Universita' IULM di Milano

FacoltA' di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo

Corso di laurea in Relazioni Pubbliche

A.A. 1998-1999

La fotografia di reportage: un'analisi semiotica


Indice

  • Matilde Castagna
  • La fotografia di reportage: un'analisi semiotica

INDICE


NOTE INTRODUTTIVE

I. L’immagine p. 1
II. Storia e strumenti p. 3
III. Testi p. 6

1. LA FOTOGRAFIA: UN SECOLO E MEZZO DI STORIA

1.1 Questioni irrisolte p. 9

1.2 Le origini p. 11
1.3 I progressi della ricerca p. 14
1.4 Oltre il reale: il magico in fotografia p. 18
1.5 Professione fotografo p. 22


2. SEMIOTICA DELL’IMMAGINE: UN APPROCCIO TEORICO ALL’ANALISI DELLA FOTOGRAFIA COME TESTO

2.1 Tracce indelebili p. 24
2.2 La fotografia come indice p. 28
2.3 La fotografia come icona p. 31
2.4 Il tessuto dell’immagine p. 34
2.5 Il punto di vista dello spettatore p. 37
2.6 Oltre le apparenze p. 41


3. LA FOTOGRAFIA DI REPORTAGE

3.1 Le origini: la fotografia di guerra p. 46
3.2 Il reportage tra le due guerre p. 49
3.3 Lo sviluppo della fotografia live p. 52
3.4 Il dopoguerra p. 54
3.5 Il reportage fotografico dopo l’esposizione p. 56
“ The Family of Man”
3.6 La ritrattistica p. 58


4. ANTHONY SUAU: “OLTRE IL MURO”

4.1 Prologo p. 63
4.2 La vita p. 65
4.3 Lo stile p. 68
4.4 Un’icona della storia sovietica p. 70
4.5 L’inizio: viaggio in Romania p. 76
4.6 Il passaggio p. 88
4.7 La guerra p. 96
4.8 L’Abhasia: una terra dimenticata p. 105
4.9 Ritorno a Mosca p. 111
4.10 Trasformazione p. 114
4.11 Il conflitto ceceno p. 120
4.12 La nuova Russia: diversità p. 129
4.13 Epilogo p. 147


5. GIANNI GIANSANTI

5.1 La vita p. 152
5.2 Gli inizi: l’uccisione di Aldo Moro p. 154
5.3 Immagini e parole p. 158
5.4 Il mondo è a colori! p. 164
5.5 Dentro l’immagine p. 167
5.6 La terza dimensione p. 172
5.7 Bianco, rosso, blu: tracce di colore p. 176
5.8 La Sibilla Cumana: fotografia e pittura p. 181
5.9 Tra immagine e racconto p. 187
5.9 Comunicazione o informazione? p. 197
5.10 Ritratti p. 200


6. DAVID LACHAPELLE: “HOTEL LACHAPELLE”

6.1 Profilo p. 205
6.2 Mondi fantastici p. 208
6.3 Forme nuove p. 211
6.4 Trasformazioni: l’irrealtà dell’immagine p. 216

