UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA”

Facolta' di Sociologia

A.A. 2002-2003

SCATTI NEGATI. IL FOTOGIORNALISMO IN ITALIA TRA LIBERTÀ E CENSURA


Indice

  • Roberta Pizzolante
  • SCATTI NEGATI. IL FOTOGIORNALISMO IN ITALIA TRA LIBERTÀ E CENSURA

PARTE PRIMA

I. La nascita della stampa

1. La diffusione della stampa e le prime forme di censura    p. 1
2. Nasce il commercio delle notizie p. 11
3. Le reti di comunicazione globale e l’industria dei media  p. 20
4. La società di massa e gli effetti dei media    p. 24
5. La libertà di stampa: dal Primo Emendamento all’articolo 21 p. 37

II. Per una storia della fotografia

1. L’evoluzione tecnica della fotografia    p. 49
2. La querelle sul valore artistico della fotografia     p. 56
3. Gli usi sociali della fotografia p. 68
4. Dai giornali illustrati alla nascita del fotogiornalismo   p. 73

III. Fotogiornalismo e censura

1. La censura sulla fotografia   p. 85
2. La comunicazione in stato di guerra p. 90
3. La fotografia in Italia e la disavventura fascista    p. 106
4. Il dopoguerra e l’insegnamento straniero    p. 115
5. La fotografia come documento storico    p. 124


PARTE SECONDA

IV. Il fotogiornalismo italiano

1. I limiti strutturali del fotogiornalismo in Italia     p. 137
2. La legge sul diritto d’autore e l’avvento del digitale    p. 158
3. Le agenzie: come cambia il lavoro del fotogiornalista   p. 171
4. La foto sul giornale: illustrazione o informazione?   P. 178
5. Genova: la violenza fotografata e subita    p. 189
6. La verità, la prima caduta al fronte p. 205


V. La parola ai fotogiornalisti

1. La ricerca sociologica e l’intervista p. 217
2. L’intervista semi-strutturata  p. 226
3. Le ipotesi della ricerca  p. 230
4. Analisi dei dati: le limitazioni più diffuse    p. 239
5. Fotogiornalisti, categoria di serie B p. 250
6. Le fotografie, figlie di nessuno p. 259
7. Dall’altra parte del desk  p. 268
8. Come lavora il photo editor  p. 277
9. Le fotografie in pagina  p. 286

Conclusioni    p. 299
Appendice    p. 309

Bibliografia    p. 323

Introduzione

  • Roberta Pizzolante
  • SCATTI NEGATI. IL FOTOGIORNALISMO IN ITALIA TRA LIBERTÀ E CENSURA

