Pier Francesco Frillici

Sulle Strade del Reportage

Walker Evans e il Surrealismo, Robert Frank e la cultura Beat, Lee Friedlander e l’Informale e l’analisi del linguaggio fotografico. Pier Francesco Frillici collega 3 fra i più grandi fotografi del Novecento e questi con i movimenti artistici e culturali in cui si sono trovati immersi e di cui sono stati interpreti, aprendo così al reportage fotografico strade inesplorate.

La strada è l’altra grande protagonista del libro, anzitutto perché il reportage ha per propria natura nel mondo il proprio centro di interesse (“Se qualunque fotografia può essere, teoricamente, considerata un reportage, è sempre opportuno distinguerlo dalla fotografia in studio per poter esaminare le forme che assume il mondo vivente attraverso una registrazione meccanica.” Dalla voce Reportage del Dizionario di Fotografia Rizzoli-Contrasto), secondariamente perché i movimenti culturali e artistici, di cui Evans, Frank e Friedlander sono stati attori, hanno scelto la strada come punto di osservazione della realtà, e infine perché Evans-Frank-Friedlander costituiscono una delle vie principali, se non la principale, lungo cui si è mosso il linguaggio fotografico del 900. Pensandoci bene, i principali filoni della fotografia contemporanea, dal paesaggio, alla fotografia diaristica, alla fotografia messa in scena, prendono tutti avvio dal grande rinnovamento compiuto dai tre grandi fotografi americani.

Walker Evans è il capofila dei fotografi che, dopo l’uscita della fotografia dalle ambiguità del pittorialismo e l’approdo alla straight photography, invece di aderire all’estetica del modernismo, che da Stieglitz e Strand e poi con Adams Weston e Abbott in avanti ha fatto delle forme della natura, della città, del corpo l’oggetto della propria indagine, ha scelto la strada e con questa una visione normale della città e dell’ambiente urbano e suburbano, riprendendo l’opera di Eugene Atget dei primi del secolo, l’attitudine del flaneur e del collezionista dada di oggetti, ready-made, aggiornato secondo lo spirito e l’estetica del Surrealismo, movimento che ha trovato proprio nella fotografia il medium ideale per dare forma alle teorie di Breton. La natura stessa della fotografia, la capacità di scrittura automatica e la copia decontestualizzata del mondo che restituisce può in un certo senso essere considerata di per sé surrealista. La capacità di Evans è stata quella di portare il linguaggio surrealista sulla strada, offrendo punti di vista normali, collezionando e accumulando frammenti di mondo. American Photographs, la sua opera più importante, contiene il risultato di questa straordinaria raccolta di object trouvee, mostrando contemporaneamente i legami con il surrealismo, Benjamin e Duchamp.

Il passo successivo è compiuto da Robert Frank, grazie al quale, come racconta Frillici in una sua intervista a Radio 3 , la fotografia dalla street passa alla road, mentre il fotografo svizzero intraprende un viaggio fotografico e personale attraverso gli Stati Uniti, nel famoso The Americans introdotto da Jack Kerouac. Un passaggio. Dallo posizione e dallo sguardo distaccato, da flaneur, di Evans, puro osservatore, il fotografo entra nella scena, a cui partecipa con i propri sentimenti, sensazioni, debolezze. La fotografia e la vita diventano una cosa unica, e come la vita la fotografia può essere brutta, sporca, indefinita, incerta, grigia e senza forma. Il fotografo cessa di mettere in posa il mondo e inizia ad andargli incontro, un incontro che non sempre ha esiti estetici e formali perfetti, pacificati, ma che anzi mostra spesso le debolezze e le mancanze di entrambi.

Con Lee Friedlander la fotografia di reportage riflette su se stessa, si interroga sul proprio passato e sulla propria natura, analizza le caratteristiche principali dello strumento ottico e della visione, mette in luce possibilità e debolezze, indaga il proprio statuto. Le Verifiche di Ugo Mulas sistematizzano le riflessioni sul mezzo e sul vedere fotografico, ricollegandosi agli esperimenti visivi che Friedlander fece, ancora una volta, sulla strada. Per Friedlander la fotografia e il reportage sono sia un’estroversione e un incontro con l’esterno e il mondo, sia un’indagine su se stessi e sul proprio “io”. Self Portrait si intitola significativamente l’opera più importante di Friedlander, in cui visioni multiple, riflessi, sovrapposizioni di piani esplicitano la presenza ingombrante e ineliminabile della percezione e dell’auto-percezione del fotografo. La riflessione di Friedlander lo conduce a trovare la forma adatta alle proprie conclusioni filosofiche sullo statuto della fotografia, continuando a operare comunque sulla strada.

Slegare il reportage fotografico dal fotogiornalismo e dalla fotografia sociale tout-court è la grande scommessa di Frillici, che ricorda come la definizione di reportage, se da un lato potrebbe essere estesa a qualsiasi fotografia, dall’altro ha finito per essere ristretta ad un solo ambito, quello giornalistico o documentario, ridimensionandone possibilità e ambizioni. E qualche volta impoverendone il linguaggio. In questo momento fotografia e giornalismo sono costretti, dalle situazioni contingenti del mercato editoriale, a riflettere su se stessi e sul modo di raggiungere efficacemente l’opinione pubblica, sempre più debole e disinformata, trovando anche nuove forme di collaborazione e di rappresentazione. In un mondo interdisciplinare e interdipendente, il legame con le arti e con la cultura non può essere trascurato, pertanto ricordare la propria presenza nella cultura e nella storia contemporanee consente alla fotografia di stabilire la propria necessità in qualunque analisi e rappresentazione della società e del mondo che voglia essere completa. Il messaggio di Frillici è di grande speranza: il reportage fotografico sopravvivrà anche all’eventuale fine dei giornali.

Federico Della Bella

In rete:

Recensione su Cultframe di Maurizio G. De Bonis

Pier Francesco Frillici parla del libro a Radio 3 Suite