Introduzione

  • Matilde Castagna
  • La fotografia di reportage: un'analisi semiotica

INTRODUZIONE

I. L’immagine
Perché la fotografia? E perché proprio la fotografia di reportage? Si potrebbero indicare svariate risposte al primo interrogativo, tutte più o meno valide. Innanzitutto la fotografia è mezzo di comunicazione e, in quanto tale, rientra a pieno titolo nelle competenze di un corso di laurea disciplinare. Certo, come primo argomento, parrebbe un po’ debole, ma non lo è poi più di tanto, qualora si considerino più attentamente lo spazio e l’importanza che la fotografia riveste nel panorama mass mediatico odierno.
Da qui in poi, paradossalmente, non si può che rimanere stupiti e forse anche un poco indignati per la scarsa rilevanza degli studi condotti fino ad oggi su di un mezzo che entra giornalmente nelle nostre case e nelle nostre vite. Si potrebbe allora facilmente notare che la semiotica del visivo resta incredibilmente un campo poco esplorato, soprattutto in Italia, rispetto alla parola scritta e parlata, e che questa condizione di inferiorità investe in larga parte tutta la cultura dell’immagine e quindi anche la fotografia. La mancanza di una disciplina rigida avrebbe così potuto rappresentare un forte stimolo per ricerche e studi più approfonditi. Sempre più spesso, del resto, ci viene fatto notare come il nostro sia un mondo dominato dall’immagine e sono già in molti a lamentare un’eccessiva intrusione del visivo in ogni ambito della cultura odierna.
In realtà, tuttavia, il mio interesse per la fotografia non prende spunto da una riflessione di stampo sociologico. Il motivo principale nasce invece da uno degli aspetti più immediati dell’immagine fotografica: il suo innegabile fascino. Quel fascino che da più di un secolo e mezzo (la fotografia nasce ufficialmente nel 1839) spinge l’uomo ad inseguire il fantasma della riproducibilità perfetta della realtà e l’illusione di una sua conoscenza e del suo dominio, totali. Quel fascino che scaturisce, incontrollabile, dalla natura ambigua e ineffabile di un mezzo condannato a non avere né tempo né spazio, perennemente in bilico tra passato e presente, realtà e finzione. E’ quello stesso fascino che ha spinto ognuno di noi, almeno una volta nella vita, a prendere in mano una macchina fotografica.
Nel momento in cui ci si avvicina alla fotografia in senso teorico non è tuttavia possibile evitare un certo grado di disorientamento. Dinanzi ad una ragguardevole quantità di studi storici e sociologici da un lato e meccanico-tecnici dall’altro, le mie intenzioni parevano destinate a perdersi nel moltiplicarsi delle spiegazioni tecniche e delle categorizzazioni storiche, conducendo inesorabilmente lungo un vicolo cieco. Indubbiamente bisognava ridurre il campo della ricerca. Ed ecco la risposta al secondo dei due quesiti iniziali: perché la fotografia di reportage? Perché non, ad esempio, la fotografia artistica, con tutta la sua storia, peraltro molto affascinante, e i suoi fertili legami con l’arte moderna e contemporanea? No, non sarebbe bastato. Io cercavo una fotografia che recasse ben visibile la traccia del suo referente, un’immagine che fosse uno specchio fedele della realtà. E quale immagine avrebbe potuto esserlo più della fotografia di reportage?

