UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SIENA

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione

A.A. 2002-2003

World Press Photo: specchio critico.“Fotografie di guerra premiate nelle edizioni dal 1989 al 2003”.


Indice

  • Massimiliano Clausi
  • World Press Photo: specchio critico.“Fotografie di guerra premiate nelle edizioni dal 1989 al 2003”.

I. Introduzione.

1. Breve storia della fotografia di guerra.
1.1 1839-1919, il tempo dei pionieri. (p.1)
1.2 1919-1945, l’istantanea ed il fotoreporter di guerra. (p.6)
1.3 L’età d’oro del fotogiornalismo. (p.11)
1.4 La crisi della professione. (p.15)

2. World Press Photo e la fotografia di guerra.
2.1 La fondazione, il premio e la sua struttura. (p.22)
2.2 La giuria ed i criteri di valutazione.(p.26)
2.3 I conflitti rappresentati nelle foto premiate tra il 1986 ed il 2003.(p.30)

3. Raccontare la guerra attraverso le immagini.
3.1 Più informazioni, nessuna informazione? (p. 49)

4. Conclusioni. (p.58)

Appendice.

Intervista a Riccardo Venturi.

Bibliografia.

Introduzione

  • Massimiliano Clausi
  • World Press Photo: specchio critico.“Fotografie di guerra premiate nelle edizioni dal 1989 al 2003”.

“Il dagherotipo non è solo uno strumento per disegnare la natura […] le dà il potere di riprodurre sé stessa”. (1)

“A rigor di termine, una fotografia non fa capire nulla”. (2)


Nonostante sempre più spesso si parli di crisi della professione o addirittura di morte del fotogiornalismo, in questi anni come mai prima si è vista un’enorme produzione di immagini fotografiche ad uso giornalistico. Di queste buona parte provengono dai conflitti in corso nel mondo, rivelandosi, assieme alle altre forme di giornalismo scritto e televisivo, uno strumento essenziale per l’opinione pubblica dei paesi democratici al fine di prendere posizione nei confronti delle guerre in corso e di un eventuale coinvolgimento militare diretto del proprio paese.
Il successo della fotografia di guerra sulle pagine della stampa di massa è dovuto sicuramente allo speciale statuto di prova, di cui l’immagine fotografica ha goduto fin dalle sue origini. Nata in pieno clima positivista, essa fu intesa come uno strumento per la riproduzione automatica della realtà, una sorta di “matita della natura” (3) che la rendeva capace di riprodurre sé stessa con un atto interno di autocontemplazione (4), per mezzo della luce. L’intervento del fotografo nella selezione della porzione di realtà da fotografare e nella scelta della modalità con cui farlo è sempre passata in secondo piano.
Ma la fotografia è soprattutto un sistema di editing visivo, in cui cingiamo con una cornice una porzione di ciò che osserviamo. Essa è scelta, selezione di un aspetto del reale degno di nota, degno di essere fotografato: in poche parole, significativo. I criteri attraverso i quali questa selezione avviene non sono, come affermano molti fotografi, semplicemente delegati alla sensibilità individuale ; al contrario, essi derivano dal sistema dei media del quale la fotografia di guerra fa parte a pieno titolo. Sono criteri giornalistici, socialmente condivisi e riconosciuti, che riguardano l’importanza di un evento, il suo sviluppo temporale, il taglio del servizio (di cronaca, di costume, di approfondimento), i soggetti coinvolti e molti altri aspetti ancora.
Trasversale e complementare a tutto questo è il tema della propaganda. Essa ha utilizzato la fotografia come documento a sostegno delle proprie tesi fin dai suoi primi passi sui campi di battaglia. Censurando, manipolando, controllando e limitando gli spostamenti dei corrispondenti, creando ad hoc occasioni allettanti per i fotogiornalisti, tanto da diventare una componente spesso indistinguibile dalle dinamiche interne al mercato dell’informazione.
L’idea di documentare fotograficamente la guerra nasce praticamente assieme al mezzo fotografico stesso, ma è ampiamente riconosciuto che si possa parlare di fotografia di guerra in senso stretto soltanto a partire dalla Guerra Civile spagnola, quando essa è ormai inserita a pieno titolo in un sistema di stampa di massa che ne diffonde le immagini. Il suo utilizzo giornalistico riporta alla ribalta le contraddizioni insite nella valutazione delle immagini, che si dibatte tra opposizioni concettuali come arte / documento, interpretazione / prova , soggettività / oggettività.
Appare evidente come la storia della fotografia di guerra non sia completamente scindibile da qualla della fotografia tout-court, essendone essa un suo utilizzo particolare, influenzata perciò dalle innovazioni tecnologiche e dalle correnti di pensiero che si sono succedute nel tempo a proposito del suo ruolo e di quello degli operatori fotografici. Negli anni ’50 del novecento inizia a diffondersi un nuovo modo di intendere il reportage fotografico, attorno alla figura del concerned photographer, non solo come semplice documentazione, ma come indagine, esplorazione e racconto. Proprio in quel periodo, che molti hanno definito “gli anni d’oro” del fotogiornalismo, nasce il World Press Photo, premio internazionale delle migliori immagini prodotte annualmente a livello mondiale. In base a questa sua missione istituzionale, il concorso è senz’altro un luogo di osservazione privilegiato del racconto di guerra per immagini. Esso infatti opera una doppia selezione: sull’agenda dei conflitti giornalisticamente rilevanti e sulle modalità di presentazione fotografica di tali conflitti. Luogo in cui si confrontano concezioni diverse del ruolo e delle finalità del fotoreporter di guerra, come mero testimone o interprete partecipe degli eventi ; o, ancora, dove è possibile ritrovare il sistema di selezione delle immagini utilizzato nelle redazioni e nelle agenzie.
Partendo dalle fotografie premiate dal concorso nelle edizioni tra il 1989 ed il 2003, è possibile quindi osservare non solo quali conflitti siano stati considerati degni di nota, ma anche quali aspetti delle diverse guerre in atto in quegli anni abbiano ricevuto maggior attenzione. Proprio in questo arco di tempo è avvenuta infatti una profonda mutazione non solo quantitativa, ma soprattutto qualitativa della natura dei conflitti. Con queste “nuove guerre” (5) sempre più spesso basate sulle tecniche di guerriglia, terrorismo e controinsurrezione, si sono dovuti confrontare i fotoreporters. La scelta del periodo preso in considerazione è stata determinata quindi dallo spartiacque della caduta del muro di Berlino, principio dello sgretolamento del blocco comunista legato all’URSS e definitiva archiviazione della Guerra Fredda che ha dato un impulso fortissimo a questo nuovo tipo di conflitti. Dal confronto tra le immagini provenienti dai diversi fronti si possono evincere analogie e differenze nella rappresentazione dei medesimi temi, rendendo possibile la comprensione di quanto il clima politico e la propaganda militare abbiano potuto influire sulla selezione delle immagini.
L’interrogativo che ha guidato questa analisi, infine, è stato quello concernente il rapporto tra quantità e qualità dell’informazione di guerra. Ad una esplosione della comunicazione giornalistica riguardante i conflitti corrisponde un maggiore apporto informativo? Interrogativo che, per quanto riguarda la fotografia, si pone in modo ancora più ambiguo. Se infatti è constatabile un aumento della quantità numerica delle immagini di guerra premiate dal WPPh (6), cosa si intende per qualità a proposito di un’immagine di guerra? Il suo valore estetico o il suo apporto informativo? E che rapporto esiste tra questi due valori?
Anche in questo caso la fotografia giornalistica non smentisce la propria ambiguità di fondo.

