Il World Press Photo e la retorica del War Photographer

  • fonte: http://www.worldpressphoto.org/
Ogni anno nel mese di Febbraio si celebra il rito del World Press Photo. Nato nel 1955 come vetrina del miglior fotogiornalismo mondiale, il Wpph ha innegabilmente assunto negli anni forti valenze estetiche e politiche che trascendono il suo statuto iniziale di presunto occhio testimone e specchio dei tempi.

Nonstante il premio si componga di svariate sezioni in cui trovano spazio i diversi generi del fotogiornalismo, la foto dell'anno è indubbiamente quella che attrae più attenzione e suscita le più accese discussioni. E' la faccia del premio, la foto stampata sulla copertina del catalogo. Come ci ricorda Shahidul Alam, giurato nell'edizione 2003, “deve trattarsi di un'immagine di notevoli qualità visive che parli di un fatto di cronaca di rilevanza mondiale”.

Quest'anno il riconoscimento è stato assegnato ad una fotografia scattata in Afghanistan da Tim A. Hetherington, facente parte di un servizio realizzato per conto di Vanity Fair al seguito di una squadra di Marines americani nella valle del Korengal, roccaforte dei Talebani. L'immagine ritrae un soldato americano stremato all'interno di un bunker. Per Gary Night, presidente della giuria di questa edizione, essa mostra “un uomo esausto — ed una nazione esausta” (trad. mia) . A questo punto si inizia a sentire puzza di bruciato, la retorica è infatti entrata a gamba tesa nel discorso. Si tratta di una sineddoche, ovvero la parte per il tutto. La semplice, quasi ingenua, considerazione di Gary Night apre in realtà il vaso di Pandora della discussione sul significato dell'immagine fotografica, ed in particolare di quella giornalistica.

La retorica è un elemento ineliminabile di qualsiasi discorso che miri a convincere della propria veridicità, tanto più efficace quanto più la presenza dei suoi meccanismi rimangono celati. La fotografia giornalistica per il suo statuto sociale di documento, di prova, di calco della realtà, viene usualmente considerata scevra da questi elementi manipolatori. Ecco che quindi ci si presenta di fronte ad essa senza i necessari strumenti critici. La figura retorica non è altro poi che una particolare struttura ricorrente del discorso, cristallizzata dal tempo e dall'uso. Nella fotografia essa prende la forma di riferimenti iconografici ad altre immagini, considerate classiche e quindi dal valore universalmente riconosciuto, che a loro volta si ispirano ad altrettanti classici della tradizione pittorica occidentale. Quando queste figure retoriche vengono abusate ripetitivamente, allora cadiamo nello stereotipo. E' questo il caso dell'immagine premiata quest'anno.

Forse vale la pena interrogarsi sul perchè una tale immagine venga scelta come degna rappresentante del reportage di guerra e, più in generale, della produzione fotogiornalistica di un anno intero.

Sebbene appaia perfettamente normale la premiazione di un'immagine proveniente da una zona di conflitto, è bene ricordare che la fotografia di guerra è entrata a pieno diritto nel premio solo a partire dagli anni '90, dopo la caduta del blocco sovietico. La rappresentazione dei conflitti tra le immagini premiate non ha mai mantenuto una sua linea omogenea. Si possono però individuare chiaramente due poli concettuali tra i quali essa ha sempre oscillato. Uno è quello della denuncia dell'ingiustizia e della violenza che le popolazioni civili sono costrette a subire in tempo di guerra, in linea con la tradizione del concerned photographer. L'altro è l'esaltazione del sacrificio e della fatica dei militari coinvolti, immancabilmente i nostri, che potremmo assimilare alla retorica della guerra giusta. A questo proposito si può considerare emblematica nel corso degli anni novanta la serie di immagini provenienti dalla Cecenia premiate dal Wpph. La linea seguita dalle giurie appare ambigua, se non addirittura schizofrenica. Ha oscillato infatti tra il desiderio di denuncia delle atrocità perpetrate dall'esercito russo ai danni della popolazione locale nella prima metà del decennio, e la premiazione di immagini, tutto sommato mediocri e addomesticate (nel senso di oleografiche al limite del servile), scattate da fotografi russi al seguito delle proprie truppe, ovvero embedded.