II. Storia e strumenti
All’inizio di questo lavoro, una sintetica analisi storica delle origini e dello sviluppo della fotografia funge da breve e sfuggente cornice introduttiva al corpus centrale della ricerca: una traccia. Lungi dal voler essere quindi un resoconto esauriente degli eventi trascorsi, l’excursus aiuta a fare luce sui temi affrontati in passato, in particolare sulla discussione riguardante la natura ambigua dell’immagine fotografica. La fotografia é dunque un fenomeno storico, cui sono state date risposte di volta in volta diverse. Non si può, di conseguenza, trascurare ciò che essa ha rappresentato in momenti precisi del passato. Ci sono in particolare alcuni aspetti della fotografia delle origini che non sono stati tuttora chiariti e che probabilmente continueranno a non esserlo ancora per qualche tempo.
La fotografia rimane una bestia nera della comunicazione e della cultura contemporanee. Mal compresa da un pubblico di amatori e curiosi che vi cercano per lo più ciò che essi non hanno visto di persona e mal difesa da molti dei suoi professionisti che insistono a limitarsi a parlarne in termini esclusivamente tecnici, medium privilegiato della moda e della pubblicità, essa non ha beneficiato di molto specifiche e diffuse riflessioni teoriche, dovendosi di volta in volta accontentare di analisi locali o tutt’al più riferibili a teorie del linguaggio visivo in termini generali. Per chi si avvicini alla fotografia per uno studio del suo linguaggio e delle sue modalità espressive, diventa di conseguenza problematico il confronto con testi incentrati specificatamente sull’argomento, che sono pochi e per la maggior parte stranieri. Si è allora costretti a riferirsi ad analisi inerenti a sistemi simili, quale ad esempio la pittura, anche se questo comporta il grave limite di dover continuamente prestare attenzione alle differenze dell’oggetto studiato da quello preso momentaneamente come punto di riferimento.
Se dunque, in quanto testo, l’immagine fotografica partecipa dell’architettura interna ad ogni discorso ed è innanzitutto una macchina per produrre senso, è anche vero che il suo processo di produzione segnica si distingue decisamente da quelli di altre declinazioni del visivo. E’ questo l’argomento affrontato in apertura del secondo capitolo, dove la disputa sulla classificazione segnica del testo fotografico prende inizio dall’aspetto indicale della fotografia quale traccia indelebile dell’oggetto rappresentato. L’impronta lasciata sulla superficie, che tanto aveva impegnato la ricerca degli inizi, diviene in tal modo l’argomento privilegiato dei sostenitori dell’immagine fotografica in quanto indice. Due sono i riferimenti d’obbligo: Roland Barthes e Rosalind Krauss. Nel suo testo in materia, La camera chiara, che viene ormai considerato un classico della letteratura sull’immagine fotografica, Barthes sottolinea il legame inscindibile che la fotografia instaura col proprio referente («Una specie di cordone ombelicale collega il corpo della cosa fotografata al mio sguardo: benché impalpabile, la luce è qui effettivamente un nucleo carnale, una pelle che io condivido con colui o colei che è stato fotografato» ). Il noema specifico della fotografia risiede dunque nella certezza che quell’oggetto è-stato nel mondo reale («Ogni fotografia è un certificato di presenza.» )