Perché riflettere sul fotogiornalismo
Il fotogiornalismo banalizzato. Il fotogiornalismo boicottato. E' sempre vita dura per i fotografi dell'informazione in Italia. La debolezza di questa categoria professionale è abbastanza evidente, a tal punto da far ipotizzare che si tratti dell’anello più debole del sistema comunicativo. Gli episodi avvenuti a Genova durante il G8 hanno messo in risalto con forza l'attacco alla libertà di stampa e di informazione dei giornalisti e in particolare dei fotogiornalisti, che per la loro facile riconoscibilità, hanno visto messa a serio rischio la loro incolumità fisica. Eppure gli operatori dell'informazione erano lì per documentare, per esercitare un diritto di cronaca che è sancito e tutelato dalla Costituzione italiana e dalla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo. In una parola, per fare il proprio dovere, ma hanno pagato un prezzo pesante. Sono stati aggrediti, minacciati, feriti. Le loro attrezzature sono state distrutte e sequestrate. Inoltre nei duri giorni di Genova, ai giornalisti e ai fotogiornalisti è stato richiesto di consegnare il materiale foto e video sulle violenze, di diventare insomma fonti della magistratura. Rischiando di mettere in discussione l'integrità e l'indipendenza della loro professione. Intorno ai mezzi di comunicazione di massa, si sa, si gioca una partita importante, perché l'informazione pervade la vita sociale. Quindi cercare di controllare la produzione e la circolazione dell'informazione può significare influenzare e manipolare la costruzione dell'opinione pubblica. Ecco perché qualsiasi forma di limitazione o di censura che gli operatori dell'informazione subiscono durante lo svolgimento del loro lavoro costituisce un rischio per la libertà di stampa. Come ha dimostrato Genova. Ma quella del G8 era una situazione di emergenza, ad alta tensione. Bisogna chiedersi, però, cosa succede nella quotidianità. Il diritto di cronaca è realmente garantito? E per i fotogiornalisti esistono davvero dei rischi in più? Queste sono le domande da cui è partito questo lavoro, per cercare di indagare se esistono dei limiti intrinseci in questa professione e nel sistema informativo italiano in generale, eventualmente perché esistono e se si può parlare veramente di libertà d'informazione.
Non si può non considerare, infatti, l’assetto proprietario dei giornali in Italia e il costituirsi di conglomerati multimediali che sono componenti di più vasti e differenziati conglomerati industriali e finanziari. Questi elementi dello scenario italiano conferiscono molto potere al mercato pubblicitario e ai diversi proprietari dei mezzi di comunicazione in Italia. Indubbiamente questo può diventare un limite per una stampa libera e indipendente, anche attraverso le immagini. Per parlare di libertà di stampa e di informazione per tutti i cittadini, infatti, in una società devono essere presenti delle basi importanti: si deve poter accedere ai canali informativi e poter ricevere informazioni di tipo diverso che garantiscano un certo pluralismo dell’informazione. I media devono godere di certe condizioni strutturali, come la libertà giuridica di trasmettere e/o pubblicare, e di condizioni operative, ovvero l’indipendenza dalle pressioni economiche e politiche e l’autonomia di tutti gli agenti della comunicazione. Inoltre libertà significa dare la possibilità alle diverse voci della società di accedere ai canali e garantire la qualità dell’offerta secondo criteri di pluralismo, affidabilità, originalità. Per gli operatori dell'informazione essere messi in condizioni ottimali di lavoro ed essere tutelati anche nelle situazioni di pericolo è un fattore molto importante, perché consente di svolgere al meglio la professione e di produrre un servizio di qualità. I fotogiornalisti in Italia possono avvalersi di questi basilari privilegi? La trattazione inizia proprio con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, che ha cambiato il corso della comunicazione nel mondo, segnando il passaggio dal Medioevo alla prima modernità e con la comparsa negli ordinamenti internazionali dei principi a difesa della libertà di stampa. Per il mondo occidentale, infatti, si tratta di un vero e proprio passaggio d’epoca, che ha permesso la diffusione su vasta scala di testi e quindi di conoscenze ma anche lo sviluppo e l’affermazione di una vera e propria cultura laica, indipendente dal monopolio della Chiesa. Nel primo capitolo, infatti, si analizza proprio l’avvento della stampa, le forme di censura che hanno cercato di limitarla e le trasformazioni che hanno caratterizzato la società dell’epoca: i progressi tecnici e meccanici, il ruolo assunto dalle città come centri delle attività economiche e culturali, l’affermazione di nuove classi sociali, la nascita del commercio delle notizie progenitore dell’attuale industria dei media. La conoscenza non era più solo patrimonio delle istituzioni, dei monasteri e delle università, ma divenne accessibile a tutti, nonostante i numerosi tentativi di censura messi in atto dai vari stati e dalla Chiesa. Contemporaneamente alla nascita e alla diffusione della stampa, infatti, nasce anche la necessità tra la popolazione di una stampa indipendente e libera da ogni forma di censura, come hanno messo in evidenza illustri pensatori, tra cui John Milton, Walter Lippman, Jurgen Habermas, consapevoli del grande potere di mediazione dei media nella costruzione della realtà. Questa necessità ha portato alla emanazione, negli ordinamenti dei vari paesi, di principi a tutela della libertà di espressione e di informazione, veri e propri capisaldi dell'era liberale. Proprio a partire da questi principi si può analizzare l'effettiva possibilità di avvalersi di tali diritti da parte dei fotogiornalisti nello svolgimento della professione.