Risulta evidente come la fotografia di Hetherington appartenga a questo secondo filone. Riprendendo la definizione di fotografia dell'anno, sorge spontaneo chiedersi il perchè di una simile scelta. Uno dei criteri più volte enunciati è l'indubbia qualità visiva. L'immagine in questione non è figlia di una particolare ricerca estetica, si rifà piuttosto alla tradizione del momento decisivo, in cui la realtà tradisce il suo ultimo e più profondo segreto. La fatica del soldato è già di per sè uno stereotipo, per di più chi abbia dimestichezza con la macchina fotografica sa benissimo quanto sia semplice con qualche trucco trasformare la fatica per una lunga scarpinata nella prostrazione drammatica al termine di un'impresa epica. Sembrerebbe proprio di trovarsi di fronte ad una di quelle fotografie “simili a scatole cinesi, immagini che si spacciano per la condensazione dell'evento stesso, un concentrato di significato storico, mentre non sono che condensati iconografici realizzati col pretesto dell'informazione” (Gilles Saussier in “Problemi dell'Informazione” 2/2003). L'immagine diventa simbolo, il soldato tutta la nazione. E' il potere della fotografia e della retorica. Se poi ci interroghiamo sulla qualità giornalistica dello scatto, ci accorgiamo che ben altro è accaduto nel 2007: il Kenya, il Darfur ed il Pakistan, per citare solo alcuni paesi colpiti da gravi sconvolgimenti. Tutti rappresentati nelle altre sezioni del premio, sia chiaro, ma ben due servizi su tre nella categoria Feature Stories sono dedicati all'Afghanistan, entrambi fortemente incentrati sui Marines americani impegnati in combattimento, ed entrambi probabilmente scattati nello stesso periodo, se non addirittura spalla a spalla dai due fotoreporter. In due immagini appartenenti alle due diverse features è chiaramente possibile riconoscere lo stesso uomo che regge il corpo del figlio. Ancora una volta ci viene in soccorso Gary Night, quando afferma che “senza unirsi ai colleghi, semplicemente non ci sarebbe modo di portare a termine il lavoro. E molto del lavoro finisce per avere a che fare con questioni logistiche molto basilari come spostarsi”. Ed al fronte, aggiungerei, è impossibile muoversi senza essere al seguito delle truppe di una delle due parti in lotta. A questo punto la puzza di bruciato si è trasformata nella certezza di un incendio.

In passato la scelta della foto dell'anno si era basata su considerazioni di “agenda setting”, spesso in posizione polemica rispetto a quella dei grandi media. Basti ricordare l'edizione 2003, dove fu decretata foto dell'anno un'immagine del terremoto in Armenia, evento del tutto marginale nella copertura mediatica mondiale. Non sembra essere questo il caso dell'Afghanistan, conflitto che gode costantemente di grande attenzione essendovi coinvolte le truppe NATO, e in primo luogo quelle statunitensi. Al contrario la decisione sembra essere al rimorchio dei grandi media. La ratio della scelta appare ancora più chiaramente politica, se non prettamente ideologica, se prendiamo in considerazione il grande assente di questa edizione del concorso: l'Iraq. Un conflitto scomodo, una guerra sporca ed indifendibile se paragonata a quella giusta, con tanto di sanzione ONU, contro i Talebani. Eppure, se il ruolo del fotogiornalismo fosse la denuncia dell'ingiustizia e dell'orrore della guerra, sarebbe doveroso far vedere le decine di civili che in Iraq muoiono come mosche ogni giorno. L' idea di guerra proposta dalle foto Hetherington è invece quella di un eroismo hollywoodiano, pericolosamente confinante con il territorio della propaganda militare e figlio di un genere iconografico sviluppatosi durante la Seconda Guerra Mondiale, la guerra giusta per eccellenza, e che ha raggiunto la maturità con il Vietnam.

Se, come afferma Gary Night, “la crisi nel mondo della fotografia non è dovuta alla mancanza di buoni fotografi, ma piuttosto a quella di buoni clienti” , forse il WPPh renderebbe un miglior servizio ad entrambi promuovendo una visione più complessa del fotogiornalismo che si distacchi da modelli arrugginiti e distanti anni luce dalla realtà professionale quotidiana. La favola del war photographer ha decisamente fatto il suo tempo.

14/03/08, Massimiliano Clausi