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(1) Daguerre L., da un comunicato diffuso per attirare investitori.
(2) Sontag S., “Sulla fotografia”, G. Einaudi, Torino, 1992.
(3) Si fa qui riferimento all’opera di W.H.F.Talbot intitolata appunto “The pencil of nature”, pubblicata nel 1844.
(4) R.Krauss, “Teoria e storia della fotografia”, Mondadori, Milano, 1996 ; p. 58.
(5) Kaldor M., Le nuove guerre, Carocci Editore, Roma, 2001 ; vedi anche Cap.1, §1.4 .
(6) World Press Photo.

Conclusioni

  • Massimiliano Clausi
  • World Press Photo: specchio critico.“Fotografie di guerra premiate nelle edizioni dal 1989 al 2003”.

Dalle osservazioni fin qui fatte e dalle immagini premiate nelle edizioni del WPPh prese in considerazione e portate ad esempio, il fotografo di guerra appare spesso non tanto come l’artefice consapevole del proprio lavoro, ma come l’ultima ruota di un sistema nel quale le decisioni determinanti vengono prese a monte. Egli è in effetti schiacciato tra due forze che, sempre più spesso, giocano nella stessa squadra: il mercato e la propaganda.
Con l’espressione mercato si intende il risultato economico degli scambi relativi a determinate merci — nel nostro caso: immagini e, in senso lato, informazioni — quando ciascun operatore possiede informazioni a proposito degli scambi compiuti da altri (82). Il fotografo è uno dei soggetti del mercato dell’informazione e non si può sottrarre alle dinamiche economiche ad esso interne. Il mercato determina quali fotografie siano vendibili e quali no. Si stabilisce così una doppia selezione in base alla possibilità di trovare acquirenti per le immagini:
A)L’ agenda degli eventi da documentare fotograficamente.
B)All’interno di tali eventi si selezionano gli aspetti fotogenici.