Ma vale la pena anche porsi altre domande sulla situazione dei fotogiornalisti, che riguardano il posto che la fotografia occupa nell'informazione italiana. Un'altra constatazione, oltre a quella sui fatti di Genova, ha destato l'interesse verso il fotogiornalismo e i suoi operatori: le foto sui quotidiani e i settimanali italiani non sempre sono corredate dal nome dell'autore. Come può avvenire ciò in una civiltà delle immagini? Questo elemento spinge ad indagare sulla considerazione che i giornali hanno del ruolo della fotografia e del lavoro professionale dei fotogiornalisti. Capire se esiste una cultura dell'immagine è importante per interpretare le eventuali e possibili limitazioni che questa categoria professionale subisce durante il proprio lavoro.
Per parlare del fotogiornalismo si parte ovviamente dalla scoperta della fotografia, quella tecnica in base alla quale “le immagini naturali s’imprimono da sole e rimangano fissate in modo durevole sulla carta”, secondo la definizione di William Henry Fox Talbot, uno dei padri della fotografia. Il potere delle immagini era già conosciuto, anche dalla Chiesa cristiana che da un lato temeva l’idolatria e considerava le immagini come appropriazioni pericolose degli attribuiti della realtà; ma dall’altra non voleva rinunciare a questo formidabile mezzo di comunicazione, pura presenza rituale e utile sussidio didattico per gli analfabeti.
Fu proprio la sua capacità di riprodurre la realtà con un alto grado di verosimiglianza a crearle dei problemi di legittimazione in campo artistico e scientifico e a dare inizio a una controversia con i pittori che iniziavano a sentirsi minacciati. In ogni caso non viene messa in dubbio la sincerità di questa tecnica: la fotografia è momento di autenticazione dell’evento, guardandola io so che quell’evento, con un certo grado di certezza, è stato, è accaduto. In questo capitolo sono citati alcuni dei contributi agli studi sul significato iconografico della fotografia, sono analizzati gli usi sociali più diffusi di questa tecnica e soprattutto i primi usi della foto sul giornale che hanno anticipato la nascita del fotogiornalismo. Per il suo grande potere di testimonianza, la fotografia è sempre stata considerata un utile mezzo di propaganda per i vari stati e i vari sovrani. L’esempio più lampante riguarda le guerre e i regimi totalitari. Prima della promulgazione dei principi fondamentali della libertà di stampa e i informazione, i mezzi di comunicazione sono quasi sempre stati considerati delle armi nelle mani dei potenti per creare consenso e favore presso la popolazione. E nei giorni nostri? Anche la fotografia non è sfuggita a questo scopo, anzi per il suo carattere di verità è stata considerata uno degli strumenti di propaganda migliori. Nel terzo capitolo, infatti, sulla scia dei precedenti, si mette in evidenza il forte connubio tra i media e i vari Governi per vincere le guerre o comunque per avere l’appoggio dell’opinione pubblica, con particolare attenzione alla fotografia. Si passano in rassegna alcune delle principali guerre, dalla Prima Guerra mondiale che ha visto il trionfo della propaganda in assoluto alla prima guerra del Golfo, per avere un quadro delle censure sulle notizie e sulle foto e degli usi poco corretti o manipolatori delle immagini. Quella della manipolazione è un’arte antica che i comandi militari conoscevano molto bene. Passando al dopoguerra italiano non si può scordare la disavventura fascista e l'ossessione per la fotografia perché questa parentesi totalitaria può essere considerata, almeno in parte, come uno dei motivi più esplicativi del mancato decollo del fotogiornalismo in Italia, a differenza di quanto è avvenuto negli altri Paesi. Viene qui tracciata una piccola storia dei fotografi italiani e di quel momento d’oro del nostro fotogiornalismo che coincide con l'esplosione delle riviste che facevano grande uso della fotografia, come "L'Europeo", "Il Mondo", "Epoca", e con la nascita di bravi fotografi che cercavano di ispirarsi ai modelli stranieri. Tra l’analisi di alcuni famosi casi di manipolazione ad opera dei regimi totalitari e quella di alcune fotografie finite sui giornali e rivelatesi clamorosamente dei falsi, ci si chiede quanto ci si può fidare non della tecnica in sé, ma dell’uso che di essa è stato e viene fatto. E di questo uso da parte dei giornali e di molti altri aspetti si parla nel quarto capitolo, dedicato interamente al fotogiornalismo italiano e ai suoi problemi. Il modo migliore per indagare e capire il mondo del fotogiornalismo è stato quello di dare la parola agli stessi fotografi, attraverso una intervista semi-strutturata. La diretta esperienza dei protagonisti diventa fondamentale per studiare la situazione del fotogiornalismo italiano, le condizioni e le contraddizioni in cui quotidianamente i fotografi si trovano ad operare, i problemi che essi avvertono più degli altri.
Per capire, invece, il ruolo che la fotografia ha sulla stampa italiana, si è ritenuto importante dare voce anche alla controparte redazionale dei fotogiornalisti, cioè i photo editor, che si occupano della scelta delle immagini nei giornali italiani. Essi possono infatti spiegarci come funziona il meccanismo della selezione e della pubblicazione delle foto nell'informazione italiana, quale posto occupa in esso la fotografia e in quale considerazione viene tenuta la categoria professionale dei fotogiornalisti.

