guardare quella sequenza: la maggioranza dei fotografi questa differenza metrica non l'ha proprio compresa. E capisco anche il perché.

  • didascalia: la giuria riunita durante la selezione finale
  • firma: Matteo Bergamini

Altro nodo (ma questa è un vecchio vizio di categoria) è il pensare che la sciatteria e l'approssimazione con la quale si monta quel prodotto (la confezione, e non solo, perché qui non vale soltanto la regola dell'abito che fa il monaco) sia trascurabile rispetto alla nobiltà del tema: e siccome ci si è spinti fin nella giungla congolese o si è saliti sulle alture della Colombia si pensa che questo basti a metter in piedi un prodotto meritevole di essere premiato. Niente di nuovo: questo principio pietista è sempre esistito anche nella fotografia tout court: basta l'atto di presenza, la testimonianza, spesso di parte.

Tornando all'oggetto del contendere: un prodotto ben fatto necessita di una piena fiducia e collaborazione tra le parti, cosi come succede tra un regista ed un montatore. Quando si progetta un prodotto nel quale la fotografia fa la parte del leone bisogna avere l'umiltà di affidarsi a chi ha esperienza di montaggio (una volta lo strumento era la moviola, ora sarà After Effect) e che sappia valorizzare il prodotto.

In questa prima edizione del concorso c'erano un po' tutti questi elementi e tutta la giuria ha indistintamente notato (e penalizzato) queste carenze. Il prodotto che è risultato vincitore (e alcuni degli altri segnalati) è invece figlio di un percorso molto filmico e non è stato realizzato da un fotoreporter, ma da una persona che per curriculum professionale ha mangiato molta fotografia (e quindi sa che cosa sia quella grammatica) sa cosa è una notizia (e cosa, come in questo caso, non lo è) e sopratutto cosa è una storia e come si costruisce. Ha quindi sempre visto il suo prodotto come una complessità di elementi che vanno dosati, come in un film ben riuscito. Bisogna avere un filo conduttore, e trovare i personaggi che possano raccontare quella storia. E soprattutto ci ha dimostrato che non c'è bisogno di arrivare fino in Congo per raccontare delle storie, spesso basta affacciarsi alla finestra.

Detto questo, so benissimo che il prodotto multimediale è molte cose, spesso diverse tra loro che possono anche contraddire quanto da me finora affermato: ho visto ad esempio un delicatissimo audivisivo tratto dal libro “Blind” di Stefano De Luigi, lavoro tutto fotografico e mai pensato per altro che la carta. Eppure le sagge mani di un esperto e sensibile maestro della “moviola” hanno saputo valorizzare quelle immagini fisse.

  • didascalia: la giuria riunita durante la selezione finale
  • firma: Matteo Bergamini

Uno dei lavori da noi selezionati aveva della bella fotografia ed un discreto montaggio, in un altro la fotografia non era il massimo ma il montaggio rendeva la narrazione godibilissama perché comunque la storia (e quindi la notizia) aveva una consistenza.

Dopo tutta questa giaculatoria ci si aspetterebbe che gli ideatori di questo premio avessero tutti i motivi per mollare la presa, invece queste critiche fin qui snocciolate ci inducono a continuare su questa strada, perché siamo sicuri di poter crescere e far crescere queste nuove potenzialità narrative.

Sconfiggere i vizi di autoreferenzialità di questa professione è sempre stata la mia fissazione: abbiamo un dovere nei confronti di chi guarda le nostre immagini ma anche nei confronti dei soggetti che ritraiamo. Quelli si aspettano da noi il massimo in creatività narrativa e comprensione, questi rispetto e correttezza: la solidarietà può esserci, ma a volte fa a cazzotti con l'obiettività e se è vero che se non si è vicini abbastanza la foto può non essere a fuoco è anche vero che però si può rischiare di vedere la pagliuzza e non la trave. Meglio allora “la giusta distanza.”

Da ultimo: il mercato. Non mi dilungo molto sullo stato pietoso dei siti di informazione senza alcuna esclusione, più che infarciti di idiozie e filmati curiosi non sono: quindi non è da li che verrà la rivoluzione. Ad aggravare la situazione c'è inoltre che il video tiene impegnato il lettore, mentre se lo stesso compulsa una galleria di venti immagini ai fini pubblicitari quelli saranno venti contatti e non uno solo, come nel caso del filmato. Inutile cavar sangue dalle rape. E se si pensa di poter fare soldi riciclandosi videomaker avendo quel mercato come riferimento, vuol dire aver capito molto poco dell'editoria italiana on line. In realtà per questi motivi la multimedialità giornalistica non ha preso piede: non ha mercato (almeno in Italia) anche perché mettere in piedi un progetto serio costa molti soldi.

Se andate a vedere i prodotti più belli di Mediastorm (ovvero coloro che hanno iniziato a diffondere con serietà questa visione) vi rendete conto che si tratta di produzioni sufficientemente ricche.

Il prossimo anno alzeremo il tiro, di certo ridurremo i tempi a cinque/sei minuti. Siamo ambiziosi e vogliamo crescere: in fin dei conti in Italia non esiste un concorso di fotogiornalismo serio e degno di chiamarsi tale. Ci candidiamo a coprire questo spazio, almeno nella multimedialità .
 

Marco Vacca, 17 dicembre 2011