Inevitabilmente la maggior parte dei fotografi, sotto la pressione delle agenzie e delle testate giornalistiche che impongono tempi sempre più stretti, finiscono col coprire gli aspetti già noti, nei confronti dei quali anche iconograficamente sono preparati dalla propria storia e cultura. Ha perfettamente ragione Sebastao Salgado quando afferma che ogni fotografia è il frutto di un’ ideologia particolare e di una storia personale, che si combina differentemente a contatto con i fatti e le persone messe a fuoco dall’obbiettivo (83). Ma se questa miscela così unica finisce per dare così spesso risultati identici, significa soltanto che i fotografi fanno rientrare in modelli prestabiliti la realtà che incontrano.
L’altra forza che influenza — e a volte determina in toto — il lavoro del fotoreporter di guerra è quella della propaganda, intesa come diffusione di informazioni false o solo parzialmente vere utilizzate da un governo o partito politico per influenzare a proprio favore l’opinione pubblica (84). La propaganda comprende tra i propri strumenti la censura, che si concretizza con il divieto di pubblicazione o di accesso al fronte per il reporter. Più spesso, come abbiamo avuto modo di osservare, interviene una forma di autocensura alla fonte, ottenuta ponendo l’operatore di fronte all’impossibilità di vendere immagini considerate controproducenti o scomode per la causa di chi promuove la propaganda. Un tale risultato è ottenuto in modo indiretto, senza divieti, attraverso il mercato. Se il mercato dell’informazione richiede stereotipi, verrà assecondato. Per i conflitti altamente ideologici, come la Seconda Guerra Mondiale, questo non si rese necessario. Essendo il fotografo stesso parte delle forze armate — Robert Capa indossava la divisa militare statunitense pur non essendo americano (85)— sarà il primo a non voler danneggiare la propria parte con un’immagine negativa. Questo tipo di risultato si ottiene oggi incastrando — embedding - il corrispondente nel contingente, dandogli così l’impressione di poter vedere da vicino tutto ciò che accade. Anche le immagini di punti di vista alternativi che possono sfuggire al controllo della propaganda raggiungendo la pubblicazione sono così sommerse dal rumore di fondo dell’enorme quantità di fotografie ufficiali.
La risposta della grande maggioranza dei fotografi a questa enorme pressione è lo stereotipo, che, confermando le attese del pubblico, ha il pregio di non dare problemi alla testata/agenzia per cui lavora e di assicurare un minimo ritorno economico. Nel panorama così delineato è molto difficile riuscire a distinguere le distorsioni involontarie, ascrivibili al funzionamento del sistema dei media, da quelle volontarie, imputabili al singolo fotografo, alla sua ignoranza o connivenza con le strutture della propaganda.
Il WPPh rappresenta bene questa situazione: un enorme flusso di immagini, un rumore di fondo fortissimo, nel quale riusciamo appena a distinguere la piccola voce — come amava chiamarla W.E.Smith — di coloro i quali cercano di darci un punto di vista nuovo e critico nei confronti degli avvenimenti. E se le fotografie di attualità, più dell’avvenimento in sé stesso, rappresentano la tradizione iconografica dei media occidentali e la sua egemonia planetaria (86), è anche vero che l’avvenimento esiste soltanto all’interno di un sistema di riferimento che lo riconosce come degno di nota, e da esso non si può prescindere. Il WPPh è pienamente all’interno di tale sistema, ne utilizza i principi per la selezione degli eventi e delle immagini. Ed anche nel momento in cui, come nelle edizioni degli ultimi anni, si pone in modo polemico nei confronti di tale sistema, di fatto, per restrizioni di spazio e per la sua natura di competizione, riesce solo a presentare qualche eccezione alla regola. L’ambizione del WPPh di essere una memoria visiva dell’umanità (87) si scontra con queste evidenze che, al contrario, ne rimarcano la parzialità e la sudditanza alle regole del giornalismo, restituendoci un’immagine del mestiere di fotoreporter di guerra ben distante dal mito del paladino della verità spesso declamato sulle pagine del premio stesso.
Per l’osservatore attento una plausibile via di uscita da questa empasse ci sembra quella, in parte qui delineata, di considerare la fotografia, ed in particolare quella che ha a che vedere con i conflitti, non come un semplice riflesso della realtà, ma come uno specchio deformante di fronte al quale siamo posti, attraverso le cui distorsioni è possibile davvero riuscire a ricostruire la nostra immagine di osservatori. Più che della guerra e degli altri, la fotografia ci parla del nostro modo di guardare ad essi.

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(82) AA.VV., “Enciclopedia Universale Garzanti”, Garzanti Editore, Milano, 1995.
(83) Steve Mayes (a cura di)., “This Critical Mirror”, Thames and Hudson, London, 1996.
(84) AA.VV., “Dictionary of Contemporary English”, Longman, 2000. (trad. dell’autore).
(85) Capa R., “Leggermente fuori fuoco”, Contrasto, Roma, 2002.
(86) Gilles Saussier, “La disciplina del tempo, in Problemi dell’Informazione”, Il Mulino, Bologna, n°2/ 2003.
(87) Salgado S., in Mayes S.(a cura di),”This critical mirror”, Thames and Hudson, London, 1996.

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  • Massimiliano Clausi
  • World Press Photo: specchio critico.“Fotografie di guerra premiate nelle edizioni dal 1989 al 2003”.

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