Conclusioni

  • Roberta Pizzolante
  • SCATTI NEGATI. IL FOTOGIORNALISMO IN ITALIA TRA LIBERTÀ E CENSURA

"La nostra professione non è riconosciuta, è un po’ come si diceva per “L’uomo senza qualità” di Musil: sapeva fare tutto e conosceva molto ma non aveva una sua collocazione specifica. Noi che facciamo questo lavoro siamo simili. Siamo una categoria, un gruppo di professionisti che non hanno una riconoscibilità definita in una parola, che poi è anche il simbolo, la manifestazione di una realtà. E’ una realtà talmente amorfa, talmente varia, inafferrabile che non esiste neanche una parola che ci descriva. E spesso c’è un atteggiamento di minore attenzione, quasi di discriminazione, nei confronti del fotografo rispetto al giornalista o all'operatore televisivo che lavora con il giornalista ed è più tutelato. Anche da parte dei giornalisti stessi. Perché la stampa in Italia ha un atteggiamento di tipo letterario e non di informazione con una accezione più ampia: informazione è quello che si scrive o che si dice, non quello che si fa vedere". Si può far riferimento a queste parole del fotogiornalista Roby Shirer per introdurre le conclusioni di questo lavoro e gli elementi emersi dalla ricerca. Che sono stati numerosi e hanno messo in evidenza i limiti quotidiani di questa professione proprio come avevano fatto intuire le giornate di Genova. Tutti i fotogiornalisti intervistati, sia quelli delle nuove generazioni sia quelli della vecchia guardia, hanno lamentato la presenza di forme di censura e limitazioni durante lo svolgimento del proprio lavoro. Un aspetto interessante è la diversa percezione che di queste limitazioni hanno i fotogiornalisti a seconda della loro età. Quelli più navigati, che hanno conosciuto e lavorato nel mondo dell'informazione giornalistica anche prima dei grandi cambiamenti tecnologici, sembrano percepire queste limitazioni quasi come una caratteristica tipica e normale del fotogiornalismo e dell'informazione italiana, quasi accettabili. Le generazioni più giovani invece hanno dimostrato una maggiore insofferenza nei confronti di tale sistema. In ogni caso tutti gli intervistati hanno lamentato gli stessi problemi: i fotogiornalisti vengono spesso discriminati, non hanno la possibilità di accedere a certi eventi, sono sottoposti a diverse limitazioni e la loro presenza viene ancora considerata una specie di minaccia. Due tipi di censure sono state individuate. La prima, anche in ordine di attuazione, è la censura preventiva. Ai fotografi che non hanno il tesserino di giornalista o il cartellino della Presidenza del Consiglio viene spesso impedito di seguire certi eventi, come quelli politici ed economici, non concedendo loro gli accrediti indispensabili per seguire questi avvenimenti. Ma anche quando riescono ad accedere sono messi in condizioni svantaggiose di lavoro, per esempio a distanze siderali dove per ottenere un buon lavoro bisogna utilizzare obiettivi molto costosi che non tutti i fotografi possono permettersi. Inoltre spesso intervengono le limitazioni sulle inquadrature a seconda del personaggio che si sta riprendendo. In questo modo solo certi fotogiornalisti, i più attrezzati, quelli inquadrati nell'Ordine dei giornalisti o i fotografi ufficiali, possono produrre dei servizi completi e di qualità vendibili sul mercato. Gli altri invece devono accontentarsi di lavoro incompleti e approssimativi. Per questo si può legittimamente parlare di "scatti negati". Ma oltre a questo tipo di censura, che a volte si manifesta in modo brutale, ne esiste un'altra, più raffinata e subdola e con entrambe il fotogiornalista deve fare i conti, economici e psicologici. Quindi negare una foto non vuol dire solo impedire che venga scattata, basta non darle il valore che merita, metterla in pagina senza particolare attenzione oppure semplicemente non darle visibilità. Stiamo parlando della censura successiva, che avviene in fase di pubblicazione. Non è detto, infatti, che una volta scattate le foto esse trovino spazio sulle pagine dei giornali, vista la grande concorrenza delle agenzie in grado di