A testimonianza della carenza di testi sull’oggetto di studio, è utile sottolineare che l’analisi di Roland Barthes non può essere considerata come appartenente in senso proprio ad una semiotica del visivo e che, nonostante ciò, resta uno degli spunti principali per la teoria dell’immagine fotografica. Rosalind Krauss, al contrario, ne parla in termini espressamente semiotici, ossia ne parla in quanto appartenente «(..) allo stesso sistema delle impressioni, delle tracce, degli indizi.» , concordando quindi con la classificazione attribuitale dallo stesso Peirce («le fotografie sono state prodotte in circostanze tali per cui erano fisicamente forzate a corrispondere punto per punto alla natura. Da questo punto di vista, dunque, esse appartengono alla seconda classe di segni: i segni di connessione fisica.» ).
Dall’innegabile somiglianza col reale, e dunque dalla sua natura iconica, parte invece lo studio di semiotica del visivo di René Lindekens sull’immagine fotografica . Il problema del legame col referente viene letto in termini di contrapposizione tra due tipi di realismo, quello del contenuto e quello della rappresentazione. Lewis ne fa, con specifico riferimento alla fotografia, due problemi distinti: l’immagine fotografica privata del suo realismo a livello di “contenuto” non esclude, al contrario, la prova persistente dell’esistenza dell’oggetto rappresentato .
E’ proprio con l’analisi di René Lindekens che si entra nel merito della costruzione di senso da parte del testo e di orientamento dello sguardo dello spettatore. La fotografia non consiste infatti solamente di singole forme riconoscibili come appartenenti al mondo naturale. La fotografia è anche organizzazione di tratti pertinenti (scarti densitometrici, linee, forme, colori…), che ne fanno innanzitutto una macchina per produrre senso. In tal modo, l’immagine resta effettivamente in bilico tra natura iconica e natura indicale: «più ci si avvicina più la riproduzione si perde in un caos di agglomerati argentei; più ci si allontana più quel caos scompare in un cosmos di figure riconoscibili e sensate. Potremmo dire, per usare la terminologia di Peirce, che la fotografia slitta costantemente da una condizione di indice a una condizione di icona e viceversa, dove il primo tipo di segno parla della contiguità con l’oggetto rappresentato, ma non della sua “forma”, mentre l’icona parla della forma di questo oggetto, senza metterne in gioco la compresenza con il segno che lo rappresenta» .
Dopo aver fornito alcuni strumenti di analisi teorica, ecco dunque introdotto nel terzo capitolo l’argomento specifico dell’analisi: la fotografia di reportage. Rodèenko, Sander, Stiegliz, Kertész, Eisenstaedt, Man, Schuh, Feininger, Hutton, Brassaï, Kimura, Brandt, Weegee, Bourke-White, Dorothea Lange, Evans, Rothstein, Henry Cartier-Bresson e Edward Steichen sono solo alcuni tra i fotoreporter capostipiti del reportage fotografico. Dalle primissime immagini di guerra al boom del reportage tra i due conflitti, il rapporto tra la fotografia e i propri soggetti, il proprio pubblico e i propri committenti (riviste ed agenzie), pone in evidenza alcune delle caratteristiche principali dell’immagine. Realismo, effetti di verità, tecniche d’esecuzione, ultimo minuto e istante decisivo sono tutti aspetti fondamentali, ma, al tempo stesso, di volta in volta mutevoli e diversamente declinabili, della fotografia live. Ne è una riprova il suo avvicinamento al people e dunque a quella che può essere considerato uno dei generi storici dell’immagine fotografica: il ritratto. Ed è proprio con l’excursus storico sul ritratto che si chiude la prima parte teorico-storica per lasciare spazio alla seconda parte del discorso: l’analisi pratica del testo fotografico.