fornire ogni tipo di immagine alle redazioni giornalistiche. E qui si entra nel vivo di un altro importante discorso: le foto sui giornali. Molto spesso le fotografie sui giornali hanno la funzione di un riempitivo, non sempre sono corredate dal credit fotografico, da una corretta didascalia e a volte sono soggette ad elaborazioni che possono mistificarne il senso. Quando non è per scopi manipolatori, è per un fatto estetico che chi sta nelle redazioni si arroga il diritto di usare a proprio piacimento le fotografie. Colpa dei cambiamenti nel mondo della comunicazione: i tempi di creazione dei giornali sono talmente veloci che si preferisce prendere le foto che arrivano dai circuiti delle agenzie senza controllare certi particolari importanti, come le didascalie o l'effettiva rispondenza della foto al contenuto dell'articolo. E le si adegua alla pagina concordata con la redazione cambiandone il taglio. Tanto ciò che conta in fin dei conti è il testo scritto.
E’ dalla metà degli anni trenta che la fotografia è utilizzata sulle pagine dei quotidiani eppure ancora oggi è per lo più storpiata e banalizzata, con poco rispetto per il suo autore. Con l’eccezione di pochi casi, è quasi un inutile orpello rispetto alla pagina scritta: la foto tessera del ministro o dell’attrice, le foto di gruppo delle Eccellenze e delle Eminenze, le banalità di una scena a volte tragica immiserita dal taglio, dall’inquadratura, dalla prospettiva. Una copia delle immagini che si vedono passare in televisione.
Eppure è incontestabile l'importanza delle immagini.
Al giorno d'oggi un evento non può definirsi tale senza una documentazione visiva. In via teorica cioè un fatto che non può essere raccontato anche con le immagini non esiste, non accade. Da qui la necessità, la richiesta di immagini e dunque anche di fotografie, che siano il più possibili rispondenti al vere e non create artificialmente dai fotogiornalisti o dalle redazioni dei giornali.
Ma allora perché la fotografia sembra avere un ruolo del tutto marginale? I fotogiornalisti parlano di appiattimento del mercato editoriale allo stile televisivo e mettono in evidenza la mancanza di spazi per servizi di approfondimento su questioni sociali rilevanti. La tendenza all'approfondimento fotogiornalistico si scontra con le richieste dell'editoria, principale referente dei reportage fotografici, un'editoria che si adegua e si allinea alla superficialità della televisione, scimmiottandone i contenuti anziché trovare spazi e temi alternativi. Perciò l’approfondimento viene filtrato attraverso imbuti redazionali: agenzie, photo editor, direttori, direttori editoriali, referenti politici che scremano la produzione fotografica. Lo scoraggiamento dei fotogiornalisti, costretti ai margini, è forte e porta anche loro ad appiattirsi sulle richieste di bassa qualità del mercato editoriale invece di cercare l'approfondimento e la qualità. Molti di loro hanno dovuto seguire la tendenza generale per poter sopravvivere, producendo immagini generaliste buone per tutti i giornali. Questo ha contribuito ad abbassare gli standard di qualità. Il problema, quindi, sta anche all'interno della categoria dei fotogiornalisti. Cresce il numero di coloro che si sono rassegnati - o meglio che vengono spinti alla rassegnazione - e che non si pongono nemmeno il problema di riuscire a fare informazione, ma solo quello di guadagnare più soldi possibile, mettendo in discussione la serietà della categoria intera.
I problemi del fotogiornalismo e le lacune del sistema informativo italiano non sono comprensibili se non si citano quelli che possono essere considerati i limiti strutturali di questa professione. Il ritardo con cui il fotogiornalismo è giunto in Italia, la mancanza di insegnamenti e corsi che educassero a una cultura dell'immagine sia tra i fotografi sia tra chi lavora nelle redazioni, la prevalenza della cultura scritta e letteraria e l'incapacità dei nostri fotografi a riunirsi in una associazione che li rendesse più forti dal punto di vista contrattuale, più tutelati.