III. I testi
La scelta dei testi relativi alla ricerca si è orientata verso tre autori sensibilmente diversi tra loro, due dei quali veri e propri fotoreporter e il terzo ritrattista/fotografo di moda. Ognuno di loro è evidentemente caratterizzato da un proprio stile personale e da un uso differente di inquadrature, luci, grafica e colore. Si pone a questo punto il problema di definire l’obiettivo dell’analisi di testi da un lato volutamente eterogenei fra loro e dall’altro talmente legati allo stile dei rispettivi autori da rendere assai improbabile l’ipotesi di un’analisi esclusivamente semiotica degli stessi.
Più che osservare la fotografia a partire dalla semiotica, si tratterà allora di osservare alcuni concetti semiotici a partire dall’immagine fotografica: lo statuto dello spettatore, l’illusione referenziale, la rappresentazione del tempo e del movimento, la costruzione di effetti tensivi, i meccanismi di enunciazione e così via. Premetto che questo rientra nelle intenzioni di un discorso che non può che trovarsi a cavallo tra due impostazioni, di cui una mirata ad un’analisi semiotica dell’immagine fotografica, e l’altra rivolta ad una sua interpretazione e contestualizzazione storico-culturale, operata avvalendosi anche di strumenti semiotici. L’interrogativo del come e del perché il testo dica quel che dice, si scontra allora con la questione del cosa dica il testo: obiettivi teoricamente distinti, ma praticamente a rischio di sovrapposizione, quando non di confusione .
Il primo testo preso in considerazione è il reportage realizzato da Anthony Suau nel corso del decennio trascorso dalla caduta del muro di Berlino. Si noti che anche la modalità di approccio al testo è differente per ciascuno degli autori considerati. Nel caso di Suau, in particolare, lo spazio discorsivo è quello della mostra fotografica tenutasi presso lo Spazio Oberdan di Milano nei giorni dal ventinove settembre al quattordici novembre 1999. Diventato fotografo del Time Magazine nel 1991, è stata la stessa rivista a commissionargli un servizio attraverso i Paesi dell’ex Unione Sovietica per ripercorrere, sessant’anni dopo, lo stesso itinerario di Margaret Bourke-White. L’ analisi parte dunque volutamente dal più classico dei tre fotografi e il capitolo è strutturato in modo che sia possibile per il lettore seguire, attraverso le immagini, il percorso visivo/emotivo del viaggio. Nonostante il tono narrativo, tuttavia, emergono di volta in volta lungo il percorso, differenti questioni semiotiche, quali ad esempio l’individuazione del bianco-nero come tratti pertinenti dell’immagine o la particolare costruzione dello sguardo dello spettatore e il ruolo giocato da quest’ultimo all’interno del meccanismo di enunciazione del testo.
Queste questioni vengono ulteriormente approfondite nel capitolo dedicato a Gianni Giansanti, fotografo italiano residente a Roma, autore a soli ventidue anni della celebre immagine del ritrovamento del corpo di Aldo Moro nella Renault 4 abbandonata dalle Brigate Rosse in Via Caetani. Anche in questo caso l’approccio è stato diverso: l’incontro è avvenuto di persona e le immagini derivano direttamente dagli originali. L’analisi è di conseguenza intervallata da porzioni di intervista, racconti e opinioni del fotografo (quindi dell’autore empirico). Al tempo stesso, la grande varietà dei suoi servizi e delle sue immagini ha permesso un approccio più specifico ai testi e alle modalità di costruzione dello sguardo dello spettatore all’interno degli stessi, a volte approfondendo e altre aggiungendo elementi d’osservazione e di analisi. Primo fra tutti, il colore, che va ad aggiungersi alla lista degli elementi significanti dell’architettura visiva.
Se Giansanti risulta essere il reporter più completo e Anthony Suau quello più classico, non credo ci possano essere dubbi sul fatto che David LaChapelle sia da considerarsi in assoluto il più originale e stravagante. Due sono i motivi che m’hanno purtroppo costretta a dedicare poco spazio (o almeno meno spazio in rapporto agli altri autori) a dei testi particolarmente insoliti e provocatori, che apparentemente esulano dall’ambito della fotografia di reportage in senso stretto. Il primo è che, essenzialmente, non si tratta di un reporter, ma perlopiù di un fotografo di moda/ritrattista. Le fotografie sono state prese dal suo ultimo volume di recente pubblicato . Feste di compleanno, luna park, schiuma da bagno per feste in discoteca e bambole gonfiabili: le immagini di LaChapelle sembrano nate dalla tendenza visionaria di uno scrittore di fiabe in un universo palesemente artificiale, colorato ed eccessivo, luccicante come i vestiti dei transessuali, un mondo finto e plastificato di cavalli alati, nuvole e cuori e angeli e fiocchi di neve. Niente a che vedere, apparentemente, con i primi due fotografi. In effetti, ed è questo il secondo motivo della brevità dell’analisi, l’aspetto che delle sue immagini mi interessa sottolineare è fondamentalmente uno solo: l’irrealtà dell’immagine fotografica. Forse questa non è ancora una caratteristica propria dell’immagine di reportage, ma certamente rivoluziona di molto la riflessione sul processo di produzione segnica. Man mano che gli alogenuri d’argento diventano un ricordo di tempi passati, nascono nuove forme, nuovi mondi sintetici, sempre meno calco e sempre più simulacro della realtà del mondo moderno.

Conclusioni

  • Matilde Castagna
  • La fotografia di reportage: un'analisi semiotica

CONCLUSIONI

Al termine di questo percorso d’analisi, risultano ormai parecchi gli elementi significativi raccolti e non solo dal punto di vista semiotico. Altrettante restano tuttavia le questioni irrisolte e le problematiche aperte a futuri nuovi sviluppi. Si riconsideri, ad esempio, il punto di partenza: la discussione sulla natura del processo di produzione segnica della fotografia. Le immagini di Suau e quelle di Giansanti, rientrando a pieno titolo nel genere del fotogiornalismo, possono essere considerate vere e proprie testimonianze fisiche dell’esistenza di luoghi, persone e situazioni rappresentate. Il cosiddetto “paradosso del fotografo” trova del resto fondamento proprio in quell’istante di contiguità spazio-temporale che è all’origine della formazione dell’immagine . In tal modo, la fotografia intesa come calco fisico dell’oggetto, rende apparentemente indubbia la realtà del contenuto della rappresentazione stessa. Anche il meccanismo di denegazione dell’atto enunciativo agisce fondamentalmente nella medesima direzione. La presenza di uno sguardo in macchina che neghi la distanza tra osservante e osservato, ma, ancor di più, la capacità della rappresentazione immobile della fotografia di presentarsi come “finestra sul mondo” dotata di un’assoluta autonomia espressiva, non fanno che accrescere quell’effetto di realtà/verità che è la marca testuale specifica del fotogiornalismo.
Passando dal punto di vista del testo, più propriamente semiotico, a quello dell’evoluzione e della storia della fotografia di reportage intesa come genere, l’autore empirico, il fotografo, dichiara a sua volta di voler lasciare parlare le proprie immagini, senza mai imporre allo spettatore il proprio punto di vista. In altre parole, il reporter considera l’informazione, l’evento, l’ elemento primario della fotografia. Esempio di questa concezione del reportage è la fotografia di Moro assassinato, ma anche la scelta del colore come rappresentazione fedele della nostra visione del mondo reale.
Non bisogna dimenticare tuttavia, la falsità della convinzione umana di corrispondenza tra visione ottica soggettiva e realtà delle cose, procedimento che orienta il nostro sguardo nella lettura del mondo, esattamente come nel caso delle immagini fotografiche. E’ in tal senso che esse ripropongono il problema della loro analogia con la realtà visibile, che è stato sottolineato da René Lindekens. Si entra dunque nel merito della natura iconica dell’immagine fotografica e della costruzione dello sguardo dello spettatore. Ritornando ora al punto di vista del testo, è stato dunque possibile affrontare il problema a partire dall’immagine come macchina in grado di produrre senso e, in modo più specifico, del testo visivo come costruzione architettonica. Oltre al bianco/nero in qualità di tratti pertinenti dell’immagine, individuati nel caso di Suau, ha dato risultati soddisfacenti l’applicazione del funzionamento delle categorie topologiche, cromatiche ed eidetiche alle immagini di Giansanti. In particolare è a livello delle categorie cromatiche, principali responsabili della costruzione dei formanti plastici, che è stato possibile ridefinire i ruoli sinora attribuiti all’immagine in bianco e nero e viceversa a colori. La scelta specifica e la loro modalità d’uso si riducono pertanto a declinazioni differenti delle categorie cromatiche interne al testo e non più a pregiudizi di origine esterna.
Quanto tuttavia è ancora sostenibile l’ipotesi della natura iconica della fotografia qualora la somiglianza col mondo reale venga in parte o del tutto a mancare? E’ questo il caso delle immagini di David LaChapelle. I suoi mondi impossibili violano volutamente il patto di realtà e verità dei mondi verosimili della fotografia di reportage. Eppure partecipano essi stessi della medesima architettura e del medesimo processo di costruzione e generazione del senso. In altre parole, l’occhio dello spettatore si orienta in base alle stesse categorie di riferimento, così come la disposizione spaziale degli elementi e l’uso del colore, seppur portati all’eccesso, non rappresentano altro, per il testo, che strumenti di significazione.
Non è del resto solo la somiglianza con il mondo reale ad essere messa in discussione, bensì la stessa natura del substrato dell’immagine, che, abbandonata la materia argentea delle origini, viene ritoccata, trasformata e manipolata sino a divenire oggetto virtuale, simulacro di mondi paradossalmente irreali.
Cos’è dunque in definitiva, oggi, la fotografia? Un’icona, un indice, o altro?

Bibliografia

  • Matilde Castagna
  • La fotografia di reportage: un'analisi semiotica

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