Il fotogiornalista, infatti, è una goccia d’anarchia nel mare dell’informazione e come tale è talvolta utile per la sua creatività al mondo editoriale ma più spesso è soggetto a boicottaggio perché non è controllabile fin dall’inizio della sua prestazione professionale. Tende per natura a sfuggire a qualsiasi controllo: teoricamente le sue qualità sono infatti tanto più sviluppate quanto maggiore è il suo grado o la sua capacità di agire in piena autonomia, praticamente al giorno d’oggi questa capacità del fotoreporter non solo non è sfruttata al massimo delle sue potenzialità ma è addirittura castrata, mutilata, boicottata, perché un fotogiornalista non solo è un testimone, spesso unico, ma proprio per questo tende anche a prendere posizione e ad offrire un punto di vista personale. Spesso il fotogiornalista viene considerato, anche dai colleghi della carta stampata, un professionista di serie B, poco colto, tutta al più capace di fare delle "paparazzate" ma al quale non si riconosce una professionalità giornalistica, anche perché - come abbiamo detto - non è parte di una categoria propria e riconosciuta. Molti dei fotogiornalisti intervistati hanno messo in evidenza le discriminazioni nei loro confronti. "Il fotografo non è un lavoratore, è un mercenario, nessuno rischia con lui, perché solo così si crea la competizione e il mercato" dice Francesco Zizola.
Le osservazioni fin qui fatte, frutto di un lavoro di ricerca empirico, testimoniano che la situazione del fotogiornalismo non è delle migliori e che i problemi sono al suo interno e nel sistema informativo italiano, ancora troppo pieno di pregiudizi nei confronti di questa professione. E possono essere degli utili spunti di riflessione. Prima di tutto è necessaria da parte dei fotogiornalisti una ridefinizione del proprio ruolo: proprio prendendo la televisione come punto di riferimento, i fotogiornalisti dovrebbero iniziare a produrre un'informazione alternativa al flusso di immagini della televisione. Perché il ruolo dell’istantanea, dell’immagine fissa non è tramontato. Essa resta a volte anche più impressa delle mille sequenze di immagini che vediamo in televisione. La fotografia non è un reperto immobile che recita se stesso. Essa resta e cambia con il mutare degli eventi, cambia con le emozioni che essa provoca, vive altre vite dentro altre culture. Stranamente, invecchia meno della storia.
Dall'altra parte, per offrire un’informazione più approfondita e diversa da quella televisiva, i giornali dovrebbero rivalutare la fotografia e farne un uso diverso da quello attuale, dimostrando più attenzione anche nei confronti dei fotografi e tornando a stimolare una certa produzione. E' d'obbligo, in ogni caso, che si contribuisca in qualche modo alla crescita della cultura fotografica in Italia e all'abbattimento di quelle barriere troppo letterarie che ancora permangono nel giornalismo italiano. Una maggiore preparazione da parte dei fotogiornalisti e di chi lavora nelle redazioni e una forma di organizzazione professionale per questa categoria potrebbe contribuire a risolvere molti dei problemi del fotogiornalismo e a insegnare al mondo dell'informazione italiana che la qualità di un giornale passa anche attraverso le immagini.
Scrive il fotografo francese Jean-Louis Courtinat nella post fazione al suo libro "Les enfants du diable": "Essere utile. Non credo di cercare altre cose nel mio mestiere di fotografo. Non ho mai voluto essere spettatore o testimone, sono sempre stato là dove pensavo che la mia presenza potesse servire a qualcosa, convinto che le immagini che riprendo siano al servizio di coloro che mi hanno permesso di farle. La forma mi importa poco o soltanto per rendere più chiaro il mio proposito, per far sì che la mano tesa sia ferma ed efficace". Questo intento di utilità sociale dovrebbe guidare i nostri fotogiornalisti e soprattutto l'informazione italiana in generale. Solo laddove si offrono degli spazi può nascere la cultura.

Bibliografia

  • Roberta Pizzolante
  • SCATTI NEGATI. IL FOTOGIORNALISMO IN ITALIA TRA LIBERTÀ E CENSURA

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